domenica 19 febbraio 2017

La Democrazia in frasi



La tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia.
(Jacques Maritain)

La democrazia è sempre un esperimento non finito, che testa la capacità di ogni generazione di vivere nobilmente in libertà.
(George Weigel)

Che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto.
(Piero Calamandrei)

La democrazia può resistere alla minaccia autoritaria soltanto a patto che si trasformi, da “democrazia di spettatori passivi”, in “democrazia di partecipanti attivi”, nella quale cioè i problemi della comunità siano familiari al singolo e per lui importanti quanto le sue faccende private.
(Erich Fromm)

Un popolo educato, illuminato e informato è una delle vie migliori per la promozione della democrazia.
(Nelson Mandela)

Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione?
(Massimo Gramellini)

Il limite della democrazia: troppi coglioni alle urne.
(Michele Serra)

La democrazia è solo un esperimento di governo, e ha lo svantaggio evidente di conteggiare i voti, invece che pesarli.
(Dean Inge)

Nelle democrazie, i governanti raramente sono peggiori dei governati.
(Roberto Gervaso)

La democrazia bisogna guadagnarsela; la dittatura la si merita.
(Roberto Gervaso)

Oggi la nuova resistenza consiste nel difendere le posizioni che abbiamo conquistato; difendere la Repubblica e la democrazia.
(Sandro Pertini)

La qualità della democrazia è strettamente intrecciata con la qualità del giornalismo.
(Bill Moyers)

Una democrazia cessa di essere democrazia se i suoi cittadini non partecipano al suo governo. Per partecipare in modo intelligente, devono sapere quello che il loro governo ha fatto, sta facendo e prevede di fare. Ogni volta che qualsiasi ostacolo, non importa quale sia il suo nome, si frappone a queste informazioni, una democrazia è indebolita, e il suo futuro in pericolo.
(Walter Cronkite)

La tendenza delle democrazie è, in ogni cosa, alla mediocrità.
(James Fenimore Cooper)

Democrazia è pochi al servizio dei tanti e non tanti al servizio di pochi.
(Prem Rawat)

Non vorrei essere uno schiavo, ma non vorrei neanche essere un padrone. Questo esprime la mia idea di democrazia.
(Abraham Lincoln)

La democrazia è l’arte di far credere al popolo che esso governi.
(Anonimo)

Mentre conculca la libertà del singolo, facendogli credere che ne ha più di quanta ne abbia mai avuta in passato solo perché può scegliere fra diverse marche di frigorifero, la democrazia non realizza nemmeno la volontà della maggioranza. Fra l’una e l’altra si inseriscono le oligarchie, le vere detentrici del potere, annullandole entrambe. Non siamo che sudditi.
(Massimo Fini)

In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi; in una democrazia, attraverso libere elezioni.
(Gabriel Laub)

Nessuna democrazia rappresentativa è una democrazia, ma un sistema di minoranze organizzate che prevalgono sulla maggioranza dei cittadini singolarmente presi, soffocandoli, limitandone gravemente la libertà e tenendoli in una condizione di minorità.
(Massimo Fini)

Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
(Umberto Eco)

È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.
(Winston Churchill)

Quanto più gravi sono i problemi, tanto maggiore è il numero di inetti che la democrazia chiama a risolverli.
(Nicolás Gómez Dávila)

Le democrazie non possono fare a meno di essere ipocrite più di quanto i dittatori possano fare a meno di essere cinici.
(Georges Bernanos)

È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi.
(Padmé Amidala)

Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato.
(Gordon Gekko)

Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà.
(Sandro Pertini)

Senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.
(Stefano Rodotà)



mercoledì 15 febbraio 2017

Trump, la nèmesi


Ricordate la “Biblioteca Presidenziale Schwarzenegger” citata nel film d’azione “Demolition man”, realizzato nel ’93 e ambientato nel 2032? Lì s’immaginava che il palestrato attore ammazacattivi (ne aveva giustiziati ben 369 nella finzione cinematografica) fosse riuscito a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti. Nel 2003 Schwarzenegger divenne senza problemi governatore della California ma lì dovette fermarsi, non perché non avesse una parvenza presidenziale ma perché non è statunitense di nascita. Gli americani tendono a confondere la realtà con la finzione cinematografica. Raccontava un noto attore, specializzato nel ruolo di cattivo, di doversi guardare le spalle quando camminava per strada perché era già successo diverse volte d’essere stato aggredito dai passanti una volta riconosciuto. Ronald Reagan fu eletto presidente non per la coerenza del suo pensiero politico (era passato con disinvoltura da una visione progressista ad una sfrenatamente conservatrice) ma perché era piaciuto agli elettori piazzare un “action hero” a capo del mondo reale. A maggior ragione oggi, nel XXI secolo, che da sognata utopia si è rivelato per i più una vera e propria distopia (ovvero un mondo da incubo, altamente indesiderabile e spaventoso, senza prospettive), si comprende il bisogno di collocare degli “action hero” nella sala dei comandi, nell’illusoria speranza che essi sappiano come nei film punire i cattivi e raddrizzare le cose.

Donald Trump ha colto questa logica e questo bisogno. Ha saputo interpretare il personaggio di “action hero”. Peraltro ha anche esperienza nel mondo dei media, essendo spesso apparso nel ruolo di se stesso in svariati progetti televisivi e cinematografici. È stato anche candidato all’Emmy nella categoria del miglior reality show competitivo, per “The Apprentice”, di cui è stato conduttore fino al 2015 quando, per avviare la propria campagna elettorale, passò il testimone ad un altro entertainer entrato in politica, ovvero al già citato Arnold Schwarzenegger. Grazie a “The Apprentice”, Trump è riuscito a mutare la propria immagine pubblica da personaggio da imprese fallimentari, stravagante ed eccentrico, a businessman di successo, con il quale non bisogna necessariamente essere d’accordo, ma che affascina perché dà speranza. Dal 2007 risplende anche la sua stella sulla Walk of fame per il contributo dato alla televisione.

Oggi l’America e il mondo si trovano a dover fare i conti con questa mina vagante che di eroico ha solo l’involucro immaginario. Appena insediato, ha già creato il caos con il suo sconclusionato bando ai musulmani. Persino Schwarzenegger lo ha criticato, proponendogli lo scambio dei ruoli: “Perché non ci scambiamo il lavoro? Potresti tornare in televisione dove hai degli ottimi risultati. Io prenderei il tuo posto e le persone potrebbero dormire serenamente”. Nei giorni scorsi, in una lettera aperta, 35 psichiatri e psicologi clinici lo hanno definito “emotivamente squilibrato”. Questo probabilmente lo avevano capito anche coloro che lo hanno votato. Ma poco importa, ciò che conta è che egli interpreti il ruolo di “action hero”, l’eroe ardito e solitario che sfida e umilia i potenti d’America. Così, per incanto, sempre nell’immaginario collettivo, egli è diventato il paladino dei poveri e degli ultimi, dell’umiliata classe media americana che chiede giustizia contro i ricchi capitalisti americani, contro i delocalizzatori. Ma l’eletto, investito di questa sacra vocazione, non è un José Mujica, già presidente dell’Uruguay, che destinava il proprio appannaggio ai poveri e andava in giro con un maggiolino dell’87. L’eletto dagli americani è il messia di Park Avenue, un anti-eroe miliardario che eludeva le tasse e faceva beneficenza per finta. Che ne sa egli come vivono i poveri, lui, che occupa gli ultimi tre piani della Trump Tower? Un attico da 100 milioni di dollari in puro stile rococo, zeppo fino al kitsch di ori, cristalli, marmi e mobili di lusso. Un tripudio allo sfarzo e all’opulenza. Un messia che tra i primi provvedimenti ha cancellato la legge Dodd-Frank, voluta da Obama per frenare le speculazioni finanziarie dopo la crisi del 2008 e le norme per tutelare i risparmi dei pensionati. Che si circonda di collaboratori miliardari proventienti da Wall Street e da Goldman Sachs, quando in campagna elettorale accusava i vertici della banca di derubare la “working class” e di  mettere “quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporation ed entità politiche”. Che sta cancellando la Obamacare, che per la prima volta in America consentiva le cure sanitarie anche ai meno abbienti.

Eppure questo furbone finto Robin Hood, che ha dimostrato di saper coltivare i propri interessi, fa paura nel mondo. Perché comunque è “emotivamente squilibrato”, è imprevedibile, insofferente alle regole. E poi, come tutti i tiranni, qual si prospetta essere, qualche bastonata agli establishment dovrà pur darla per soddisfare un minimo il popolo che lo ha eletto. Perché i tiranni traggono principalmente la loro legittimazione non tanto dalle istituzioni, che essi disprezzano, quanto piuttosto dalle masse, i cui umori, si sa, sono volubili. I primi a tremare sono i governanti europei, già alle prese con i loro populismi nazionali. La Germania improvvisamente ha riscoperto il valore dell’integrazione europea, la Francia è indispettita dall’assist fornito alla Le Pen, la Gran Bretagna è imbarazzata dalle sparate di Trump sul quale contava per dare successo alla sua Brexit, la Polonia si dimostra meno suscettibile alle critiche di Bruxelles per il modello illiberale che sta perseguendo. Persino Putin, che credeva d’aver trovato la quadratura del cerchio con l’elezione del tycoon, si trova in difficoltà. Perché questa strana alleanza con la Turchia non ha le stesse finalità sul destino della Siria mentre l’alleato iraniano è visto con ostilità da Trump, ma soprattutto questi sembra più interessato ad isolarsi dal mondo che a fare comunella con la Russia, prospettiva peraltro che non entusiasma il Congresso. Non parliamo poi dell’estremo Oriente che, al contrario d’Obama, a Trump sembra interessare molto poco. E nella Cina egli non fa mistero di vedere solo un competitor sleale. Per dirla con Bernard Guetta, noto columnist di Libération, “il trumpismo, per il momento, è solo un’accozzaglia di idee poco chiare condite da un ego spropositato, e l’unica certezza è che il fronte occidentale che era stato la colonna vertebrale del mondo dagli anni settanta sta sprofondando in un caos senza precedenti”.  

Ma potremmo anche dare un’ulteriore chiave di lettura a questo fenomeno che emerge tra l’incredulità generale. Donald Trump appare incarnare l’elemento di disturbo con cui la Storia ciclicamente sembra provocare le società umane quando s’incattiviscono e cedono agli egoismi e alle ingiustizie più sfrenate. Essa adopera, a mo’ di nemesi, schegge impazzite che emergono dalle stesse società malate per giocare come fa il gatto con il topo prima di divorarlo. Trump sembra l’avanguardia che scombina le carte a chi pensa di andare avanti con le regole imposte dai più furbi per perpetuare ingiustizia dopo ingiustizia. I furbetti sono costretti a fermarsi e a guardarsi sorpresi. Perdono le loro sicurezze. All’improvviso il loro ordine si trasforma “in un gran casino”. “Che confusione…”, comincia così una nota canzone dei Ricchi e Poveri. “Il mondo è matto perché / e se l’amore non c’è / basta una sola canzone / per far confusione / fuori e dentro di te”. La Storia sembra possedere un sottile senso dell’umorismo, un umorismo tragico, che sfodera nei momenti di svolta epocale per ridimensionare la prosopopea degli uomini.


martedì 14 febbraio 2017

EUROPA “À LA CARTE” O DEI VOLENTEROSI?


 Il fatto è ormai risaputo. Angela Merkel, al termine del vertice di Malta, ha dichiarato che la storia degli ultimi anni ci ha insegnato “che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea”. Ha inoltre auspicato che questo concetto venga formalizzato nella Dichiarazione per il 60° anniversario dei Trattati di Roma che a marzo si celebrerà nella Capitale italiana. In quell’occasione infatti i Paesi membri dell’Unione dovranno tracciare la tabella di marcia dei prossimi 10 anni, incalzati da varie empasse, emergenze ed eventi ostili quali il terrorismo, l’invasione dei migranti, la Brexit e l’elezione di Trump.

Alle parole della cancelliera è stata subito data la grande evidenza che si riserva alle affermazioni clamorose e d’importanza prioritaria. Ci siamo chiesti cos’ha di strepitoso la notizia per meritare tanta risonanza? Peraltro di Unione Europea “a differenti velocità” aveva già parlato il presidente francese François Hollande, riferendosi in particolare a quei paesi dell’Est che non rispettano gli impegni pur ricevendo sostanziosi sussidi da Bruxelles. E poche ore prima del summit di Malta, i tre leader del Benelux (Michel, Rutte e Bettel) avevano diramato un documento in cui si parlava di “diverse forme di integrazione” tra Paesi diversi nel quadro dell’Ue. Di questo documento gli organi d’informazione hanno parlato poco. Quando il giorno dopo la Cancelliera tedesca ha fatto propria la proposta lanciata dai Paesi del Benelux, la notizia dei diversi tempi e forme d’integrazione invece non è passata inosservata.

D’altra parte non è certo il concetto in sé che è nuovo. Di Europa a doppia velocità si parlava già negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90. Cioè ben da prima che la maggior parte dei Paesi ex comunisti, spinti soprattutto da ragioni economiche e di sicurezza, entrassero nella Comunità europea. La doppia velocità prefigurava uno scenario dove gli Stati più motivati a rafforzare l’unione politica avrebbero preceduto quelli meno pronti. I nuovi ingressi conseguenti alla caduta del muro, diedero maggiore attualità alla proposta perché l’Unione allargata rendeva ancora più farraginoso il funzionamento delle istituzioni e accresceva le differenze tra le motivazioni che avevano portato all’associazione. Apparvero così espressioni quali: “iniziativa degli Stati pionieri”, “forme di cooperazione rafforzata”, “sistema delle geometrie variabili”, ecc. Nell’iniziativa degli Stati pionieri l’Unione aveva solo in parte motivazioni economiche, e questi erano pertanto più motivati a procedere con l’integrazione politica rispetto a coloro che si erano aggiunti successivamente e che erano soprattutto mossi da ragioni economiche.

Non solo, ma l’Europa a più velocità esiste già da tempo. Esistono accordi che aggregano alcuni stati e non altri su determinate finalità. Gli accordi più noti e importanti sono quello sull’adozione della moneta unica, cioè la zona euro, e quello sulla libera circolazione delle persone, il cosiddetto Spazio Schengen. Ma ce ne sono altri ancora, ad esempio sulla cooperazione in materia giudiziaria, o di brevetto unico; c’è il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997 dagli allora 15 paesi dell’Unione europea in materia di libertà, sicurezza e giustizia. E si parla di farne altri, come quello sulla difesa comune o sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Sono tutti accordi che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica e che rendono i Paesi interni firmatari più integrati rispetto agli altri nell’Unione europea. L’esistenza di questi trattati implica diversi ritmi d’integrazione. E non si tratta di iniziative estemporanee, almeno dal 2009 quando la riforma di Lisbona ha previsto un preciso “motore giuridico”, modulato sulle cosiddette cooperazioni rafforzate.

Ma allora, se il concetto di velocità differenziata non solo è noto ma è di fatto già in atto, per quale ragione la dichiarazione di Angela Merkel, e proprio la sua, ha suscitato tanto clamore? Per almeno due motivi. Innanzi tutto perché parlarne era rompere un tabù. Tutti sanno che gli Stati dell’Unione hanno raggiunto livelli diversi d’integrazione, a seconda della loro appartenenza alle diverse forme rafforzate di cooperazione; non si poteva però mettere in relazione tali appartenenze con le diverse velocità dell’Europa (almeno non apertamente) poiché farlo avrebbe significato riconoscere che non tutti gli Stati condividono le stesse ambizioni. Adesso si ammette chiaramente che esistono partner (oltre al Regno Unito, sempre esplicito sull’argomento) che non ambiscono all’unione politica. È la fine di un’ipocrisia che si chiede trovi formalizzazione nel documento programmatico che a marzo sarà stilato a Roma.

Il secondo motivo è che la presa d’atto giunge dai tedeschi. Non solo per l’importanza che la Germania riveste nell’Unione, ma soprattutto per il fatto che essa ha sempre vissuto con ambivalenza il discorso delle velocità variabili, preoccupata per le conseguenze sull’integrità del mercato unico. La principale attenzione alle esportazioni tedesche prioritaria persino sull’unione politica, che però non viene esclusa, ha orientato le politiche di Berlino da Maastricht in poi. Ciò ha fatto sì che la Germania si rivelasse il più immobilista tra i Paesi fondatori dell’Unione. È l’accusa che il filosofo Jürgen Habermas ha mosso ad Angela Merkel di “frenetico immobilismo”, di impegnarsi attivamente per conservare lo status quo. Ma lo star fermi si paga con la rinuncia alla progettazione politica e quest’atteggiamento attendista – prosegue Habermas – soprattutto quando soffiano venti di crisi produce danni. “In caso di pericolo e di più grande bisogno la via di mezzo porta alla morte”. Non è indice di buonsenso. Adesso, con l’esternazione del 4 febbraio, la Merkel sembra finalmente aver capito che l’attendismo non è una politica. La novità pertanto è politica ed è dirompente. Ecco perché non è passata inosservata.

“Che Angela Merkel rilanci l’Europa a diverse velocità è un fatto importante, una mossa utile e coraggiosa. La buona notizia è che la proposta venga dalla Germania, il Paese fin qui più immobilista, quello che non voleva toccare nulla e ora invece si muove per la prima volta in una logica di discontinuità. Berlino sembra capire che la mera difesa dell’esistente porta alla distruzione di tutto. La Brexit e Donald Trump costituiscono una doppia minaccia esterna esistenziale e l’Europa deve cambiare passo e direzione”. Lo afferma l’ex premier Enrico Letta in un’intervista al Corriere della Sera.

Avere lanciato lo slogan senza entrare nel merito di cosa lei concretamente intendesse con diverse velocità, che nei suoi sviluppi può essere un concetto molto ambiguo, ha però aperto degli interrogativi. Perché è vero che l’obiettivo finale vuole essere quello di un’Europa integrata anche politicamente, ma perseguendo quali criteri? Inclusivi o esclusivi? Alcuni Stati si metteranno insieme, per tenerne fuori altri non ritenuti ancora “pronti”, o si metteranno insieme, con chi ci sta, per portare avanti l’integrazione nonostante l’ostruzionismo degli altri che all’integrazione non sono interessati? In entrambi i casi si tratterebbe di iniziative volte ad accelerare la costruzione dell’Europa politica ma il metodo è molto diverso ed anche il risultato finale sarebbe diverso.

È vero che dopo l’incontro di giovedì con Mario Draghi, il presidente della Bce, la cancelliera ha tenuto a chiarire che lei è contraria alla creazione di club esclusivi nella Ue e che l’Eurozona deve restare unita nella sua interezza. Ma è questa una precisazione dopo gl’interrogativi che si sono levati un po’ dappertutto alle sue parole o è una correzione di tiro dopo il confronto con Draghi, la cui posizione è nota, e che aveva già dichiarato che l’adozione dell’euro è un percorso irreversibile?

Non bisogna infatti dimenticare che Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle finanze, è stato sostenitore della forma più radicale di Europa a più velocità, la “Kerneuropa” (l’Europa del nucleo), che mirava ad un’aristocrazia di Paesi a traino franco-tedesco. E quello è un progetto tutt’altro che inclusivo.

È possibile che la Merkel volesse soprattutto condividere il disappunto di Hollande per l’atteggiamento dei Paesi dell’Est europeo, sempre pronti a battere cassa ma molto tiepidi ad ogni proposta di trasferire quote di sovranità nazionale all’Unione europea. “L’Europa non è una cassa da cui attingere – ha di recente dichiarato Hollande – e a Roma dovremo ribadire il principio che l’Unione è stata costruita per essere più forti insieme”. E pertanto anche la Germania sosterrebbe l’idea di un’Europa a “cerchi concentrici”, dove l’unanimità non è più necessaria, in quanto metodo più razionale per far avanzare senza ostruzionismi un progetto comune con gli Stati che ci stanno. Se hanno deciso di portare il problema a Malta, è anche perché Merkel e Hollande sanno bene che i Paesi dell’Europa orientale si trovano attualmente di fronte a un dilemma esistenziale. L’elezione di Trump, infatti, crea loro più problemi che assonanze. Essi plaudono al nuovo corso degli Stati Uniti quando chiudono le porte ai rifugiati ma sono in grande apprensione per il Trump che va a braccetto con Putin e si disinteressa della Nato. Con un Putin che ha ripreso l’antico vizio dell’Unione Sovietica di confinare con chi gli pare, essi possono permettersi di allontanarsi dagli altri europei per seguire l’irrefrenabile vocazione dello stato illiberale?

Tranne che decidano di crearsi un’Unione europea degli Stati orientali integrata a tutti i livelli, compreso quello politico-militare. E sta qui il rischio della mossa di Francia e Germania: quello di un’idea teoricamente buona che può sfuggire loro di mano. Infatti, una volta definita formalmente la possibilità che ognuno si scelga a suo piacimento il proprio grado d’integrazione senza più l’obiettivo finale per tutti dell’unione politica, c’è il pericolo concreto che prevalga la frammentazione. E poi, a prescindere dalle attuali intenzioni della Merkel, va comunque tenuto conto del dibattito tutto interno alla Germania che è caratterizzato da una, più o meno malcelata, diffidenza verso il resto del Continente. Di tutto il Continente, e non solo dei Paesi dell’Est. Ma anche verso la Commissione, avvertita come troppo accomodante per i dogmi ordoliberisti, e verso l’Europa meridionale cronicamente indisciplinata al Patto di stabilità. I tedeschi da tempo ormai hanno rinunciato a credere che l’Europa a 27 possa funzionare. Ma si rendono conto che anche l’Eurozona nella sua interezza non è in grado di raggiungere quei parametri minimi che consentirebbero (sempre secondo la loro tabella di marcia imposta a Maastricht) di proseguire con le altre integrazioni. Sullo sfondo permane quindi la tentazione di tirare una linea Sigfrido tra i Paesi del Nord a basso debito e quelli del Sud ad alto debito.

Nel prossimo marzo romano comunque non si parlerà certamente di spaccatura dell’Eurozona con la creazione di euro 1, di serie A, ed euro 2 di serie B. Si parlerà più facilmente di difesa comune e della nuova politica americana, dei venti sovranisti, di terrorismo e d’immigrazione. Si definiranno le regole per un’Europa che procederà “a isole” o a “cerchi concentrici” su vari temi. E sarà questo il punto critico, perché una volta che queste regole saranno definite, prima o poi sarà inevitabile toccare il tema dolente delle questioni economiche. E in quel momento la posizione dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei non sarà comoda. A prescindere dall’entusiasmo espresso da Gentiloni alla proposta della cancelliera, il quale dà per scontato che l’Italia, in quanto Paese fondatore, resti nel gruppo di testa nonostante l’alto debito pubblico. Non sarà scontato, anzi.

Ma al di là dell’ottimismo di alcuni e delle intime convinzioni di Angela Merkel, la presa di posizione sulle velocità variabili dell’Europa che ha smosso la cancelliera dalla difesa ad oltranza dello status quo, è dettata anche dalle minacce interne all’Europa dei vari sovranismi resi attuali dalle imminenti elezioni, a cominciare da quelle tedesche. La posizione della cancelliera è poi particolarmente delicata perché insidiata a sinistra dalla candidatura che si sta rivelando travolgente di Martin Schulz, europeista convinto, e a destra dai populisti di Alternative für Deutschland, che la costringe a recitare il duplice ruolo di europeista e di maestrina intransigente con i latini indisciplinati che non fanno i compiti a casa, e con gli europei dell’est che non rispettano le regole sull’accoglienza ai migranti. Per non dire della minaccia costituita dalla candidatura di Marine Le Pen in Francia che, in caso di vittoria, ha chiaramente promesso l’uscita dalla moneta unica, dalla stessa Ue e dalla Nato. E allora l’appoggio dell’alleato storico alle inamovibili ricette tedesche non ci sarà più. Merkel ha finalmente capito che l’assalto alla diligenza europea che proviene da nemici interni ed esterni costringe ad accelerare i tempi dell’integrazione per scongiurare la disintegrazione del progetto europeo, anche a costo di farlo con alcuni soltanto. Ma è una scommessa sui tempi e sui modi. Sui tempi perché potrebbe essere troppo tardi; sui modi perché, come ha osservato Schulz, “se l’Europa a differenti velocità esiste già, dobbiamo chiederci se è sempre stata una soluzione per i nostri problemi. O se ne è stata piuttosto, a volte, la causa.”


domenica 12 febbraio 2017

UN “DEMOLITION MAN” A BRUXELLES


“L’euro? Non credo che sia solo una moneta decotta, ma un vero problema per gli europei ed anche per tutti gli altri. La mia previsione è che sia destinata al collasso. Diciamo entro un anno, forse 18 mesi”.

Lo ha dichiarato il professor Ted Malloch in una recente intervista alla BBC. Malloch non è un semplice profeta di sventure e neppure un incompetente. È un economista che vanta parecchi titoli: è presidente e amministratore delegato della Global Fiduciary Governance, LLC, una società di consulenza strategica per leader. Insegna alla Henley Business School. È autore di una serie di libri bestseller. È stato banchiere di Salomon Brothers e chairman e AD del Roosevelt Group come pure Senior Fellow dell’Aspen Institute. Ha inoltre ricoperto un incarico diplomatico alle Nazioni Unite “con cui ho contribuito a far cadere l'Unione Sovietica”, afferma asciutto nella medesima intervista. È uno che non si limita a fare previsioni dall’alto della propria competenza ma che pure si adopera per far crollare i mostri politico-economici della Storia contemporanea. E questo rappresenta un problema per l’Unione Europea.

Malloch infatti ha chiesto a Trump di essere nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea. Con l’esplicita missione di collaborare alla sua dissoluzione. “Ho aiutato a far crollare l’Unione Sovietica, forse adesso c’è anche un’altra Unione che ha bisogno di essere domata un po’.” Favorevoli a questa nomina sono naturalmente tutti i leader euroscettici che si adoperano per il medesimo obiettivo, a cominciare dal leader dell’Ukip, Nigel Farage (nella foto con Malloch), che ha suggerito il suo nome a Trump.

Per ragioni opposte sono invece in subbuglio i partiti filoeuropei che siedono nell’Europarlamento. Conservatori e liberali, hanno firmato una lettera in cui si chiede al Consiglio europeo e alla Commissione Ue di bloccare la nomina di Ted Malloch ad ambasciatore Usa presso l’Unione europea. Il presidente dei socialisti, Pittella, ha affermato che Malloch “non sarebbe una persona gradita, perché non si può gradire qualcuno che dice vado lì per distruggere l’Ue”. Mentre Manfred Weber, leader del Ppe, e Guy Verhofstadt, che guida l'Alde, hanno accusato Malloch di “scandalosa cattiveria” nei confronti “dei valori che definiscono l’Unione europea” e che “se pronunciati da un rappresentante ufficiale degli Stati Uniti avrebbero il potenziale di minare seriamente le relazioni transatlantiche che, negli ultimi 70 anni, hanno contribuito in maniera essenziale alla pace, alla stabilità e alla prosperità del continente”.

Questo è un fatto rilevante. Per la prima volta dal dopoguerra infatti Washington non sostiene con determinazione l’architettura europea ed anzi si adopera per la sua dissoluzione. Prima della vociferata nomina dell’ambasciatore euroscettico, già Trump aveva sostenuto la Brexit e definito i britannici “smart” (cioè intelligenti) quando hanno deciso per l’uscita da un’Unione europea sempre più diventata “veicolo” della Germania. Anzi egli ha auspicato a breve nuove exit dall’Unione, in accordo con il suo programma che prevede il passaggio dall’ “internazionalismo liberale” al populismo nazionale.

Sulla stessa linea Ted Malloch che ha affermato di non stupirsi “se le prossime elezioni in Olanda, Francia e Germania provocassero un’accelerazione della disgregazione dell'Unione europea”. E subito comunque una sua fondamentale riorganizzazione. Egli auspica che possa trovarsi il modo perché Londra e Washington firmino nel giro di 90 giorni un accordo commerciale bilaterale nonostante i vincoli che ancora leghino la prima all’Unione europea, dimostrando così che “i burocrati di Bruxelles” possano essere bypassati. Quanto ai rapporti tra Ue e USA, egli è convinto che le prossime elezioni europee stravolgeranno talmente il Continente da renderlo ininfluente come interlocutore. “Personalmente non sono certo che dopo ci sarà una Unione europea con la quale avere negoziati per un accordo”, ha affermato. Intanto ci si concentrerà sull’euro che è “destinato a scomparire, così come ha scritto Stiglitz”. È il pensiero dell’economista euroscettico in sintonia con il presidente tycoon che, salvo sorprese, lo invierà alla corte di Jean-Claude Juncker e Angela Merkel. Con licenza di uccidere la moneta unica.