martedì 14 febbraio 2017

EUROPA “À LA CARTE” O DEI VOLENTEROSI?


 Il fatto è ormai risaputo. Angela Merkel, al termine del vertice di Malta, ha dichiarato che la storia degli ultimi anni ci ha insegnato “che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea”. Ha inoltre auspicato che questo concetto venga formalizzato nella Dichiarazione per il 60° anniversario dei Trattati di Roma che a marzo si celebrerà nella Capitale italiana. In quell’occasione infatti i Paesi membri dell’Unione dovranno tracciare la tabella di marcia dei prossimi 10 anni, incalzati da varie empasse, emergenze ed eventi ostili quali il terrorismo, l’invasione dei migranti, la Brexit e l’elezione di Trump.

Alle parole della cancelliera è stata subito data la grande evidenza che si riserva alle affermazioni clamorose e d’importanza prioritaria. Ci siamo chiesti cos’ha di strepitoso la notizia per meritare tanta risonanza? Peraltro di Unione Europea “a differenti velocità” aveva già parlato il presidente francese François Hollande, riferendosi in particolare a quei paesi dell’Est che non rispettano gli impegni pur ricevendo sostanziosi sussidi da Bruxelles. E poche ore prima del summit di Malta, i tre leader del Benelux (Michel, Rutte e Bettel) avevano diramato un documento in cui si parlava di “diverse forme di integrazione” tra Paesi diversi nel quadro dell’Ue. Di questo documento gli organi d’informazione hanno parlato poco. Quando il giorno dopo la Cancelliera tedesca ha fatto propria la proposta lanciata dai Paesi del Benelux, la notizia dei diversi tempi e forme d’integrazione invece non è passata inosservata.

D’altra parte non è certo il concetto in sé che è nuovo. Di Europa a doppia velocità si parlava già negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90. Cioè ben da prima che la maggior parte dei Paesi ex comunisti, spinti soprattutto da ragioni economiche e di sicurezza, entrassero nella Comunità europea. La doppia velocità prefigurava uno scenario dove gli Stati più motivati a rafforzare l’unione politica avrebbero preceduto quelli meno pronti. I nuovi ingressi conseguenti alla caduta del muro, diedero maggiore attualità alla proposta perché l’Unione allargata rendeva ancora più farraginoso il funzionamento delle istituzioni e accresceva le differenze tra le motivazioni che avevano portato all’associazione. Apparvero così espressioni quali: “iniziativa degli Stati pionieri”, “forme di cooperazione rafforzata”, “sistema delle geometrie variabili”, ecc. Nell’iniziativa degli Stati pionieri l’Unione aveva solo in parte motivazioni economiche, e questi erano pertanto più motivati a procedere con l’integrazione politica rispetto a coloro che si erano aggiunti successivamente e che erano soprattutto mossi da ragioni economiche.

Non solo, ma l’Europa a più velocità esiste già da tempo. Esistono accordi che aggregano alcuni stati e non altri su determinate finalità. Gli accordi più noti e importanti sono quello sull’adozione della moneta unica, cioè la zona euro, e quello sulla libera circolazione delle persone, il cosiddetto Spazio Schengen. Ma ce ne sono altri ancora, ad esempio sulla cooperazione in materia giudiziaria, o di brevetto unico; c’è il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997 dagli allora 15 paesi dell’Unione europea in materia di libertà, sicurezza e giustizia. E si parla di farne altri, come quello sulla difesa comune o sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Sono tutti accordi che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica e che rendono i Paesi interni firmatari più integrati rispetto agli altri nell’Unione europea. L’esistenza di questi trattati implica diversi ritmi d’integrazione. E non si tratta di iniziative estemporanee, almeno dal 2009 quando la riforma di Lisbona ha previsto un preciso “motore giuridico”, modulato sulle cosiddette cooperazioni rafforzate.

Ma allora, se il concetto di velocità differenziata non solo è noto ma è di fatto già in atto, per quale ragione la dichiarazione di Angela Merkel, e proprio la sua, ha suscitato tanto clamore? Per almeno due motivi. Innanzi tutto perché parlarne era rompere un tabù. Tutti sanno che gli Stati dell’Unione hanno raggiunto livelli diversi d’integrazione, a seconda della loro appartenenza alle diverse forme rafforzate di cooperazione; non si poteva però mettere in relazione tali appartenenze con le diverse velocità dell’Europa (almeno non apertamente) poiché farlo avrebbe significato riconoscere che non tutti gli Stati condividono le stesse ambizioni. Adesso si ammette chiaramente che esistono partner (oltre al Regno Unito, sempre esplicito sull’argomento) che non ambiscono all’unione politica. È la fine di un’ipocrisia che si chiede trovi formalizzazione nel documento programmatico che a marzo sarà stilato a Roma.

Il secondo motivo è che la presa d’atto giunge dai tedeschi. Non solo per l’importanza che la Germania riveste nell’Unione, ma soprattutto per il fatto che essa ha sempre vissuto con ambivalenza il discorso delle velocità variabili, preoccupata per le conseguenze sull’integrità del mercato unico. La principale attenzione alle esportazioni tedesche prioritaria persino sull’unione politica, che però non viene esclusa, ha orientato le politiche di Berlino da Maastricht in poi. Ciò ha fatto sì che la Germania si rivelasse il più immobilista tra i Paesi fondatori dell’Unione. È l’accusa che il filosofo Jürgen Habermas ha mosso ad Angela Merkel di “frenetico immobilismo”, di impegnarsi attivamente per conservare lo status quo. Ma lo star fermi si paga con la rinuncia alla progettazione politica e quest’atteggiamento attendista – prosegue Habermas – soprattutto quando soffiano venti di crisi produce danni. “In caso di pericolo e di più grande bisogno la via di mezzo porta alla morte”. Non è indice di buonsenso. Adesso, con l’esternazione del 4 febbraio, la Merkel sembra finalmente aver capito che l’attendismo non è una politica. La novità pertanto è politica ed è dirompente. Ecco perché non è passata inosservata.

“Che Angela Merkel rilanci l’Europa a diverse velocità è un fatto importante, una mossa utile e coraggiosa. La buona notizia è che la proposta venga dalla Germania, il Paese fin qui più immobilista, quello che non voleva toccare nulla e ora invece si muove per la prima volta in una logica di discontinuità. Berlino sembra capire che la mera difesa dell’esistente porta alla distruzione di tutto. La Brexit e Donald Trump costituiscono una doppia minaccia esterna esistenziale e l’Europa deve cambiare passo e direzione”. Lo afferma l’ex premier Enrico Letta in un’intervista al Corriere della Sera.

Avere lanciato lo slogan senza entrare nel merito di cosa lei concretamente intendesse con diverse velocità, che nei suoi sviluppi può essere un concetto molto ambiguo, ha però aperto degli interrogativi. Perché è vero che l’obiettivo finale vuole essere quello di un’Europa integrata anche politicamente, ma perseguendo quali criteri? Inclusivi o esclusivi? Alcuni Stati si metteranno insieme, per tenerne fuori altri non ritenuti ancora “pronti”, o si metteranno insieme, con chi ci sta, per portare avanti l’integrazione nonostante l’ostruzionismo degli altri che all’integrazione non sono interessati? In entrambi i casi si tratterebbe di iniziative volte ad accelerare la costruzione dell’Europa politica ma il metodo è molto diverso ed anche il risultato finale sarebbe diverso.

È vero che dopo l’incontro di giovedì con Mario Draghi, il presidente della Bce, la cancelliera ha tenuto a chiarire che lei è contraria alla creazione di club esclusivi nella Ue e che l’Eurozona deve restare unita nella sua interezza. Ma è questa una precisazione dopo gl’interrogativi che si sono levati un po’ dappertutto alle sue parole o è una correzione di tiro dopo il confronto con Draghi, la cui posizione è nota, e che aveva già dichiarato che l’adozione dell’euro è un percorso irreversibile?

Non bisogna infatti dimenticare che Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle finanze, è stato sostenitore della forma più radicale di Europa a più velocità, la “Kerneuropa” (l’Europa del nucleo), che mirava ad un’aristocrazia di Paesi a traino franco-tedesco. E quello è un progetto tutt’altro che inclusivo.

È possibile che la Merkel volesse soprattutto condividere il disappunto di Hollande per l’atteggiamento dei Paesi dell’Est europeo, sempre pronti a battere cassa ma molto tiepidi ad ogni proposta di trasferire quote di sovranità nazionale all’Unione europea. “L’Europa non è una cassa da cui attingere – ha di recente dichiarato Hollande – e a Roma dovremo ribadire il principio che l’Unione è stata costruita per essere più forti insieme”. E pertanto anche la Germania sosterrebbe l’idea di un’Europa a “cerchi concentrici”, dove l’unanimità non è più necessaria, in quanto metodo più razionale per far avanzare senza ostruzionismi un progetto comune con gli Stati che ci stanno. Se hanno deciso di portare il problema a Malta, è anche perché Merkel e Hollande sanno bene che i Paesi dell’Europa orientale si trovano attualmente di fronte a un dilemma esistenziale. L’elezione di Trump, infatti, crea loro più problemi che assonanze. Essi plaudono al nuovo corso degli Stati Uniti quando chiudono le porte ai rifugiati ma sono in grande apprensione per il Trump che va a braccetto con Putin e si disinteressa della Nato. Con un Putin che ha ripreso l’antico vizio dell’Unione Sovietica di confinare con chi gli pare, essi possono permettersi di allontanarsi dagli altri europei per seguire l’irrefrenabile vocazione dello stato illiberale?

Tranne che decidano di crearsi un’Unione europea degli Stati orientali integrata a tutti i livelli, compreso quello politico-militare. E sta qui il rischio della mossa di Francia e Germania: quello di un’idea teoricamente buona che può sfuggire loro di mano. Infatti, una volta definita formalmente la possibilità che ognuno si scelga a suo piacimento il proprio grado d’integrazione senza più l’obiettivo finale per tutti dell’unione politica, c’è il pericolo concreto che prevalga la frammentazione. E poi, a prescindere dalle attuali intenzioni della Merkel, va comunque tenuto conto del dibattito tutto interno alla Germania che è caratterizzato da una, più o meno malcelata, diffidenza verso il resto del Continente. Di tutto il Continente, e non solo dei Paesi dell’Est. Ma anche verso la Commissione, avvertita come troppo accomodante per i dogmi ordoliberisti, e verso l’Europa meridionale cronicamente indisciplinata al Patto di stabilità. I tedeschi da tempo ormai hanno rinunciato a credere che l’Europa a 27 possa funzionare. Ma si rendono conto che anche l’Eurozona nella sua interezza non è in grado di raggiungere quei parametri minimi che consentirebbero (sempre secondo la loro tabella di marcia imposta a Maastricht) di proseguire con le altre integrazioni. Sullo sfondo permane quindi la tentazione di tirare una linea Sigfrido tra i Paesi del Nord a basso debito e quelli del Sud ad alto debito.

Nel prossimo marzo romano comunque non si parlerà certamente di spaccatura dell’Eurozona con la creazione di euro 1, di serie A, ed euro 2 di serie B. Si parlerà più facilmente di difesa comune e della nuova politica americana, dei venti sovranisti, di terrorismo e d’immigrazione. Si definiranno le regole per un’Europa che procederà “a isole” o a “cerchi concentrici” su vari temi. E sarà questo il punto critico, perché una volta che queste regole saranno definite, prima o poi sarà inevitabile toccare il tema dolente delle questioni economiche. E in quel momento la posizione dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei non sarà comoda. A prescindere dall’entusiasmo espresso da Gentiloni alla proposta della cancelliera, il quale dà per scontato che l’Italia, in quanto Paese fondatore, resti nel gruppo di testa nonostante l’alto debito pubblico. Non sarà scontato, anzi.

Ma al di là dell’ottimismo di alcuni e delle intime convinzioni di Angela Merkel, la presa di posizione sulle velocità variabili dell’Europa che ha smosso la cancelliera dalla difesa ad oltranza dello status quo, è dettata anche dalle minacce interne all’Europa dei vari sovranismi resi attuali dalle imminenti elezioni, a cominciare da quelle tedesche. La posizione della cancelliera è poi particolarmente delicata perché insidiata a sinistra dalla candidatura che si sta rivelando travolgente di Martin Schulz, europeista convinto, e a destra dai populisti di Alternative für Deutschland, che la costringe a recitare il duplice ruolo di europeista e di maestrina intransigente con i latini indisciplinati che non fanno i compiti a casa, e con gli europei dell’est che non rispettano le regole sull’accoglienza ai migranti. Per non dire della minaccia costituita dalla candidatura di Marine Le Pen in Francia che, in caso di vittoria, ha chiaramente promesso l’uscita dalla moneta unica, dalla stessa Ue e dalla Nato. E allora l’appoggio dell’alleato storico alle inamovibili ricette tedesche non ci sarà più. Merkel ha finalmente capito che l’assalto alla diligenza europea che proviene da nemici interni ed esterni costringe ad accelerare i tempi dell’integrazione per scongiurare la disintegrazione del progetto europeo, anche a costo di farlo con alcuni soltanto. Ma è una scommessa sui tempi e sui modi. Sui tempi perché potrebbe essere troppo tardi; sui modi perché, come ha osservato Schulz, “se l’Europa a differenti velocità esiste già, dobbiamo chiederci se è sempre stata una soluzione per i nostri problemi. O se ne è stata piuttosto, a volte, la causa.”


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