Concludendo
la riflessione sull’egemonia riluttante della Germania, citavamo un
noto quotidiano tedesco che criticava il proprio governo perché
scambierebbe la propria posizione di leadership in Europa con la
proiezione e la piena realizzazione delle “proprie idee di ordine”.
Quest’espressione merita la nostra attenzione. A quale “ordine” si
riferiva il noto quotidiano? È naturale per noi associare alla mentalità
tedesca l’idea di ordine, ma qui il giornale si riferiva a un concetto
assai specifico sebbene poco conosciuto nel resto d’Europa e che ciò
nonostante è all’origine di molte sofferenze (i greci ne sanno qualcosa
più degli altri), e di un paradosso attorno a cui l’Unione si sta
avvitando senza prospettive (così restando le cose) di soluzione.
Il concetto porta il nome di “Ordoliberalismo” o “Ordoliberismo” (preferibile in italiano che distingue tra liberalismo e liberismo). La sua gestazione avviene negli anni ’30 in Germania durante la crisi della Repubblica di Weimar. Teorico fondatore ne fu Walter Eucken, professore di economia politica a Friburgo dal 1927, dove conosce Husserl (di cui si dichiara debitore nella formazione della sua teoria economica) e fonda nel 1936 la rivista “Ordo”. L’ordoliberismo è una variante del liberismo originario, come questo infatti esso rifiuta l’idea che lo Stato influenzi il gioco del mercato. Al contrario di questo, però, esso non crede in una “mano invisibile” che rimedierebbe in automatico alle distorsioni del mercato, e relegherebbe l’intervento pubblico solo a un ruolo marginale. Infatti anzitutto l’ordoliberismo nasce come reazione al “laissez-faire” del liberalismo classico, ritenuto responsabile della Grande Depressione del 1929. Al contempo però esso si contrappone a quelle che considera le cattive risposte alla crisi del capitalismo internazionale che si manifestò in tutta la sua gravità dopo la Prima Guerra Mondiale. Le cattive risposte al “laissez-faire” liberista sarebbero le economie pianificate dei regimi totalitari di allora, ovvero principalmente quello nazista e quello sovietico, ma anche le misure di tipo keynesiano adottate in Europa e negli USA con il New Deal. Quest’accostamento che l’ordoliberismo fa tra le politiche reattive dei regimi totalitari e quelle del mondo libero appare curioso ma in realtà ha una sua logica. Perché la distinzione che esso opera non è quella tra regimi totalitari e regimi liberal-democratici ma tra sistemi che adottano politiche liberali e quelli ad economia pianificata. Dicevamo infatti che l’ordoliberismo rifiuta solo in parte le logiche liberali e come il liberismo esso non ammette che lo Stato s’intrometta direttamente nel gioco del mercato. Anzi esso teorizza che le economie protette, pianificate, assistenziali e keynesiane siano così connesse tra loro che quando lo Stato interviene con uno di questi aspetti finirà per sviluppare pure gli altri. Allora, se tutte le risposte che vennero date per correggere le distorsioni create dal “laissez-faire” liberista furono sbagliate, in che modo l’ordoliberismo pensava di porre rimedio alla crisi del capitalismo?
Dicevamo che l’ordoliberismo non crede nella capacità del mercato di regolarsi da sé, il cosiddetto “laissez-faire”, dove la legge del più forte alla fine si tradurrebbe non solo nel successo degli imprenditori più capaci e spregiudicati ma anche in un vantaggio per l’intera collettività. Per l’ordoliberismo, al contrario del liberismo classico e del neoliberismo, il conflitto sociale non è fisiologico, ma patologico, perché esso inceppa, blocca, sregola, provoca disintegrazione dell’ordine sociale, e non va pertanto lasciato a se stesso. Al contempo però lo Stato non deve intromettersi nel gioco del mercato. E allora in cosa deve intromettersi lo Stato per impedire che il conflitto capitale-lavoro, il cosiddetto “nemico interno”, degeneri? Esso deve stabilire le regole di questo gioco e deve vigilare perché esse siano rispettate. Come nel football c’è un organo che stabilisce le regole e un arbitro che le fa rispettare ma che dovrebbe guardarsi bene dall’influenzare il gioco, così nel capitalismo lo Stato deve organizzare la libera concorrenza, deve costruire il quadro giuridico, tecnico, sociale, morale e culturale del mercato. Perché ciò avvenga è necessario che il mercato non sia stabilizzato per via politica, ma per via giuridica e amministrativa, in modo che esso produca benessere secondo giustizia senza che interessi di parte o contingenti influenzino il gioco. Spiegato così, l’ordoliberismo sembra una teoria perfetta, ispirata dal senso dell’ordine e della giustizia. Ma, come vedremo, le cose non stanno propriamente così.
Troppo liberale per il regime nazista, i suoi sostenitori dovettero scegliere la via dell’esilio o restare in patria tenendo un basso profilo. Eventualmente partecipando ai circoli di riflessione economica del regime ma rinunciando a esporre interamente il proprio pensiero. Tra questi ultimi bisogna menzionare Ludwig Erhard, membro di un’organizzazione padronale che durante la guerra aveva abbracciato l’ordoliberismo. Non appena caduto il nazismo, Erhard divenne direttore dell’amministrazione economica della zona occupata dagli anglo-americani; in seguito ministro dell’economia nel governo Adenauer (1949-1963) e infine cancelliere dal 1963 al 1966. Fu sotto quest’economista, circondatosi di consiglieri ordoliberisti, che fu varata gran parte delle riforme strutturali tedesche associate al “miracolo economico”, in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la creazione del deutsche Mark. La ricostruzione in Germania avvenne all’insegna dell’apertura al libero scambio e delle privatizzazioni, ovvero su basi liberiste. A differenza di quanto accadde in Francia, nel Regno Unito o persino in Italia, dove si realizzò su basi socialdemocratiche. Non poteva andare diversamente. Gli Stati Uniti infatti, potenza occupante più influente, impedirono le nazionalizzazioni dei beni e servizi di pubblica utilità così come avrebbe voluto la maggioranza in analogia alle altre nazioni europee. In cambio gli USA dimezzarono il debito estero della Germania e posero il nuovo alleato sotto il proprio ombrello protettivo consentendole di non distrarre una parte importante delle proprie risorse per le spese militari. Inoltre essi facilitarono la transizione verso un’economia aperta agli scambi con l’estero per aprire il mercato tedesco alle esportazioni americane. I tedeschi seppero fare di necessità virtù, e nonostante le limitazioni loro imposte diedero vita al miracolo economico della ricostruzione postbellica, il cosiddetto Wirtschaftswunder.
E riguardo al Welfare State, quel complesso di politiche concepite per ridurre le disuguaglianze sociali, come si conciliò con l’ordoliberismo? Si conciliò piuttosto male. Pensiamo che in Germania fino al 2015 non è esistito un salario minimo garantito, cosa che non è avvenuta neppure negli Stati Uniti dove fu introdotto nel 1938. E comunque la norma è facilmente aggirabile. Prima del 2015 un operaio poteva essere pagato anche a meno di 2 euro l’ora. Certo concessioni furono inevitabili perché non si sarebbe potuto imporre l’ordoliberismo alla società tedesca allo stato bruto. Il sistema minimo di protezione sociale introdotto da Bismarck alla fine del XIX secolo non fu abolito. Così come l’imposta sul reddito e i programmi di edilizia popolare. Inoltre nel 1951 Erhard dovette accettare l’introduzione della cogestione nell’industria, richiesta a gran voce dai sindacati e imposta dal cancelliere Adenauer, a compensazione della stagnazione salariale. Questo addolcimento dell’ordoliberismo teorico venne chiamato “economia sociale di mercato” (Sozial Marktwirtschaft). Dove il “sociale” significa semplicemente che la società viene adattata al mercato. Secondo la visione dell’ordoliberista Müller-Armarck, che coniò l’espressione, l’economia di mercato viene definita “sociale” quando la pressione sulle imprese e sui salariati si risolve in una migliore qualità del prodotto e in un abbassamento del prezzo. La fonte di progresso sociale starebbe quindi nella concorrenza. Tutto ciò che aumenta la libera competizione è buono per il progresso sociale. “Il benessere di ognuno e il benessere della concorrenza sono sinonimi”. O, se vogliamo usare un’espressione di Erhard: “Sostenere l’economia concorrenziale è un dovere sociale”. Il benessere può quindi offrirlo solo un’economia di mercato e vigilando sulla concorrenza, qualunque sia il prezzo immediato da pagare. Pertanto a livello concettuale l’economia sociale di mercato si pone agli antipodi del Welfare State dove il benessere si produce con politiche redistributive e universalistiche.
Non poteva essere diversamente perché l’ordoliberismo nasce come “rivolta delle élite”, in risposta alla “rivolta delle masse”. Esso non è egualitarista e risponde a logiche paternaliste. Scriveva l’ordoliberale Rüstow che il principio della gradualità è stato sostituito “con l’ideale, falso ed erroneo, dell’eguaglianza, e con l’ideale, parziale e insufficiente, della fraternità; ma in effetti, nelle piccole famiglie come nelle gradi, più importante del rapporto tra fratelli è il rapporto fra genitori e figli, che assicura la successione delle generazioni e il passaggio della tradizione culturale”. Ai lavoratori si potrà restituire la dignità perduta, più che con l’esercizio della democrazia, reintegrandoli in comunità naturali pre-democratiche (quali la famiglia, il comune, la Chiesa) ed eliminando l’egualitarismo, così gli faceva eco l’ordoliberale Röpke. Abbiamo già detto che l’ordoliberismo non discerne tra totalitarismo e democrazia. Il fatto che nel dopoguerra si sia affermato in un contesto democratico si deve solo a ragioni d’opportunità, al fatto che la Germania si ritrovò nel blocco atlantico e al fine di garantirsi il sostegno economico statunitense. Semmai, sia nella teoria che nella prassi, l’ordoliberismo si è mosso nel doppio binario di riforma delle libertà economiche e compressione delle libertà politiche. Come già analizzato da Michel Foucault, il pensiero ordoliberista ha accompagnato l’ascesa del regime hitleriano in una sorta di complicità complessa. La pianificazione dell’economia attuata dal nazismo li rendeva incompatibili ma per altri versi le due dottrine convergevano, soprattutto nel fatto che giustificavano la necessità di uno Stato forte che dettasse le regole del gioco economico e sanzionasse con grande severità i trasgressori. L’istituto del fallimento nel diritto tedesco viene ancora sanzionato con molto più rigore rispetto ad altre economie occidentali. Altro punto di contatto con il nazismo è la determinazione a non lasciare che il confronto tra capitale e lavoro sfociasse in conflitto ma promuovendo la collaborazione. Nazismo e fascismo avevano fondato l’istituto delle corporazioni. Analogamente la legge sulla cogestione del 1951 o la pratica della codeterminazione praticata da alcune importanti industrie risponde alla medesima logica. Quanto alla compressione delle libertà politiche, l’ordoliberismo ha orrore degli approcci congiunturali quando, ad esempio, privilegiano l’obiettivo della piena occupazione a discapito della stabilità monetaria e dei prezzi. Nel 1957 Erhard fece votare due leggi decisive per l’attuazione dell’ordopolitica. Una contro le limitazioni della concorrenza e la formazione dei cartelli e di questo tema abbiamo già parlato. L’altra sull’indipendenza della Bundesbank, per garantire la stabilità monetaria sino al punto di sottrarla al normale dibattito democratico. Torneremo su quest’aspetto rigido e antidemocratico dell’ordoliberismo perché da esso sono scaturiti molti dolori per l’Europa.
La somministrazione delle ricette ordoliberiste al popolo tedesco in forma graduale, e con alcuni correttivi per rendere meno amara la pillola, finì per essere accettata da tutti. La prima ad allinearsi all’ordoliberismo, oltre all’FDP (partito liberale tedesco), fu la democrazia cristiana, nel 1949. Dieci anni più tardi fu la volta dei socialdemocratici, al congresso di Bad-Godesberg, dove la formula dell’economia sociale di mercato prevalse sulla visione socialdemocratica della “democrazia economica”, e la cogestione nelle decisioni produttive sul welfare sociale. L’abbandono del marxismo a favore di un nuovo programma chiamato “socialismo liberale” permise alla SPD di vincere le elezioni per la prima volta dopo vent’anni di dominio della CDU di Adenauer. La caduta di Erhard, nel 1966, aprì la strada ad una coalizione CDU-SPD e nel 1969 fu la volta di Willy Brandt che in coalizione con i liberali, pur non rinnegando l’economia sociale di mercato, aggiunse dei correttivi in senso keynesiano (pianificazione a medio termine, aumento dei salari, investimenti nell’educazione e nella salute). Si trattò però di una parentesi. Nel 1982 il cristiano-democratico Helmut Kohl restituì priorità all’equilibrio di bilancio quantunque i costi dell’unificazione tedesca ritardassero un pieno ritorno ai fondamentali ordoliberisti. Fu il socialdemocratico Gerhard Schröder, diventato cancelliere nel 1998, a ripristinare l’ordine degli anni ‘50 con la massiccia deregolamentazione del diritto del lavoro e l’indebolimento della protezione sociale. Questo smantellamento del Welfare State (che a quanto pare viene consentito solo agli esecutivi di sinistra, o che per sinistra si fanno passare), motivato con il fine di razionalizzare la spesa pubblica e ridurre la disoccupazione, produsse elevati costi sociali che si riversarono soprattutto sulle fasce meno abbienti. Infatti tali misure costarono a Schröder la rielezione. Angela Merkel, che gli successe nel 2005, confermò la ricetta ordoliberista. Nel 2014 affermò che “l’economia sociale di mercato è molto di più di un ordinamento economico e sociale. I suoi principi sono atemporali”. E infatti, col tempo, la formula ordoliberista finì per essere accettata da tutti e non più messa in discussione, di fatto con un atteggiamento fideistico parareligioso. Il governo è ordoliberista. L’opposizione è ordoliberista. Le università insegnano economia ordoliberista. Non si può evitare di riconoscere che questo sistema non ha impedito né la disoccupazione di massa, né lo spreco delle risorse e non ha prodotto neppure di riflesso l’uguaglianza sociale, ma non si attribuisce la colpa alla dottrina in sé bensì alla sua imperfetta applicazione. Tutti affermano che i loro avversari usano male la tradizione ordo e l’interpretazione dell’economia sociale di mercato, insistendo gli uni sull’aggettivo “sociale” e gli altri sul sostantivo “mercato”. Perfino i verdi si definiscono ordoliberisti, ovviamente di sinistra. Finanche i sindacati ne fanno professione di fede. Mentre una parte della sinistra tedesca vede nell’ordoliberismo una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, il padronato l’associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Osserva il giurista Luciano Barra Caracciolo che l’ordoliberismo “è un capolavoro di strategia perché è riuscito a invertire il senso del conflitto sociale, avendo dalla sua la cooperazione di coloro che ne sono maggiormente danneggiati.”
Ovviamente quei cittadini che sono meno avvantaggiati dalle politiche ordoliberiste non le tollerano per ottusità o masochismo ma nella convinzione di averne nonostante tutto un beneficio. Un recente sondaggio ha rivelato che molti tedeschi associano al termine economia di mercato un “buon approvvigionamento di merci” oppure “benessere”, ma anche “avidità” ed “egoismo”. Joachim Gauck, l’attuale capo dello Stato tedesco, ha ammesso che molti dei suoi concittadini considerano ingiusta l’economia di mercato ma ne riconoscono l’efficienza. E l’unica economia di mercato ammissibile in terra teutonica è indubbiamente, almeno a parole, quella ordoliberista. Allora, se le regole ordoliberiste estese per volere dei tedeschi all’intera eurozona, nonostante questa non fosse pronta ad adottarle a maggior ragione in una fase di recessione, stanno comunque producendo un vantaggio competitivo per la Germania perché dovrebbero essere allentate? Tanto più che i Paesi finiti nella morsa del meccanismo infernale che li sta triturando chiedono deroghe proprio su quel rigore di bilancio che costituisce uno dei pilastri della dottrina ordoliberista e che è stato addirittura sottratto al dibattito democratico da molti anni in Germania! In realtà le cose non stanno proprio così perché, quando è stato necessario per il loro vantaggio, i tedeschi hanno saputo derogare da questa regola. Non solo, ma anche solo guardando al presente, il surplus commerciale della Germania supera abbondantemente quel 6% che la Commissione Ue ha stabilito non poter essere sforato per tre anni di fila, con l’obbligo di adottare misure correttive. Allora è facile per i Paesi in sofferenza accusare la Germania di doppiopesismo, di essere rigida solo in ciò che le fa comodo e di seguire una politica egoista e miope. D’altra parte per i tedeschi è anche semanticamente facile (in tedesco la parola Schuld ha il duplice significato di “debito” e di “colpa”) definire i Paesi mediterranei incoscienti e chiamarli con disprezzo “club med”. Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, è la personificazione di questo atteggiamento e di lui ebbe a dire il suo ex collega greco Varoufakis: “Per lui le regole hanno un carattere divino”. È di questa incomprensione di fondo, e dei rischi che per essa sta correndo l’intera Unione Europea, che parleremo in una prossima riflessione.
Il concetto porta il nome di “Ordoliberalismo” o “Ordoliberismo” (preferibile in italiano che distingue tra liberalismo e liberismo). La sua gestazione avviene negli anni ’30 in Germania durante la crisi della Repubblica di Weimar. Teorico fondatore ne fu Walter Eucken, professore di economia politica a Friburgo dal 1927, dove conosce Husserl (di cui si dichiara debitore nella formazione della sua teoria economica) e fonda nel 1936 la rivista “Ordo”. L’ordoliberismo è una variante del liberismo originario, come questo infatti esso rifiuta l’idea che lo Stato influenzi il gioco del mercato. Al contrario di questo, però, esso non crede in una “mano invisibile” che rimedierebbe in automatico alle distorsioni del mercato, e relegherebbe l’intervento pubblico solo a un ruolo marginale. Infatti anzitutto l’ordoliberismo nasce come reazione al “laissez-faire” del liberalismo classico, ritenuto responsabile della Grande Depressione del 1929. Al contempo però esso si contrappone a quelle che considera le cattive risposte alla crisi del capitalismo internazionale che si manifestò in tutta la sua gravità dopo la Prima Guerra Mondiale. Le cattive risposte al “laissez-faire” liberista sarebbero le economie pianificate dei regimi totalitari di allora, ovvero principalmente quello nazista e quello sovietico, ma anche le misure di tipo keynesiano adottate in Europa e negli USA con il New Deal. Quest’accostamento che l’ordoliberismo fa tra le politiche reattive dei regimi totalitari e quelle del mondo libero appare curioso ma in realtà ha una sua logica. Perché la distinzione che esso opera non è quella tra regimi totalitari e regimi liberal-democratici ma tra sistemi che adottano politiche liberali e quelli ad economia pianificata. Dicevamo infatti che l’ordoliberismo rifiuta solo in parte le logiche liberali e come il liberismo esso non ammette che lo Stato s’intrometta direttamente nel gioco del mercato. Anzi esso teorizza che le economie protette, pianificate, assistenziali e keynesiane siano così connesse tra loro che quando lo Stato interviene con uno di questi aspetti finirà per sviluppare pure gli altri. Allora, se tutte le risposte che vennero date per correggere le distorsioni create dal “laissez-faire” liberista furono sbagliate, in che modo l’ordoliberismo pensava di porre rimedio alla crisi del capitalismo?
Dicevamo che l’ordoliberismo non crede nella capacità del mercato di regolarsi da sé, il cosiddetto “laissez-faire”, dove la legge del più forte alla fine si tradurrebbe non solo nel successo degli imprenditori più capaci e spregiudicati ma anche in un vantaggio per l’intera collettività. Per l’ordoliberismo, al contrario del liberismo classico e del neoliberismo, il conflitto sociale non è fisiologico, ma patologico, perché esso inceppa, blocca, sregola, provoca disintegrazione dell’ordine sociale, e non va pertanto lasciato a se stesso. Al contempo però lo Stato non deve intromettersi nel gioco del mercato. E allora in cosa deve intromettersi lo Stato per impedire che il conflitto capitale-lavoro, il cosiddetto “nemico interno”, degeneri? Esso deve stabilire le regole di questo gioco e deve vigilare perché esse siano rispettate. Come nel football c’è un organo che stabilisce le regole e un arbitro che le fa rispettare ma che dovrebbe guardarsi bene dall’influenzare il gioco, così nel capitalismo lo Stato deve organizzare la libera concorrenza, deve costruire il quadro giuridico, tecnico, sociale, morale e culturale del mercato. Perché ciò avvenga è necessario che il mercato non sia stabilizzato per via politica, ma per via giuridica e amministrativa, in modo che esso produca benessere secondo giustizia senza che interessi di parte o contingenti influenzino il gioco. Spiegato così, l’ordoliberismo sembra una teoria perfetta, ispirata dal senso dell’ordine e della giustizia. Ma, come vedremo, le cose non stanno propriamente così.
Troppo liberale per il regime nazista, i suoi sostenitori dovettero scegliere la via dell’esilio o restare in patria tenendo un basso profilo. Eventualmente partecipando ai circoli di riflessione economica del regime ma rinunciando a esporre interamente il proprio pensiero. Tra questi ultimi bisogna menzionare Ludwig Erhard, membro di un’organizzazione padronale che durante la guerra aveva abbracciato l’ordoliberismo. Non appena caduto il nazismo, Erhard divenne direttore dell’amministrazione economica della zona occupata dagli anglo-americani; in seguito ministro dell’economia nel governo Adenauer (1949-1963) e infine cancelliere dal 1963 al 1966. Fu sotto quest’economista, circondatosi di consiglieri ordoliberisti, che fu varata gran parte delle riforme strutturali tedesche associate al “miracolo economico”, in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la creazione del deutsche Mark. La ricostruzione in Germania avvenne all’insegna dell’apertura al libero scambio e delle privatizzazioni, ovvero su basi liberiste. A differenza di quanto accadde in Francia, nel Regno Unito o persino in Italia, dove si realizzò su basi socialdemocratiche. Non poteva andare diversamente. Gli Stati Uniti infatti, potenza occupante più influente, impedirono le nazionalizzazioni dei beni e servizi di pubblica utilità così come avrebbe voluto la maggioranza in analogia alle altre nazioni europee. In cambio gli USA dimezzarono il debito estero della Germania e posero il nuovo alleato sotto il proprio ombrello protettivo consentendole di non distrarre una parte importante delle proprie risorse per le spese militari. Inoltre essi facilitarono la transizione verso un’economia aperta agli scambi con l’estero per aprire il mercato tedesco alle esportazioni americane. I tedeschi seppero fare di necessità virtù, e nonostante le limitazioni loro imposte diedero vita al miracolo economico della ricostruzione postbellica, il cosiddetto Wirtschaftswunder.
E riguardo al Welfare State, quel complesso di politiche concepite per ridurre le disuguaglianze sociali, come si conciliò con l’ordoliberismo? Si conciliò piuttosto male. Pensiamo che in Germania fino al 2015 non è esistito un salario minimo garantito, cosa che non è avvenuta neppure negli Stati Uniti dove fu introdotto nel 1938. E comunque la norma è facilmente aggirabile. Prima del 2015 un operaio poteva essere pagato anche a meno di 2 euro l’ora. Certo concessioni furono inevitabili perché non si sarebbe potuto imporre l’ordoliberismo alla società tedesca allo stato bruto. Il sistema minimo di protezione sociale introdotto da Bismarck alla fine del XIX secolo non fu abolito. Così come l’imposta sul reddito e i programmi di edilizia popolare. Inoltre nel 1951 Erhard dovette accettare l’introduzione della cogestione nell’industria, richiesta a gran voce dai sindacati e imposta dal cancelliere Adenauer, a compensazione della stagnazione salariale. Questo addolcimento dell’ordoliberismo teorico venne chiamato “economia sociale di mercato” (Sozial Marktwirtschaft). Dove il “sociale” significa semplicemente che la società viene adattata al mercato. Secondo la visione dell’ordoliberista Müller-Armarck, che coniò l’espressione, l’economia di mercato viene definita “sociale” quando la pressione sulle imprese e sui salariati si risolve in una migliore qualità del prodotto e in un abbassamento del prezzo. La fonte di progresso sociale starebbe quindi nella concorrenza. Tutto ciò che aumenta la libera competizione è buono per il progresso sociale. “Il benessere di ognuno e il benessere della concorrenza sono sinonimi”. O, se vogliamo usare un’espressione di Erhard: “Sostenere l’economia concorrenziale è un dovere sociale”. Il benessere può quindi offrirlo solo un’economia di mercato e vigilando sulla concorrenza, qualunque sia il prezzo immediato da pagare. Pertanto a livello concettuale l’economia sociale di mercato si pone agli antipodi del Welfare State dove il benessere si produce con politiche redistributive e universalistiche.
Non poteva essere diversamente perché l’ordoliberismo nasce come “rivolta delle élite”, in risposta alla “rivolta delle masse”. Esso non è egualitarista e risponde a logiche paternaliste. Scriveva l’ordoliberale Rüstow che il principio della gradualità è stato sostituito “con l’ideale, falso ed erroneo, dell’eguaglianza, e con l’ideale, parziale e insufficiente, della fraternità; ma in effetti, nelle piccole famiglie come nelle gradi, più importante del rapporto tra fratelli è il rapporto fra genitori e figli, che assicura la successione delle generazioni e il passaggio della tradizione culturale”. Ai lavoratori si potrà restituire la dignità perduta, più che con l’esercizio della democrazia, reintegrandoli in comunità naturali pre-democratiche (quali la famiglia, il comune, la Chiesa) ed eliminando l’egualitarismo, così gli faceva eco l’ordoliberale Röpke. Abbiamo già detto che l’ordoliberismo non discerne tra totalitarismo e democrazia. Il fatto che nel dopoguerra si sia affermato in un contesto democratico si deve solo a ragioni d’opportunità, al fatto che la Germania si ritrovò nel blocco atlantico e al fine di garantirsi il sostegno economico statunitense. Semmai, sia nella teoria che nella prassi, l’ordoliberismo si è mosso nel doppio binario di riforma delle libertà economiche e compressione delle libertà politiche. Come già analizzato da Michel Foucault, il pensiero ordoliberista ha accompagnato l’ascesa del regime hitleriano in una sorta di complicità complessa. La pianificazione dell’economia attuata dal nazismo li rendeva incompatibili ma per altri versi le due dottrine convergevano, soprattutto nel fatto che giustificavano la necessità di uno Stato forte che dettasse le regole del gioco economico e sanzionasse con grande severità i trasgressori. L’istituto del fallimento nel diritto tedesco viene ancora sanzionato con molto più rigore rispetto ad altre economie occidentali. Altro punto di contatto con il nazismo è la determinazione a non lasciare che il confronto tra capitale e lavoro sfociasse in conflitto ma promuovendo la collaborazione. Nazismo e fascismo avevano fondato l’istituto delle corporazioni. Analogamente la legge sulla cogestione del 1951 o la pratica della codeterminazione praticata da alcune importanti industrie risponde alla medesima logica. Quanto alla compressione delle libertà politiche, l’ordoliberismo ha orrore degli approcci congiunturali quando, ad esempio, privilegiano l’obiettivo della piena occupazione a discapito della stabilità monetaria e dei prezzi. Nel 1957 Erhard fece votare due leggi decisive per l’attuazione dell’ordopolitica. Una contro le limitazioni della concorrenza e la formazione dei cartelli e di questo tema abbiamo già parlato. L’altra sull’indipendenza della Bundesbank, per garantire la stabilità monetaria sino al punto di sottrarla al normale dibattito democratico. Torneremo su quest’aspetto rigido e antidemocratico dell’ordoliberismo perché da esso sono scaturiti molti dolori per l’Europa.
La somministrazione delle ricette ordoliberiste al popolo tedesco in forma graduale, e con alcuni correttivi per rendere meno amara la pillola, finì per essere accettata da tutti. La prima ad allinearsi all’ordoliberismo, oltre all’FDP (partito liberale tedesco), fu la democrazia cristiana, nel 1949. Dieci anni più tardi fu la volta dei socialdemocratici, al congresso di Bad-Godesberg, dove la formula dell’economia sociale di mercato prevalse sulla visione socialdemocratica della “democrazia economica”, e la cogestione nelle decisioni produttive sul welfare sociale. L’abbandono del marxismo a favore di un nuovo programma chiamato “socialismo liberale” permise alla SPD di vincere le elezioni per la prima volta dopo vent’anni di dominio della CDU di Adenauer. La caduta di Erhard, nel 1966, aprì la strada ad una coalizione CDU-SPD e nel 1969 fu la volta di Willy Brandt che in coalizione con i liberali, pur non rinnegando l’economia sociale di mercato, aggiunse dei correttivi in senso keynesiano (pianificazione a medio termine, aumento dei salari, investimenti nell’educazione e nella salute). Si trattò però di una parentesi. Nel 1982 il cristiano-democratico Helmut Kohl restituì priorità all’equilibrio di bilancio quantunque i costi dell’unificazione tedesca ritardassero un pieno ritorno ai fondamentali ordoliberisti. Fu il socialdemocratico Gerhard Schröder, diventato cancelliere nel 1998, a ripristinare l’ordine degli anni ‘50 con la massiccia deregolamentazione del diritto del lavoro e l’indebolimento della protezione sociale. Questo smantellamento del Welfare State (che a quanto pare viene consentito solo agli esecutivi di sinistra, o che per sinistra si fanno passare), motivato con il fine di razionalizzare la spesa pubblica e ridurre la disoccupazione, produsse elevati costi sociali che si riversarono soprattutto sulle fasce meno abbienti. Infatti tali misure costarono a Schröder la rielezione. Angela Merkel, che gli successe nel 2005, confermò la ricetta ordoliberista. Nel 2014 affermò che “l’economia sociale di mercato è molto di più di un ordinamento economico e sociale. I suoi principi sono atemporali”. E infatti, col tempo, la formula ordoliberista finì per essere accettata da tutti e non più messa in discussione, di fatto con un atteggiamento fideistico parareligioso. Il governo è ordoliberista. L’opposizione è ordoliberista. Le università insegnano economia ordoliberista. Non si può evitare di riconoscere che questo sistema non ha impedito né la disoccupazione di massa, né lo spreco delle risorse e non ha prodotto neppure di riflesso l’uguaglianza sociale, ma non si attribuisce la colpa alla dottrina in sé bensì alla sua imperfetta applicazione. Tutti affermano che i loro avversari usano male la tradizione ordo e l’interpretazione dell’economia sociale di mercato, insistendo gli uni sull’aggettivo “sociale” e gli altri sul sostantivo “mercato”. Perfino i verdi si definiscono ordoliberisti, ovviamente di sinistra. Finanche i sindacati ne fanno professione di fede. Mentre una parte della sinistra tedesca vede nell’ordoliberismo una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, il padronato l’associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Osserva il giurista Luciano Barra Caracciolo che l’ordoliberismo “è un capolavoro di strategia perché è riuscito a invertire il senso del conflitto sociale, avendo dalla sua la cooperazione di coloro che ne sono maggiormente danneggiati.”
Ovviamente quei cittadini che sono meno avvantaggiati dalle politiche ordoliberiste non le tollerano per ottusità o masochismo ma nella convinzione di averne nonostante tutto un beneficio. Un recente sondaggio ha rivelato che molti tedeschi associano al termine economia di mercato un “buon approvvigionamento di merci” oppure “benessere”, ma anche “avidità” ed “egoismo”. Joachim Gauck, l’attuale capo dello Stato tedesco, ha ammesso che molti dei suoi concittadini considerano ingiusta l’economia di mercato ma ne riconoscono l’efficienza. E l’unica economia di mercato ammissibile in terra teutonica è indubbiamente, almeno a parole, quella ordoliberista. Allora, se le regole ordoliberiste estese per volere dei tedeschi all’intera eurozona, nonostante questa non fosse pronta ad adottarle a maggior ragione in una fase di recessione, stanno comunque producendo un vantaggio competitivo per la Germania perché dovrebbero essere allentate? Tanto più che i Paesi finiti nella morsa del meccanismo infernale che li sta triturando chiedono deroghe proprio su quel rigore di bilancio che costituisce uno dei pilastri della dottrina ordoliberista e che è stato addirittura sottratto al dibattito democratico da molti anni in Germania! In realtà le cose non stanno proprio così perché, quando è stato necessario per il loro vantaggio, i tedeschi hanno saputo derogare da questa regola. Non solo, ma anche solo guardando al presente, il surplus commerciale della Germania supera abbondantemente quel 6% che la Commissione Ue ha stabilito non poter essere sforato per tre anni di fila, con l’obbligo di adottare misure correttive. Allora è facile per i Paesi in sofferenza accusare la Germania di doppiopesismo, di essere rigida solo in ciò che le fa comodo e di seguire una politica egoista e miope. D’altra parte per i tedeschi è anche semanticamente facile (in tedesco la parola Schuld ha il duplice significato di “debito” e di “colpa”) definire i Paesi mediterranei incoscienti e chiamarli con disprezzo “club med”. Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, è la personificazione di questo atteggiamento e di lui ebbe a dire il suo ex collega greco Varoufakis: “Per lui le regole hanno un carattere divino”. È di questa incomprensione di fondo, e dei rischi che per essa sta correndo l’intera Unione Europea, che parleremo in una prossima riflessione.

Nessun commento:
Posta un commento