Eccoci come promesso a commentare l’articolo dell’Economist sul 2016, annus horribilis del liberalismo. Dicevamo nella nota introduttiva che la rivista fa un’analisi abbastanza obiettiva su questa crisi. Inizia elencando la serie di eventi che hanno costituito “uno schiaffo durissimo” per la concezione liberale della politica e delle libertà individuali, dalla svolta della Turchia a quella delle Filippine. Fa persino un interessante parallelismo tra le due fasi di transizione, quella attuale e quella avvenuta nel diciannovesimo secolo, tra il consolidato modo di vivere ottocentesco e le sfide destabilizzanti poste dalle forze tecnologiche, economiche, sociali e politiche. Anche allora si avvertiva la necessità di maggiore ordine e protezione da parte dello Stato, e le due soluzioni che si prospettarono furono: quella illiberale dell’uomo forte, conservatore o rivoluzionario, con sufficiente potere da decidere per tutti cosa fosse meglio; e quella liberale che invece proponeva non di concentrare il potere nelle mani di uno o di pochi, bensì di disperderlo usando lo stato di diritto, i partiti politici e i mercati in concorrenza tra loro. S’impose quest’ultima visione perché era quella della borghesia allora in piena affermazione e andò avanti così (aggiungiamo noi) fino agli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando di fronte al pericolo rosso incalzante i ceti privilegiati (compresa la borghesia) e
Anche oggi la gente, provata dall’aumento delle
disuguaglianze, chiede maggiore sicurezza. Ed è a questo punto però che
l’articolo dell’Economist comincia a
perdere di obiettività e lucidità. Inizialmente in modo quasi impercettibile,
perché individua bene il momento della svolta negativa e riconosce le
responsabilità dei liberali. “Nell’ultimo quarto di secolo per il liberalismo
le cose sono state troppo facili. Il suo dominio dopo il collasso del comunismo
sovietico si è trasformato in pigrizia e compiacenza”. I liberali, rincuorati dalla
sconfitta del comunismo, si sono compiaciuti negli ozi e negozi consentiti dal
loro stato di diritto, e poco si sono curati dell’aumento delle disuguaglianze
che il loro agire stava producendo, rassicurati sempre dalla loro filosofia che
premia il merito anche quando si traduce in privilegio di pochi e disagio dei
molti. Dove comincia ad avvertirsi la perdita di obiettività? Nel considerare
quest’atteggiamento solo frutto di “pigrizia e compiacenza”. Nel definire il
liberalismo “il miglior modo per conferire dignità e portare prosperità e
uguaglianza”. Nell’attribuire semmai agli impoveriti, alla “gente”, mancanza di
obiettività, perdita di fiducia nel progresso, visione distorta dei fatti che
esagera la realtà, dove “il progresso vale principalmente per gli altri, la
ricchezza non è distribuita, le nuove tecnologie distruggono posti di lavoro,
le classi subalterne vivono al di là d’ogni possibilità d’aiuto o di
redenzione, altre culture costituiscono una minaccia, spesso violenta”.
L’articolo chiude prospettando delle soluzioni liberali alla
crisi, che forniscano “una risposta anche per i pessimisti”. Ammette che “durante
questi anni al potere, le soluzioni liberali sono state deludenti”, ma
attribuisce questo comportamento ad autocompiacimento, alla pigrizia, alla
mancanza d’immaginazione. E allora propone di aprirsi ai bisogni che esprime la
società esplorando “le prospettive offerte dalla tecnologia” e nuove forme di
democrazia partecipata che parta dal basso, dalle comunità locali. Dell’aspetto
etico non si fa alcuna menzione e s’ignorano le contraddizioni che convivono
nell’ideologia liberale. L’articolo ha il merito di analizzare i fatti della
crisi con discreta obiettività, chiamando in causa anche le responsabilità
dello stesso liberalismo, ma lo fa dal suo interno. Sono i liberali che
giudicano se stessi, incapaci di scavare sino in fondo ed esprimendo su di sé
un giudizio a dir poco indulgente.
Quest’atteggiamento viene considerato miope e pericoloso
persino da alcuni studiosi di area liberale come il sociologo Lorenzo
Infantino, che accusa soprattutto i politici di vivere in un mondo virtuale
costruito dagli esperti nella comunicazione e delineato dalla loro lettura dei
fatti. In tal modo essi sovrappongono una realtà virtuale, una meta-realtà,
alla realtà vissuta dai cittadini quotidianamente, perdendo così il contatto
con l’uomo della strada e quindi con l’elettore. È l’errore – afferma Infantino
– commesso da Hillary Clinton, la candidata democratica alla presidenza USA,
che ha pagato a caro prezzo a favore del candidato Trump, improbabile per tratti
di carattere e storia personale, ma ritenuto credibile per il solo fatto di
avere denunciato questa realtà virtuale in cui si culla l’establishment.
Certo, l’Economist
prende atto della situazione di crisi e di difficoltà in cui i liberali si
trovano. E lo sono in modo evidente sia sul piano internazionale che sul piano
interno. Essi devono fronteggiare – afferma il politologo Angelo Panebianco – “una
forte protesta sociale che in larga misura è la conseguenza di una lunga crisi
economica, e che mette in difficoltà le forze liberali perché domanda più
Stato, più protezione statale”. Lo stesso Trump “non c’è dubbio che sia stato
portato alla massima carica degli Stati Uniti anche da una fortissima spinta
protezionista”.
L’articolo mette in evidenza molti aspetti reali della crisi
attuale. Quella che il politologo Biagio De Giovanni ha definito la prima crisi
politica della globalizzazione. La prima crisi nella quale il mondo globale non
riesce più a governare se stesso. E questa crisi apre campi di grandi anomalie,
eccezioni, disordine. De Giovanni concorda con l’analisi dell’Economist quand’esso richiama tali
fenomeni e concorda pure con il timore che a causa di ciò possano essere messe
in discussione le conquiste che ci ha portato la civiltà liberale, ovvero
maggiore libertà e diritti in tutti i campi. Ma il liberalismo non è solo
questo, su cui si può essere tutti d’accordo. Il liberalismo – afferma De
Giovanni – è un fatto complesso e carico di contraddizioni al suo interno.
Quando infatti esso diventa di fatto rigetto della politica, ovvero rifiuto
tendenziale della decisione politica, affermazione dei diritti umani senza la loro
effettiva tutela politica, quando diventa cosmopolitismo che rigetta e rifiuta
le identità, che esistono nel mondo e che devono trovare un punto di
mediazione… Per dirla più in breve: quando il liberalismo diventa liberismo,
cioè quando diventa tendenziale governo dell’economia e tendenziale rifiuto
della politica, allora si capisce perché il liberalismo è in crisi.
Simile giudizio esprime il filosofo Aldo Masullo che trova inevitabilmente
partigiano l’articolo dell’Economist.
Ovviamente è incontestabile il principio della difesa dei diritti individuali, quello
che oppone alla tendenza totalizzante la difesa dei singoli individui. Tutto
questo si è realizzato attraverso i principi costituzionalistici, già
teorizzati nel Settecento, che pongono dei punti di resistenza molto forti e
molto precisi in difesa delle libertà individuali, ed è quello che abbiamo
chiamato lo stato di diritto; conquista che viene posta in pericolo con la
crisi del liberalismo. Dov’è allora che la discussione si fa più delicata, come
sempre d’altra parte quando si parla di liberalismo? Quando si tocca il
rapporto tra il liberalismo inteso come grande principio e l’economia liberale,
l’economia di mercato, perché è quello il punto di caduta della discussione. Il
rapporto tra il principio liberale e i vari aspetti della personalità umana,
compreso l’aspetto economico, il principio dell’insindacabile libertà economica
della persona, diventa difficile da sostenere quando l’economia è in crisi.
L’aumento delle disuguaglianze, l’impoverimento della classe
operaia, prima, e della classe media, poi, che sono seguiti al collasso del
comunismo sovietico e al dominio del liberalismo, “si è trasformato in pigrizia
e compiacenza”, afferma l’Economist,
come abbiamo letto e fatto osservare. Giudizio indulgente nei confronti di chi
ha imposto la deregulation e vi ha
cinicamente lucrato nel nome della meritocrazia e della libertà d’impresa. Anziché “pigrizia e compiacenza” il
giornalista Federico Rampini, di Repubblica, preferisce chiamare questo
comportamento “Il tradimento”. È il titolo del suo ultimo libro, pubblicato a
novembre. Sottotitolo: “Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite”.
Tradimento e non pigrizia. Secondo Rampini il tradimento della classe dirigente
si consuma sopratutto su due promesse mancate: una società multietnica
integrata e armoniosa e una globalizzazione in grado di arricchire tutti.
“Per élite – afferma Rampini – intendo un ceto privilegiato
che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita
direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di
governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Più
coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la
diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali,
pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io. Il
tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della
globalizzazione, abbiamo teorizzato e propagandato i benefici delle frontiere
aperte: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo
continuato a recitare un’astratta retorica europeista mentre per milioni di
persone l’euro e l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento. Il
tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma
di immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro il
mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori”.


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