mercoledì 15 febbraio 2017

Trump, la nèmesi


Ricordate la “Biblioteca Presidenziale Schwarzenegger” citata nel film d’azione “Demolition man”, realizzato nel ’93 e ambientato nel 2032? Lì s’immaginava che il palestrato attore ammazacattivi (ne aveva giustiziati ben 369 nella finzione cinematografica) fosse riuscito a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti. Nel 2003 Schwarzenegger divenne senza problemi governatore della California ma lì dovette fermarsi, non perché non avesse una parvenza presidenziale ma perché non è statunitense di nascita. Gli americani tendono a confondere la realtà con la finzione cinematografica. Raccontava un noto attore, specializzato nel ruolo di cattivo, di doversi guardare le spalle quando camminava per strada perché era già successo diverse volte d’essere stato aggredito dai passanti una volta riconosciuto. Ronald Reagan fu eletto presidente non per la coerenza del suo pensiero politico (era passato con disinvoltura da una visione progressista ad una sfrenatamente conservatrice) ma perché era piaciuto agli elettori piazzare un “action hero” a capo del mondo reale. A maggior ragione oggi, nel XXI secolo, che da sognata utopia si è rivelato per i più una vera e propria distopia (ovvero un mondo da incubo, altamente indesiderabile e spaventoso, senza prospettive), si comprende il bisogno di collocare degli “action hero” nella sala dei comandi, nell’illusoria speranza che essi sappiano come nei film punire i cattivi e raddrizzare le cose.

Donald Trump ha colto questa logica e questo bisogno. Ha saputo interpretare il personaggio di “action hero”. Peraltro ha anche esperienza nel mondo dei media, essendo spesso apparso nel ruolo di se stesso in svariati progetti televisivi e cinematografici. È stato anche candidato all’Emmy nella categoria del miglior reality show competitivo, per “The Apprentice”, di cui è stato conduttore fino al 2015 quando, per avviare la propria campagna elettorale, passò il testimone ad un altro entertainer entrato in politica, ovvero al già citato Arnold Schwarzenegger. Grazie a “The Apprentice”, Trump è riuscito a mutare la propria immagine pubblica da personaggio da imprese fallimentari, stravagante ed eccentrico, a businessman di successo, con il quale non bisogna necessariamente essere d’accordo, ma che affascina perché dà speranza. Dal 2007 risplende anche la sua stella sulla Walk of fame per il contributo dato alla televisione.

Oggi l’America e il mondo si trovano a dover fare i conti con questa mina vagante che di eroico ha solo l’involucro immaginario. Appena insediato, ha già creato il caos con il suo sconclusionato bando ai musulmani. Persino Schwarzenegger lo ha criticato, proponendogli lo scambio dei ruoli: “Perché non ci scambiamo il lavoro? Potresti tornare in televisione dove hai degli ottimi risultati. Io prenderei il tuo posto e le persone potrebbero dormire serenamente”. Nei giorni scorsi, in una lettera aperta, 35 psichiatri e psicologi clinici lo hanno definito “emotivamente squilibrato”. Questo probabilmente lo avevano capito anche coloro che lo hanno votato. Ma poco importa, ciò che conta è che egli interpreti il ruolo di “action hero”, l’eroe ardito e solitario che sfida e umilia i potenti d’America. Così, per incanto, sempre nell’immaginario collettivo, egli è diventato il paladino dei poveri e degli ultimi, dell’umiliata classe media americana che chiede giustizia contro i ricchi capitalisti americani, contro i delocalizzatori. Ma l’eletto, investito di questa sacra vocazione, non è un José Mujica, già presidente dell’Uruguay, che destinava il proprio appannaggio ai poveri e andava in giro con un maggiolino dell’87. L’eletto dagli americani è il messia di Park Avenue, un anti-eroe miliardario che eludeva le tasse e faceva beneficenza per finta. Che ne sa egli come vivono i poveri, lui, che occupa gli ultimi tre piani della Trump Tower? Un attico da 100 milioni di dollari in puro stile rococo, zeppo fino al kitsch di ori, cristalli, marmi e mobili di lusso. Un tripudio allo sfarzo e all’opulenza. Un messia che tra i primi provvedimenti ha cancellato la legge Dodd-Frank, voluta da Obama per frenare le speculazioni finanziarie dopo la crisi del 2008 e le norme per tutelare i risparmi dei pensionati. Che si circonda di collaboratori miliardari proventienti da Wall Street e da Goldman Sachs, quando in campagna elettorale accusava i vertici della banca di derubare la “working class” e di  mettere “quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporation ed entità politiche”. Che sta cancellando la Obamacare, che per la prima volta in America consentiva le cure sanitarie anche ai meno abbienti.

Eppure questo furbone finto Robin Hood, che ha dimostrato di saper coltivare i propri interessi, fa paura nel mondo. Perché comunque è “emotivamente squilibrato”, è imprevedibile, insofferente alle regole. E poi, come tutti i tiranni, qual si prospetta essere, qualche bastonata agli establishment dovrà pur darla per soddisfare un minimo il popolo che lo ha eletto. Perché i tiranni traggono principalmente la loro legittimazione non tanto dalle istituzioni, che essi disprezzano, quanto piuttosto dalle masse, i cui umori, si sa, sono volubili. I primi a tremare sono i governanti europei, già alle prese con i loro populismi nazionali. La Germania improvvisamente ha riscoperto il valore dell’integrazione europea, la Francia è indispettita dall’assist fornito alla Le Pen, la Gran Bretagna è imbarazzata dalle sparate di Trump sul quale contava per dare successo alla sua Brexit, la Polonia si dimostra meno suscettibile alle critiche di Bruxelles per il modello illiberale che sta perseguendo. Persino Putin, che credeva d’aver trovato la quadratura del cerchio con l’elezione del tycoon, si trova in difficoltà. Perché questa strana alleanza con la Turchia non ha le stesse finalità sul destino della Siria mentre l’alleato iraniano è visto con ostilità da Trump, ma soprattutto questi sembra più interessato ad isolarsi dal mondo che a fare comunella con la Russia, prospettiva peraltro che non entusiasma il Congresso. Non parliamo poi dell’estremo Oriente che, al contrario d’Obama, a Trump sembra interessare molto poco. E nella Cina egli non fa mistero di vedere solo un competitor sleale. Per dirla con Bernard Guetta, noto columnist di Libération, “il trumpismo, per il momento, è solo un’accozzaglia di idee poco chiare condite da un ego spropositato, e l’unica certezza è che il fronte occidentale che era stato la colonna vertebrale del mondo dagli anni settanta sta sprofondando in un caos senza precedenti”.  

Ma potremmo anche dare un’ulteriore chiave di lettura a questo fenomeno che emerge tra l’incredulità generale. Donald Trump appare incarnare l’elemento di disturbo con cui la Storia ciclicamente sembra provocare le società umane quando s’incattiviscono e cedono agli egoismi e alle ingiustizie più sfrenate. Essa adopera, a mo’ di nemesi, schegge impazzite che emergono dalle stesse società malate per giocare come fa il gatto con il topo prima di divorarlo. Trump sembra l’avanguardia che scombina le carte a chi pensa di andare avanti con le regole imposte dai più furbi per perpetuare ingiustizia dopo ingiustizia. I furbetti sono costretti a fermarsi e a guardarsi sorpresi. Perdono le loro sicurezze. All’improvviso il loro ordine si trasforma “in un gran casino”. “Che confusione…”, comincia così una nota canzone dei Ricchi e Poveri. “Il mondo è matto perché / e se l’amore non c’è / basta una sola canzone / per far confusione / fuori e dentro di te”. La Storia sembra possedere un sottile senso dell’umorismo, un umorismo tragico, che sfodera nei momenti di svolta epocale per ridimensionare la prosopopea degli uomini.


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