Si sa che dicembre è il mese che si presta a fare bilanci dell’anno che si chiude. Così usano anche i giornali che dedicano molto spazio ad analizzare ciò che è avvenuto nei mesi precedenti e ad azzardare previsioni per quelli che seguiranno. Arnaud Leparmentier, editorialista di Le Monde, in un articolo pubblicato in questi giorni dal titolo ‘L’anno prossimo a Roma’, fa un bilancio del 2016 sull’Unione europea dai toni piuttosto preoccupati. Lo riportiamo di seguito e poi lo commenteremo brevemente.
“Ci sono anniversari dal sapore amaro. Il prossimo 25 marzo l’Europa celebrerà i 60 anni del Trattato di Roma che nel suo preambolo messianico aspirava a creare ‘un’unione sempre più stretta tra i popoli europei’. Un’Europa forte d’una promessa di pace e di prosperità di cui oggi non si osa quasi parlare tanto sembra essere contestata da ogni parte. L’anno 2016 è stato segnato da un doppio sisma: la pronuncia per la Brexit e subito a seguire l’elezione di Donald Trump. Queste due rivoluzioni anglosassoni ci ricordano due catastrofi avvenute tra le due guerre mondiali. La prima fu politica: il ritiro degli Americani dall’Europa dopo la Prima guerra mondiale e la mancata ratifica del Trattato di Versailles (1919) che aveva creato la Società delle nazioni. La seconda fu economica: la svalutazione della sterlina nel 1931, due anni dopo la crisi del 1929, che mandò all’aria l’ordine economico internazionale, accelerando l’affermazione dei nazionalismi. L’Europa oggi si trova di nuovo orfana degli Stati Uniti e del Regno Unito, e il presagio non è buono, soprattutto quando si è accerchiati da neodittature (Putin in Russia, Erdogan in Turchia) e attacchi perpetrati dall’organizzazione dello Stato Islamico. I paragoni con gli anni Trenta sono spesso irritanti, ma non devono impedire di aprire gli occhi: dalla grande crisi finanziaria del 2008, il parallelo è tragico. Le due crisi, economica e politica, si nutrono a vicenda. La prima, iniziata con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008, è stata almeno in parte risolta perché è stata gestita da apparati tecnocratici e dai responsabili politici che, forti del ricordo del 1929, hanno fatto di tutto per evitare il ripetersi della tragica storia. Ma la seconda crisi, identitaria e politica, è molto più difficile da controllare; e la collera dei popoli che cresce inesorabilmente contro le élite, la globalizzazione e il multiculturalismo ha conquistato gli Stati Uniti e minaccia di rivoluzionare l’ordine del vecchio Continente che nel 2017 sarà segnato da quadruple elezioni: Olanda, Francia, Italia e Germania. L’Unione europea non è la fonte prima di questa crisi (lo dimostra Trump negli Stati Uniti) ma l’economia sociale di mercato e la democrazia tranquilla che l’Unione europea incarna potrebbero essere spazzate via se i populisti arrivassero al potere in un grande Paese dell’Europa occidentale. Se si vuole essere ottimisti si può sostenere che il 2016 si conclude meglio del 2015. Un anno fa l’Europa era minacciata da due crisi esistenziali: quella dell’Euro e quella di Schengen. Il fallimento della Grecia, sull’onda dell’arrivo al governo di Alexis Tsipras all’inizio del 2015, minacciava di far crollare la moneta unica. La crisi dei migranti dell’autunno stava per distruggere lo spazio di libera circolazione di Schengen. Se queste due crisi non sono del tutto risolte almeno sono state contenute. L’integrità della zona Euro per ora non è rimessa in discussione mentre i flussi di migranti sono diminuiti grazie ad un accordo con la Turchia, poco edificante ma che ha il pregio dell’efficacia. In fondo l’Europa dei tecnici ha funzionato. Il compito era quasi impossibile: si trattava di riparare in volo un aereo in fiamme. Ma l’Unione europea ha saputo evitare il peggio. Eppure, dal punto di vista politico, non funziona. Perché la volontà di vivere insieme, l’affectio societatis europea, si dissolve. E questa crisi identitaria è quella più distruttiva. Questo rigetto di vivere insieme si fonda su conflitti di valori. Per esempio, rifiutando di accogliere dei migranti gli europei dell’est hanno doppiamente rigettato ciò che si credeva fondativo dell’Europa: l’accoglienza dei perseguitati e la solidarietà tra alleati europei. Le elezioni del 2017 diranno se gli elettori occidentali seguiranno la via illiberale delle società chiuse. In quel caso le cerimonie del Trattato di Roma saranno accompagnate da un lungo requiem europeo. L’Unione europea tecnocratica funziona, quel che non funziona più è il vivere insieme.”
L’analisi di Leparmentier è interessante ed anche condivisibile, a nostro avviso, almeno in parte. Qui come altrove ci si richiama al parallelismo tra la crisi degli anni Trenta e l’attuale. Può non piacere ma è così. È vero che la storia non si ripete mai in modo identico ma è anche vero che gli uomini ripetono sempre gli stessi errori proprio perché non sanno apprendere dal passato. Nel caso specifico, oggi come allora, le crisi sono due e vanno appaiate: una politica e l’altra economica. Allora fu un disastro, ma anche adesso la prospettiva è quella. E guarda caso anche oggi vi sono implicati gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Allora come oggi la crisi economica partì dagli Stati Uniti e il colpo di grazia politico rischia di giungere sempre da lì con il programma minacciato da Trump. L’America si sta sempre più isolando sul versante atlantico. Le strategie disastrose di Obama lasciano un mondo islamico in fiamme, una Russia e una Turchia ringalluzzite dai loro rispettivi uomini forti e una Cina determinata ad affermarsi come prima potenza mondiale sia economica che militare. Trump afferma di essere preoccupato solo da quest’ultimo problema e afferma di volersi disimpegnare dall’Europa. Il fatto è che anche gli Europei sentono montare una grande voglia di disimpegnarsi tra di loro e questa crisi identitaria – paventa giustamente Leparmentier – è la più distruttiva. Quando l’affectio societatis europea si dissolve allora s’innescano le dinamiche conflittuali che in passato sono sempre culminate in conflitti armati. Ciò che non condividiamo nell’analisi del giornalista francese è l’affermazione che l’Unione europea ha nonostante tutto mostrato di funzionare. E qui noi chiediamo: in cosa? Per limitarci ai suoi esempi: la gestione dei migranti può davvero essere considerata un successo sia pur solo limitato all’indispensabile? Gli sbarchi sulle coste italiane sono forse diminuiti? E in che senso l’accordo con Erdogan, sia pur “poco edificante”, può essere davvero considerato un successo? O non è stato semmai proprio quest’accordo che ha consentito al despota turco di alzare la cresta e di usare i profughi come arma di ricatto per zittire gl’imbelli governanti europei? E la crisi dell’euro è stata davvero contenuta a livelli rassicuranti? Le politiche economiche e finanziarie di Bruxelles contrasterebbero in modo rassicurante l’avanzata montante dei partiti populisti solo perché Tsipras è stato costretto ad abbassare la cresta? Come vedremo nella prossima riflessione, è proprio il modello liberale di cui l’establishment europeo va così fiero che è in crisi, ed è questo il tallone d’Achille che rischia di trasformare in una beffa imbarazzante le cerimonie del Trattato di Roma.

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