martedì 3 gennaio 2017

Pigrizia o tradimento?


Eccoci come promesso a commentare l’articolo dell’Economist sul 2016, annus horribilis del liberalismo. Dicevamo nella nota introduttiva che la rivista fa un’analisi abbastanza obiettiva su questa crisi. Inizia elencando la serie di eventi che hanno costituito “uno schiaffo durissimo” per la concezione liberale della politica e delle libertà individuali, dalla svolta della Turchia a quella delle Filippine. Fa persino un interessante parallelismo tra le due fasi di transizione, quella attuale e quella avvenuta nel diciannovesimo secolo, tra il consolidato modo di vivere ottocentesco e le sfide destabilizzanti poste dalle forze tecnologiche, economiche, sociali e politiche. Anche allora si avvertiva la necessità di maggiore ordine e protezione da parte dello Stato, e le due soluzioni che si prospettarono furono: quella illiberale dell’uomo forte, conservatore o rivoluzionario, con sufficiente potere da decidere per tutti cosa fosse meglio; e quella liberale che invece proponeva non di concentrare il potere nelle mani di uno o di pochi, bensì di disperderlo usando lo stato di diritto, i partiti politici e i mercati in concorrenza tra loro. S’impose quest’ultima visione perché era quella della borghesia allora in piena affermazione e andò avanti così (aggiungiamo noi) fino agli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando di fronte al pericolo rosso incalzante i ceti privilegiati (compresa la borghesia) e la Chiesa trovarono più rassicurante affidarsi ai fascismi degli uomini forti.

Anche oggi la gente, provata dall’aumento delle disuguaglianze, chiede maggiore sicurezza. Ed è a questo punto però che l’articolo dell’Economist comincia a perdere di obiettività e lucidità. Inizialmente in modo quasi impercettibile, perché individua bene il momento della svolta negativa e riconosce le responsabilità dei liberali. “Nell’ultimo quarto di secolo per il liberalismo le cose sono state troppo facili. Il suo dominio dopo il collasso del comunismo sovietico si è trasformato in pigrizia e compiacenza”. I liberali, rincuorati dalla sconfitta del comunismo, si sono compiaciuti negli ozi e negozi consentiti dal loro stato di diritto, e poco si sono curati dell’aumento delle disuguaglianze che il loro agire stava producendo, rassicurati sempre dalla loro filosofia che premia il merito anche quando si traduce in privilegio di pochi e disagio dei molti. Dove comincia ad avvertirsi la perdita di obiettività? Nel considerare quest’atteggiamento solo frutto di “pigrizia e compiacenza”. Nel definire il liberalismo “il miglior modo per conferire dignità e portare prosperità e uguaglianza”. Nell’attribuire semmai agli impoveriti, alla “gente”, mancanza di obiettività, perdita di fiducia nel progresso, visione distorta dei fatti che esagera la realtà, dove “il progresso vale principalmente per gli altri, la ricchezza non è distribuita, le nuove tecnologie distruggono posti di lavoro, le classi subalterne vivono al di là d’ogni possibilità d’aiuto o di redenzione, altre culture costituiscono una minaccia, spesso violenta”.

L’articolo chiude prospettando delle soluzioni liberali alla crisi, che forniscano “una risposta anche per i pessimisti”. Ammette che “durante questi anni al potere, le soluzioni liberali sono state deludenti”, ma attribuisce questo comportamento ad autocompiacimento, alla pigrizia, alla mancanza d’immaginazione. E allora propone di aprirsi ai bisogni che esprime la società esplorando “le prospettive offerte dalla tecnologia” e nuove forme di democrazia partecipata che parta dal basso, dalle comunità locali. Dell’aspetto etico non si fa alcuna menzione e s’ignorano le contraddizioni che convivono nell’ideologia liberale. L’articolo ha il merito di analizzare i fatti della crisi con discreta obiettività, chiamando in causa anche le responsabilità dello stesso liberalismo, ma lo fa dal suo interno. Sono i liberali che giudicano se stessi, incapaci di scavare sino in fondo ed esprimendo su di sé un giudizio a dir poco indulgente.

Quest’atteggiamento viene considerato miope e pericoloso persino da alcuni studiosi di area liberale come il sociologo Lorenzo Infantino, che accusa soprattutto i politici di vivere in un mondo virtuale costruito dagli esperti nella comunicazione e delineato dalla loro lettura dei fatti. In tal modo essi sovrappongono una realtà virtuale, una meta-realtà, alla realtà vissuta dai cittadini quotidianamente, perdendo così il contatto con l’uomo della strada e quindi con l’elettore. È l’errore – afferma Infantino – commesso da Hillary Clinton, la candidata democratica alla presidenza USA, che ha pagato a caro prezzo a favore del candidato Trump, improbabile per tratti di carattere e storia personale, ma ritenuto credibile per il solo fatto di avere denunciato questa realtà virtuale in cui si culla l’establishment.

Certo, l’Economist prende atto della situazione di crisi e di difficoltà in cui i liberali si trovano. E lo sono in modo evidente sia sul piano internazionale che sul piano interno. Essi devono fronteggiare – afferma il politologo Angelo Panebianco – “una forte protesta sociale che in larga misura è la conseguenza di una lunga crisi economica, e che mette in difficoltà le forze liberali perché domanda più Stato, più protezione statale”. Lo stesso Trump “non c’è dubbio che sia stato portato alla massima carica degli Stati Uniti anche da una fortissima spinta protezionista”.

L’articolo mette in evidenza molti aspetti reali della crisi attuale. Quella che il politologo Biagio De Giovanni ha definito la prima crisi politica della globalizzazione. La prima crisi nella quale il mondo globale non riesce più a governare se stesso. E questa crisi apre campi di grandi anomalie, eccezioni, disordine. De Giovanni concorda con l’analisi dell’Economist quand’esso richiama tali fenomeni e concorda pure con il timore che a causa di ciò possano essere messe in discussione le conquiste che ci ha portato la civiltà liberale, ovvero maggiore libertà e diritti in tutti i campi. Ma il liberalismo non è solo questo, su cui si può essere tutti d’accordo. Il liberalismo – afferma De Giovanni – è un fatto complesso e carico di contraddizioni al suo interno. Quando infatti esso diventa di fatto rigetto della politica, ovvero rifiuto tendenziale della decisione politica, affermazione dei diritti umani senza la loro effettiva tutela politica, quando diventa cosmopolitismo che rigetta e rifiuta le identità, che esistono nel mondo e che devono trovare un punto di mediazione… Per dirla più in breve: quando il liberalismo diventa liberismo, cioè quando diventa tendenziale governo dell’economia e tendenziale rifiuto della politica, allora si capisce perché il liberalismo è in crisi.

Simile giudizio esprime il filosofo Aldo Masullo che trova inevitabilmente partigiano l’articolo dell’Economist. Ovviamente è incontestabile il principio della difesa dei diritti individuali, quello che oppone alla tendenza totalizzante la difesa dei singoli individui. Tutto questo si è realizzato attraverso i principi costituzionalistici, già teorizzati nel Settecento, che pongono dei punti di resistenza molto forti e molto precisi in difesa delle libertà individuali, ed è quello che abbiamo chiamato lo stato di diritto; conquista che viene posta in pericolo con la crisi del liberalismo. Dov’è allora che la discussione si fa più delicata, come sempre d’altra parte quando si parla di liberalismo? Quando si tocca il rapporto tra il liberalismo inteso come grande principio e l’economia liberale, l’economia di mercato, perché è quello il punto di caduta della discussione. Il rapporto tra il principio liberale e i vari aspetti della personalità umana, compreso l’aspetto economico, il principio dell’insindacabile libertà economica della persona, diventa difficile da sostenere quando l’economia è in crisi.

L’aumento delle disuguaglianze, l’impoverimento della classe operaia, prima, e della classe media, poi, che sono seguiti al collasso del comunismo sovietico e al dominio del liberalismo, “si è trasformato in pigrizia e compiacenza”, afferma l’Economist, come abbiamo letto e fatto osservare. Giudizio indulgente nei confronti di chi ha imposto la deregulation e vi ha cinicamente lucrato nel nome della meritocrazia e della libertà d’impresa.  Anziché “pigrizia e compiacenza” il giornalista Federico Rampini, di Repubblica, preferisce chiamare questo comportamento “Il tradimento”. È il titolo del suo ultimo libro, pubblicato a novembre. Sottotitolo: “Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite”. Tradimento e non pigrizia. Secondo Rampini il tradimento della classe dirigente si consuma sopratutto su due promesse mancate: una società multietnica integrata e armoniosa e una globalizzazione in grado di arricchire tutti.

“Per élite – afferma Rampini – intendo un ceto privilegiato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali, pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io. Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teorizzato e propagandato i benefici delle frontiere aperte: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare un’astratta retorica europeista mentre per milioni di persone l’euro e l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento. Il tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro il mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori”.

Le élite, cioè l’1% della popolazione occidentale, sono le uniche che hanno tratto beneficio dalla globalizzazione. Si sono arricchite soprattutto le élite economico finanziarie a cui fanno da reggicoda le élite politiche imbelli e corrotte, e le élite culturali che non hanno svolto con serietà il ruolo di coscienza critica del processo. Per gli altri ha significato impoverimento generale, delocalizzazioni, stagnazione, immigrazione di massa per mantenere bassi i salari e diluire le identità nazionali, aumento esponenziale delle disuguaglianze con forte assottigliamento del ceto medio, peraltro tartassato visto che alle multinazionali si consente di eludere il fisco. Se non si può ormai eliminare la globalizzazione – afferma Rampini – si deve almeno ricostruirla su una base più equa. È inaccettabile che le moderne oligarchie fissino regole per gli altri, rifiutando di applicarle a se stesse. “Come stupirsi se una parte di noi perde fiducia nella democrazia stessa?”.  Può la democrazia sopravvivere all’impoverimento della classe media? Questa è la domanda che dovrebbero porsi i pigri e compiacenti liberali, così definiti dall’Economist. Impaurite dai fenomeni destabilizzanti della globalizzazione e dell’immigrazione incontrollata, “senza una guida, abbandonate dai loro leader sempre più insignificanti e irrilevanti – afferma Rampini – le opinioni pubbliche occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme”.



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