Il fatto è ormai risaputo. Angela Merkel, al termine del vertice di
Malta, ha dichiarato che la storia degli ultimi anni ci ha insegnato
“che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti
parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea”. Ha inoltre
auspicato che questo concetto venga formalizzato nella Dichiarazione per
il 60° anniversario dei Trattati di Roma che a marzo si celebrerà nella
Capitale italiana. In quell’occasione infatti i Paesi membri
dell’Unione dovranno tracciare la tabella di marcia dei prossimi 10
anni, incalzati da varie empasse, emergenze ed eventi ostili quali il
terrorismo, l’invasione dei migranti, la Brexit e l’elezione di Trump.
Alle parole della cancelliera è stata subito data la grande evidenza
che si riserva alle affermazioni clamorose e d’importanza prioritaria.
Ci siamo chiesti cos’ha di strepitoso la notizia per meritare tanta
risonanza? Peraltro di Unione Europea “a differenti velocità” aveva già
parlato il presidente francese François Hollande, riferendosi in
particolare a quei paesi dell’Est che non rispettano gli impegni pur
ricevendo sostanziosi sussidi da Bruxelles. E poche ore prima del summit
di Malta, i tre leader del Benelux (Michel, Rutte e Bettel) avevano
diramato un documento in cui si parlava di “diverse forme di
integrazione” tra Paesi diversi nel quadro dell’Ue. Di questo documento
gli organi d’informazione hanno parlato poco. Quando il giorno dopo la
Cancelliera tedesca ha fatto propria la proposta lanciata dai Paesi del
Benelux, la notizia dei diversi tempi e forme d’integrazione invece non è
passata inosservata.
D’altra parte non è certo il concetto in sé
che è nuovo. Di Europa a doppia velocità si parlava già negli anni a
cavallo tra gli ’80 e i ’90. Cioè ben da prima che la maggior parte dei
Paesi ex comunisti, spinti soprattutto da ragioni economiche e di
sicurezza, entrassero nella Comunità europea. La doppia velocità
prefigurava uno scenario dove gli Stati più motivati a rafforzare
l’unione politica avrebbero preceduto quelli meno pronti. I nuovi
ingressi conseguenti alla caduta del muro, diedero maggiore attualità
alla proposta perché l’Unione allargata rendeva ancora più farraginoso
il funzionamento delle istituzioni e accresceva le differenze tra le
motivazioni che avevano portato all’associazione. Apparvero così
espressioni quali: “iniziativa degli Stati pionieri”, “forme di
cooperazione rafforzata”, “sistema delle geometrie variabili”, ecc.
Nell’iniziativa degli Stati pionieri l’Unione aveva solo in parte
motivazioni economiche, e questi erano pertanto più motivati a procedere
con l’integrazione politica rispetto a coloro che si erano aggiunti
successivamente e che erano soprattutto mossi da ragioni economiche.
Non solo, ma l’Europa a più velocità esiste già da tempo. Esistono
accordi che aggregano alcuni stati e non altri su determinate finalità.
Gli accordi più noti e importanti sono quello sull’adozione della moneta
unica, cioè la zona euro, e quello sulla libera circolazione delle
persone, il cosiddetto Spazio Schengen. Ma ce ne sono altri ancora, ad
esempio sulla cooperazione in materia giudiziaria, o di brevetto unico;
c’è il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997 dagli allora 15 paesi
dell’Unione europea in materia di libertà, sicurezza e giustizia. E si
parla di farne altri, come quello sulla difesa comune o sulla tassazione
delle transazioni finanziarie. Sono tutti accordi che vanno nella
direzione di rafforzare l’unione politica e che rendono i Paesi interni
firmatari più integrati rispetto agli altri nell’Unione europea.
L’esistenza di questi trattati implica diversi ritmi d’integrazione. E
non si tratta di iniziative estemporanee, almeno dal 2009 quando la
riforma di Lisbona ha previsto un preciso “motore giuridico”, modulato
sulle cosiddette cooperazioni rafforzate.
Ma allora, se il
concetto di velocità differenziata non solo è noto ma è di fatto già in
atto, per quale ragione la dichiarazione di Angela Merkel, e proprio la
sua, ha suscitato tanto clamore? Per almeno due motivi. Innanzi tutto
perché parlarne era rompere un tabù. Tutti sanno che gli Stati
dell’Unione hanno raggiunto livelli diversi d’integrazione, a seconda
della loro appartenenza alle diverse forme rafforzate di cooperazione;
non si poteva però mettere in relazione tali appartenenze con le diverse
velocità dell’Europa (almeno non apertamente) poiché farlo avrebbe
significato riconoscere che non tutti gli Stati condividono le stesse
ambizioni. Adesso si ammette chiaramente che esistono partner (oltre al
Regno Unito, sempre esplicito sull’argomento) che non ambiscono
all’unione politica. È la fine di un’ipocrisia che si chiede trovi
formalizzazione nel documento programmatico che a marzo sarà stilato a
Roma.
Il secondo motivo è che la presa d’atto giunge dai
tedeschi. Non solo per l’importanza che la Germania riveste nell’Unione,
ma soprattutto per il fatto che essa ha sempre vissuto con ambivalenza
il discorso delle velocità variabili, preoccupata per le conseguenze
sull’integrità del mercato unico. La principale attenzione alle
esportazioni tedesche prioritaria persino sull’unione politica, che però
non viene esclusa, ha orientato le politiche di Berlino da Maastricht
in poi. Ciò ha fatto sì che la Germania si rivelasse il più immobilista
tra i Paesi fondatori dell’Unione. È l’accusa che il filosofo Jürgen
Habermas ha mosso ad Angela Merkel di “frenetico immobilismo”, di
impegnarsi attivamente per conservare lo status quo. Ma lo star fermi si
paga con la rinuncia alla progettazione politica e quest’atteggiamento
attendista – prosegue Habermas – soprattutto quando soffiano venti di
crisi produce danni. “In caso di pericolo e di più grande bisogno la via
di mezzo porta alla morte”. Non è indice di buonsenso. Adesso, con
l’esternazione del 4 febbraio, la Merkel sembra finalmente aver capito
che l’attendismo non è una politica. La novità pertanto è politica ed è
dirompente. Ecco perché non è passata inosservata.
“Che Angela
Merkel rilanci l’Europa a diverse velocità è un fatto importante, una
mossa utile e coraggiosa. La buona notizia è che la proposta venga dalla
Germania, il Paese fin qui più immobilista, quello che non voleva
toccare nulla e ora invece si muove per la prima volta in una logica di
discontinuità. Berlino sembra capire che la mera difesa dell’esistente
porta alla distruzione di tutto. La Brexit e Donald Trump costituiscono
una doppia minaccia esterna esistenziale e l’Europa deve cambiare passo e
direzione”. Lo afferma l’ex premier Enrico Letta in un’intervista al
Corriere della Sera.
Avere lanciato lo slogan senza entrare nel
merito di cosa lei concretamente intendesse con diverse velocità, che
nei suoi sviluppi può essere un concetto molto ambiguo, ha però aperto
degli interrogativi. Perché è vero che l’obiettivo finale vuole essere
quello di un’Europa integrata anche politicamente, ma perseguendo quali
criteri? Inclusivi o esclusivi? Alcuni Stati si metteranno insieme, per
tenerne fuori altri non ritenuti ancora “pronti”, o si metteranno
insieme, con chi ci sta, per portare avanti l’integrazione nonostante
l’ostruzionismo degli altri che all’integrazione non sono interessati?
In entrambi i casi si tratterebbe di iniziative volte ad accelerare la
costruzione dell’Europa politica ma il metodo è molto diverso ed anche
il risultato finale sarebbe diverso.
È vero che dopo l’incontro
di giovedì con Mario Draghi, il presidente della Bce, la cancelliera ha
tenuto a chiarire che lei è contraria alla creazione di club esclusivi
nella Ue e che l’Eurozona deve restare unita nella sua interezza. Ma è
questa una precisazione dopo gl’interrogativi che si sono levati un po’
dappertutto alle sue parole o è una correzione di tiro dopo il confronto
con Draghi, la cui posizione è nota, e che aveva già dichiarato che
l’adozione dell’euro è un percorso irreversibile?
Non bisogna
infatti dimenticare che Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle
finanze, è stato sostenitore della forma più radicale di Europa a più
velocità, la “Kerneuropa” (l’Europa del nucleo), che mirava ad
un’aristocrazia di Paesi a traino franco-tedesco. E quello è un progetto
tutt’altro che inclusivo.
È possibile che la Merkel volesse
soprattutto condividere il disappunto di Hollande per l’atteggiamento
dei Paesi dell’Est europeo, sempre pronti a battere cassa ma molto
tiepidi ad ogni proposta di trasferire quote di sovranità nazionale
all’Unione europea. “L’Europa non è una cassa da cui attingere – ha di
recente dichiarato Hollande – e a Roma dovremo ribadire il principio che
l’Unione è stata costruita per essere più forti insieme”. E pertanto
anche la Germania sosterrebbe l’idea di un’Europa a “cerchi
concentrici”, dove l’unanimità non è più necessaria, in quanto metodo
più razionale per far avanzare senza ostruzionismi un progetto comune
con gli Stati che ci stanno. Se hanno deciso di portare il problema a
Malta, è anche perché Merkel e Hollande sanno bene che i Paesi
dell’Europa orientale si trovano attualmente di fronte a un dilemma
esistenziale. L’elezione di Trump, infatti, crea loro più problemi che
assonanze. Essi plaudono al nuovo corso degli Stati Uniti quando
chiudono le porte ai rifugiati ma sono in grande apprensione per il
Trump che va a braccetto con Putin e si disinteressa della Nato. Con un
Putin che ha ripreso l’antico vizio dell’Unione Sovietica di confinare
con chi gli pare, essi possono permettersi di allontanarsi dagli altri
europei per seguire l’irrefrenabile vocazione dello stato illiberale?
Tranne che decidano di crearsi un’Unione europea degli Stati orientali
integrata a tutti i livelli, compreso quello politico-militare. E sta
qui il rischio della mossa di Francia e Germania: quello di un’idea
teoricamente buona che può sfuggire loro di mano. Infatti, una volta
definita formalmente la possibilità che ognuno si scelga a suo
piacimento il proprio grado d’integrazione senza più l’obiettivo finale
per tutti dell’unione politica, c’è il pericolo concreto che prevalga la
frammentazione. E poi, a prescindere dalle attuali intenzioni della
Merkel, va comunque tenuto conto del dibattito tutto interno alla
Germania che è caratterizzato da una, più o meno malcelata, diffidenza
verso il resto del Continente. Di tutto il Continente, e non solo dei
Paesi dell’Est. Ma anche verso la Commissione, avvertita come troppo
accomodante per i dogmi ordoliberisti, e verso l’Europa meridionale
cronicamente indisciplinata al Patto di stabilità. I tedeschi da tempo
ormai hanno rinunciato a credere che l’Europa a 27 possa funzionare. Ma
si rendono conto che anche l’Eurozona nella sua interezza non è in grado
di raggiungere quei parametri minimi che consentirebbero (sempre
secondo la loro tabella di marcia imposta a Maastricht) di proseguire
con le altre integrazioni. Sullo sfondo permane quindi la tentazione di
tirare una linea Sigfrido tra i Paesi del Nord a basso debito e quelli
del Sud ad alto debito.
Nel prossimo marzo romano comunque non si
parlerà certamente di spaccatura dell’Eurozona con la creazione di euro
1, di serie A, ed euro 2 di serie B. Si parlerà più facilmente di
difesa comune e della nuova politica americana, dei venti sovranisti, di
terrorismo e d’immigrazione. Si definiranno le regole per un’Europa che
procederà “a isole” o a “cerchi concentrici” su vari temi. E sarà
questo il punto critico, perché una volta che queste regole saranno
definite, prima o poi sarà inevitabile toccare il tema dolente delle
questioni economiche. E in quel momento la posizione dell’Italia e degli
altri Paesi mediterranei non sarà comoda. A prescindere dall’entusiasmo
espresso da Gentiloni alla proposta della cancelliera, il quale dà per
scontato che l’Italia, in quanto Paese fondatore, resti nel gruppo di
testa nonostante l’alto debito pubblico. Non sarà scontato, anzi.
Ma al di là dell’ottimismo di alcuni e delle intime convinzioni di
Angela Merkel, la presa di posizione sulle velocità variabili
dell’Europa che ha smosso la cancelliera dalla difesa ad oltranza dello
status quo, è dettata anche dalle minacce interne all’Europa dei vari
sovranismi resi attuali dalle imminenti elezioni, a cominciare da quelle
tedesche. La posizione della cancelliera è poi particolarmente delicata
perché insidiata a sinistra dalla candidatura che si sta rivelando
travolgente di Martin Schulz, europeista convinto, e a destra dai
populisti di Alternative für Deutschland, che la costringe a recitare il
duplice ruolo di europeista e di maestrina intransigente con i latini
indisciplinati che non fanno i compiti a casa, e con gli europei
dell’est che non rispettano le regole sull’accoglienza ai migranti. Per
non dire della minaccia costituita dalla candidatura di Marine Le Pen in
Francia che, in caso di vittoria, ha chiaramente promesso l’uscita
dalla moneta unica, dalla stessa Ue e dalla Nato. E allora l’appoggio
dell’alleato storico alle inamovibili ricette tedesche non ci sarà più.
Merkel ha finalmente capito che l’assalto alla diligenza europea che
proviene da nemici interni ed esterni costringe ad accelerare i tempi
dell’integrazione per scongiurare la disintegrazione del progetto
europeo, anche a costo di farlo con alcuni soltanto. Ma è una scommessa
sui tempi e sui modi. Sui tempi perché potrebbe essere troppo tardi; sui
modi perché, come ha osservato Schulz, “se l’Europa a differenti
velocità esiste già, dobbiamo chiederci se è sempre stata una soluzione
per i nostri problemi. O se ne è stata piuttosto, a volte, la causa.”
