
Concludendo
la riflessione sull’egemonia riluttante della Germania, citavamo un
noto quotidiano tedesco che criticava il proprio governo perché
scambierebbe la propria posizione di leadership in Europa con la
proiezione e la piena realizzazione delle “proprie idee di ordine”.
Quest’espressione merita la nostra attenzione. A quale “ordine” si
riferiva il noto quotidiano? È naturale per noi associare alla mentalità
tedesca l’idea di ordine, ma qui il giornale si riferiva a un concetto
assai specifico sebbene poco conosciuto nel resto d’Europa e che ciò
nonostante è all’origine di molte sofferenze (i greci ne sanno qualcosa
più degli altri), e di un paradosso attorno a cui l’Unione si sta
avvitando senza prospettive (così restando le cose) di soluzione.
Il concetto porta il nome di “Ordoliberalismo” o “Ordoliberismo”
(preferibile in italiano che distingue tra liberalismo e liberismo). La
sua gestazione avviene negli anni ’30 in Germania durante la crisi della
Repubblica di Weimar. Teorico fondatore ne fu Walter Eucken, professore
di economia politica a Friburgo dal 1927, dove conosce Husserl (di cui
si dichiara debitore nella formazione della sua teoria economica) e
fonda nel 1936 la rivista “Ordo”. L’ordoliberismo è una variante del
liberismo originario, come questo infatti esso rifiuta l’idea che lo
Stato influenzi il gioco del mercato. Al contrario di questo, però, esso
non crede in una “mano invisibile” che rimedierebbe in automatico alle
distorsioni del mercato, e relegherebbe l’intervento pubblico solo a un
ruolo marginale. Infatti anzitutto l’ordoliberismo nasce come reazione
al “laissez-faire” del liberalismo classico, ritenuto responsabile della
Grande Depressione del 1929. Al contempo però esso si contrappone a
quelle che considera le cattive risposte alla crisi del capitalismo
internazionale che si manifestò in tutta la sua gravità dopo la Prima
Guerra Mondiale. Le cattive risposte al “laissez-faire” liberista
sarebbero le economie pianificate dei regimi totalitari di allora,
ovvero principalmente quello nazista e quello sovietico, ma anche le
misure di tipo keynesiano adottate in Europa e negli USA con il New
Deal. Quest’accostamento che l’ordoliberismo fa tra le politiche
reattive dei regimi totalitari e quelle del mondo libero appare curioso
ma in realtà ha una sua logica. Perché la distinzione che esso opera
non è quella tra regimi totalitari e regimi liberal-democratici ma tra
sistemi che adottano politiche liberali e quelli ad economia
pianificata. Dicevamo infatti che l’ordoliberismo rifiuta solo in parte
le logiche liberali e come il liberismo esso non ammette che lo Stato
s’intrometta direttamente nel gioco del mercato. Anzi esso teorizza che
le economie protette, pianificate, assistenziali e keynesiane siano così
connesse tra loro che quando lo Stato interviene con uno di questi
aspetti finirà per sviluppare pure gli altri. Allora, se tutte le
risposte che vennero date per correggere le distorsioni create dal
“laissez-faire” liberista furono sbagliate, in che modo l’ordoliberismo
pensava di porre rimedio alla crisi del capitalismo?
Dicevamo
che l’ordoliberismo non crede nella capacità del mercato di regolarsi da
sé, il cosiddetto “laissez-faire”, dove la legge del più forte alla
fine si tradurrebbe non solo nel successo degli imprenditori più capaci e
spregiudicati ma anche in un vantaggio per l’intera collettività. Per
l’ordoliberismo, al contrario del liberismo classico e del neoliberismo,
il conflitto sociale non è fisiologico, ma patologico, perché esso
inceppa, blocca, sregola, provoca disintegrazione dell’ordine sociale, e
non va pertanto lasciato a se stesso. Al contempo però lo Stato non
deve intromettersi nel gioco del mercato. E allora in cosa deve
intromettersi lo Stato per impedire che il conflitto capitale-lavoro, il
cosiddetto “nemico interno”, degeneri? Esso deve stabilire le regole di
questo gioco e deve vigilare perché esse siano rispettate. Come nel
football c’è un organo che stabilisce le regole e un arbitro che le fa
rispettare ma che dovrebbe guardarsi bene dall’influenzare il gioco,
così nel capitalismo lo Stato deve organizzare la libera concorrenza,
deve costruire il quadro giuridico, tecnico, sociale, morale e culturale
del mercato. Perché ciò avvenga è necessario che il mercato non sia
stabilizzato per via politica, ma per via giuridica e amministrativa, in
modo che esso produca benessere secondo giustizia senza che interessi
di parte o contingenti influenzino il gioco. Spiegato così,
l’ordoliberismo sembra una teoria perfetta, ispirata dal senso
dell’ordine e della giustizia. Ma, come vedremo, le cose non stanno
propriamente così.
Troppo liberale per il regime nazista, i suoi
sostenitori dovettero scegliere la via dell’esilio o restare in patria
tenendo un basso profilo. Eventualmente partecipando ai circoli di
riflessione economica del regime ma rinunciando a esporre interamente il
proprio pensiero. Tra questi ultimi bisogna menzionare Ludwig Erhard,
membro di un’organizzazione padronale che durante la guerra aveva
abbracciato l’ordoliberismo. Non appena caduto il nazismo, Erhard
divenne direttore dell’amministrazione economica della zona occupata
dagli anglo-americani; in seguito ministro dell’economia nel governo
Adenauer (1949-1963) e infine cancelliere dal 1963 al 1966. Fu sotto
quest’economista, circondatosi di consiglieri ordoliberisti, che fu
varata gran parte delle riforme strutturali tedesche associate al
“miracolo economico”, in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la
creazione del deutsche Mark. La ricostruzione in Germania avvenne
all’insegna dell’apertura al libero scambio e delle privatizzazioni,
ovvero su basi liberiste. A differenza di quanto accadde in Francia, nel
Regno Unito o persino in Italia, dove si realizzò su basi
socialdemocratiche. Non poteva andare diversamente. Gli Stati Uniti
infatti, potenza occupante più influente, impedirono le
nazionalizzazioni dei beni e servizi di pubblica utilità così come
avrebbe voluto la maggioranza in analogia alle altre nazioni europee. In
cambio gli USA dimezzarono il debito estero della Germania e posero il
nuovo alleato sotto il proprio ombrello protettivo consentendole di non
distrarre una parte importante delle proprie risorse per le spese
militari. Inoltre essi facilitarono la transizione verso un’economia
aperta agli scambi con l’estero per aprire il mercato tedesco alle
esportazioni americane. I tedeschi seppero fare di necessità virtù, e
nonostante le limitazioni loro imposte diedero vita al miracolo
economico della ricostruzione postbellica, il cosiddetto
Wirtschaftswunder.
E riguardo al Welfare State, quel complesso di
politiche concepite per ridurre le disuguaglianze sociali, come si
conciliò con l’ordoliberismo? Si conciliò piuttosto male. Pensiamo che
in Germania fino al 2015 non è esistito un salario minimo garantito,
cosa che non è avvenuta neppure negli Stati Uniti dove fu introdotto nel
1938. E comunque la norma è facilmente aggirabile. Prima del 2015 un
operaio poteva essere pagato anche a meno di 2 euro l’ora. Certo
concessioni furono inevitabili perché non si sarebbe potuto imporre
l’ordoliberismo alla società tedesca allo stato bruto. Il sistema minimo
di protezione sociale introdotto da Bismarck alla fine del XIX secolo
non fu abolito. Così come l’imposta sul reddito e i programmi di
edilizia popolare. Inoltre nel 1951 Erhard dovette accettare
l’introduzione della cogestione nell’industria, richiesta a gran voce
dai sindacati e imposta dal cancelliere Adenauer, a compensazione della
stagnazione salariale. Questo addolcimento dell’ordoliberismo teorico
venne chiamato “economia sociale di mercato” (Sozial Marktwirtschaft).
Dove il “sociale” significa semplicemente che la società viene adattata
al mercato. Secondo la visione dell’ordoliberista Müller-Armarck, che
coniò l’espressione, l’economia di mercato viene definita “sociale”
quando la pressione sulle imprese e sui salariati si risolve in una
migliore qualità del prodotto e in un abbassamento del prezzo. La fonte
di progresso sociale starebbe quindi nella concorrenza. Tutto ciò che
aumenta la libera competizione è buono per il progresso sociale. “Il
benessere di ognuno e il benessere della concorrenza sono sinonimi”. O,
se vogliamo usare un’espressione di Erhard: “Sostenere l’economia
concorrenziale è un dovere sociale”. Il benessere può quindi offrirlo
solo un’economia di mercato e vigilando sulla concorrenza, qualunque sia
il prezzo immediato da pagare. Pertanto a livello concettuale
l’economia sociale di mercato si pone agli antipodi del Welfare State
dove il benessere si produce con politiche redistributive e
universalistiche.
Non poteva essere diversamente perché
l’ordoliberismo nasce come “rivolta delle élite”, in risposta alla
“rivolta delle masse”. Esso non è egualitarista e risponde a logiche
paternaliste. Scriveva l’ordoliberale Rüstow che il principio della
gradualità è stato sostituito “con l’ideale, falso ed erroneo,
dell’eguaglianza, e con l’ideale, parziale e insufficiente, della
fraternità; ma in effetti, nelle piccole famiglie come nelle gradi, più
importante del rapporto tra fratelli è il rapporto fra genitori e figli,
che assicura la successione delle generazioni e il passaggio della
tradizione culturale”. Ai lavoratori si potrà restituire la dignità
perduta, più che con l’esercizio della democrazia, reintegrandoli in
comunità naturali pre-democratiche (quali la famiglia, il comune, la
Chiesa) ed eliminando l’egualitarismo, così gli faceva eco
l’ordoliberale Röpke. Abbiamo già detto che l’ordoliberismo non discerne
tra totalitarismo e democrazia. Il fatto che nel dopoguerra si sia
affermato in un contesto democratico si deve solo a ragioni
d’opportunità, al fatto che la Germania si ritrovò nel blocco atlantico e
al fine di garantirsi il sostegno economico statunitense. Semmai, sia
nella teoria che nella prassi, l’ordoliberismo si è mosso nel doppio
binario di riforma delle libertà economiche e compressione delle libertà
politiche. Come già analizzato da Michel Foucault, il pensiero
ordoliberista ha accompagnato l’ascesa del regime hitleriano in una
sorta di complicità complessa. La pianificazione dell’economia attuata
dal nazismo li rendeva incompatibili ma per altri versi le due dottrine
convergevano, soprattutto nel fatto che giustificavano la necessità di
uno Stato forte che dettasse le regole del gioco economico e sanzionasse
con grande severità i trasgressori. L’istituto del fallimento nel
diritto tedesco viene ancora sanzionato con molto più rigore rispetto ad
altre economie occidentali. Altro punto di contatto con il nazismo è la
determinazione a non lasciare che il confronto tra capitale e lavoro
sfociasse in conflitto ma promuovendo la collaborazione. Nazismo e
fascismo avevano fondato l’istituto delle corporazioni. Analogamente la
legge sulla cogestione del 1951 o la pratica della codeterminazione
praticata da alcune importanti industrie risponde alla medesima logica.
Quanto alla compressione delle libertà politiche, l’ordoliberismo ha
orrore degli approcci congiunturali quando, ad esempio, privilegiano
l’obiettivo della piena occupazione a discapito della stabilità
monetaria e dei prezzi. Nel 1957 Erhard fece votare due leggi decisive
per l’attuazione dell’ordopolitica. Una contro le limitazioni della
concorrenza e la formazione dei cartelli e di questo tema abbiamo già
parlato. L’altra sull’indipendenza della Bundesbank, per garantire la
stabilità monetaria sino al punto di sottrarla al normale dibattito
democratico. Torneremo su quest’aspetto rigido e antidemocratico
dell’ordoliberismo perché da esso sono scaturiti molti dolori per
l’Europa.
La somministrazione delle ricette ordoliberiste al
popolo tedesco in forma graduale, e con alcuni correttivi per rendere
meno amara la pillola, finì per essere accettata da tutti. La prima ad
allinearsi all’ordoliberismo, oltre all’FDP (partito liberale tedesco),
fu la democrazia cristiana, nel 1949. Dieci anni più tardi fu la volta
dei socialdemocratici, al congresso di Bad-Godesberg, dove la formula
dell’economia sociale di mercato prevalse sulla visione
socialdemocratica della “democrazia economica”, e la cogestione nelle
decisioni produttive sul welfare sociale. L’abbandono del marxismo a
favore di un nuovo programma chiamato “socialismo liberale” permise alla
SPD di vincere le elezioni per la prima volta dopo vent’anni di dominio
della CDU di Adenauer. La caduta di Erhard, nel 1966, aprì la strada ad
una coalizione CDU-SPD e nel 1969 fu la volta di Willy Brandt che in
coalizione con i liberali, pur non rinnegando l’economia sociale di
mercato, aggiunse dei correttivi in senso keynesiano (pianificazione a
medio termine, aumento dei salari, investimenti nell’educazione e nella
salute). Si trattò però di una parentesi. Nel 1982 il
cristiano-democratico Helmut Kohl restituì priorità all’equilibrio di
bilancio quantunque i costi dell’unificazione tedesca ritardassero un
pieno ritorno ai fondamentali ordoliberisti. Fu il socialdemocratico
Gerhard Schröder, diventato cancelliere nel 1998, a ripristinare
l’ordine degli anni ‘50 con la massiccia deregolamentazione del diritto
del lavoro e l’indebolimento della protezione sociale. Questo
smantellamento del Welfare State (che a quanto pare viene consentito
solo agli esecutivi di sinistra, o che per sinistra si fanno passare),
motivato con il fine di razionalizzare la spesa pubblica e ridurre la
disoccupazione, produsse elevati costi sociali che si riversarono
soprattutto sulle fasce meno abbienti. Infatti tali misure costarono a
Schröder la rielezione. Angela Merkel, che gli successe nel 2005,
confermò la ricetta ordoliberista. Nel 2014 affermò che “l’economia
sociale di mercato è molto di più di un ordinamento economico e sociale.
I suoi principi sono atemporali”. E infatti, col tempo, la formula
ordoliberista finì per essere accettata da tutti e non più messa in
discussione, di fatto con un atteggiamento fideistico parareligioso. Il
governo è ordoliberista. L’opposizione è ordoliberista. Le università
insegnano economia ordoliberista. Non si può evitare di riconoscere che
questo sistema non ha impedito né la disoccupazione di massa, né lo
spreco delle risorse e non ha prodotto neppure di riflesso l’uguaglianza
sociale, ma non si attribuisce la colpa alla dottrina in sé bensì alla
sua imperfetta applicazione. Tutti affermano che i loro avversari usano
male la tradizione ordo e l’interpretazione dell’economia sociale di
mercato, insistendo gli uni sull’aggettivo “sociale” e gli altri sul
sostantivo “mercato”. Perfino i verdi si definiscono ordoliberisti,
ovviamente di sinistra. Finanche i sindacati ne fanno professione di
fede. Mentre una parte della sinistra tedesca vede nell’ordoliberismo
una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, il padronato
l’associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Osserva il
giurista Luciano Barra Caracciolo che l’ordoliberismo “è un capolavoro
di strategia perché è riuscito a invertire il senso del conflitto
sociale, avendo dalla sua la cooperazione di coloro che ne sono
maggiormente danneggiati.”
Ovviamente quei cittadini che sono
meno avvantaggiati dalle politiche ordoliberiste non le tollerano per
ottusità o masochismo ma nella convinzione di averne nonostante tutto un
beneficio. Un recente sondaggio ha rivelato che molti tedeschi
associano al termine economia di mercato un “buon approvvigionamento di
merci” oppure “benessere”, ma anche “avidità” ed “egoismo”. Joachim
Gauck, l’attuale capo dello Stato tedesco, ha ammesso che molti dei suoi
concittadini considerano ingiusta l’economia di mercato ma ne
riconoscono l’efficienza. E l’unica economia di mercato ammissibile in
terra teutonica è indubbiamente, almeno a parole, quella ordoliberista.
Allora, se le regole ordoliberiste estese per volere dei tedeschi
all’intera eurozona, nonostante questa non fosse pronta ad adottarle a
maggior ragione in una fase di recessione, stanno comunque producendo un
vantaggio competitivo per la Germania perché dovrebbero essere
allentate? Tanto più che i Paesi finiti nella morsa del meccanismo
infernale che li sta triturando chiedono deroghe proprio su quel rigore
di bilancio che costituisce uno dei pilastri della dottrina
ordoliberista e che è stato addirittura sottratto al dibattito
democratico da molti anni in Germania! In realtà le cose non stanno
proprio così perché, quando è stato necessario per il loro vantaggio, i
tedeschi hanno saputo derogare da questa regola. Non solo, ma anche solo
guardando al presente, il surplus commerciale della Germania supera
abbondantemente quel 6% che la Commissione Ue ha stabilito non poter
essere sforato per tre anni di fila, con l’obbligo di adottare misure
correttive. Allora è facile per i Paesi in sofferenza accusare la
Germania di doppiopesismo, di essere rigida solo in ciò che le fa comodo
e di seguire una politica egoista e miope. D’altra parte per i tedeschi
è anche semanticamente facile (in tedesco la parola Schuld ha il
duplice significato di “debito” e di “colpa”) definire i Paesi
mediterranei incoscienti e chiamarli con disprezzo “club med”. Il
ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, è la personificazione
di questo atteggiamento e di lui ebbe a dire il suo ex collega greco
Varoufakis: “Per lui le regole hanno un carattere divino”. È di questa
incomprensione di fondo, e dei rischi che per essa sta correndo l’intera
Unione Europea, che parleremo in una prossima riflessione.