sabato 10 dicembre 2016

La riforma dell'uomo forte


Il libro, nel capitolo che paventa il sorgere all’orizzonte del Principe, parla di riforme costituzionali. Afferma che gran parte dei tentativi di modificare la Costituzione hanno finora avuto come effetto quello di peggiorarla. Anni fa si parlava d’introdurre in Italia un semipresidenzialismo alla francese. La prospettiva inquietava molti e il dibattito si fece acceso. Il costituzionalista Michele Ainis affermava: “Non è detto che l’abito francese calzi a puntino indosso agli italiani. Loro hanno fatto la Rivoluzione del 1789, noi la Controriforma. E negli anni Venti abbiamo consegnato il potere a un dittatore. Queste cose contano. Significa che in Italia c’è urgenza di governi forti ma anche di controlli, d’anticorpi per difendere la democrazia”. Il rischio, contro il quale l’Italia invero ha pochi anticorpi, è quello di affidare il potere al “principe”, all’uomo forte, libero di muoversi senza efficaci garanzie e contrappesi istituzionali. Perché come afferma il politologo Michele Sorice: “La trasformazione della forma repubblicana non è questione di ‘manutenzione’ della Costituzione bensì cambiamento radicale dell’architettura istituzionale”. Come potrebbe realizzarla la nostra attuale classe politica ricattabile e moralmente disorientata?

Pure il tentativo di riforma voluto fortemente dal premier Matteo Renzi ha suscitato non poche resistenze. Ha avuto anche parecchi consensi, molti dei quali legittimamente motivati dalla necessità di semplificare l’iter legislativo, di ridurre il numero dei parlamentari e la spesa che essi comportano, di rendere gli esecutivi più stabili e più in grado di assumersi le proprie responsabilità, di risolvere molti dei conflitti di competenza che sorgono tra Stato e regioni (problema peraltro introdotto dalla riforma costituzionale del 2001). I sostenitori del no al referendum confermativo hanno fatto a loro volta notare che la riforma approvata dal Parlamento su proposta dell’esecutivo rispondeva in modo insufficiente e maldestro a questa legittima domanda di aggiornamento della Costituzione, per la qualità dei proponenti e per il fatto che essa non era il risultato di un serio dibattito parlamentare. Inquietava inoltre il fatto che l’appoggio a questa riforma veniva non solo da chi voleva legittimamente migliorare la Costituzione ma anche, compattamente, dagli esponenti dei poteri forti: da Confindustria, Confcommercio, dalle banche, da Piazza Affari, dai ricchi insomma, da coloro che condizionano pesantemente le istituzioni e che cercano di limitare i poteri degli elettori, e spaventati all’idea che la gente esasperata da anni di politiche deregolamentate consegni il potere a incontrollabili forze anti-establishment.

Non a caso l’endorsement alla riforma è venuto pure dagli analoghi poteri internazionali, dalla finanza della JP Morgan, da Marchionne, dall’agenzia di rating Fitch, dalle istituzioni europee ossessionate e disciplinate dell’ordoliberismo tedesco di cui parleremo a breve. Per questo ha stupito la presa di posizione in senso contrario assunta a maggioranza dal settimanale “The Economist” con un redazionale uscito il 24 novembre scorso con l’esplicito titolo “Why Italy should vote no in its referendum” di cui riportiamo la parte finale:

“Anche se ci fossero dei benefici dalla riforma costituzionale questi benefici verrebbero superati dai rischi e soprattutto da uno: che cercando di porre fine all’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945 ad oggi la riforma alla fine possa creare un regime dell’uomo forte. Questo è il Paese che in fondo ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi e che in modo preoccupante è particolarmente vulnerabile al populismo. Così com’è il sistema italiano del bicameralismo perfetto nel quale ciascuna camera ha esattamente gli stessi poteri dell’altra è una ricetta per lo stallo, le leggi possono passare da una camera all’altra per decenni. La riforma di Renzi ridurrebbe le dimensioni del Senato, il suo potere, relegandolo a dare pareri consultivi sulla maggior parte delle leggi come accade per esempio per le camere alte in Germania, Spagna o Regno Unito. In sé tutto questo appare giusto ma i dettagli della riforma costituzionale vanno contro i principi democratici. Per iniziare il Senato non sarebbe eletto. Gran parte dei suoi membri sarebbero scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci, le regioni e i comuni sono i più corrotti tra le istituzioni italiane e i senatori beneficerebbero dell’immunità: questo potrebbe rendere il Senato un magnete per il peggio della politica italiana. Allo stesso tempo Renzi ha fatto approvare una legge elettorale per la Camera che dà immensi poteri al partito che arriva in testa. Usando vari trucchetti il più grande partito avrà il 54 per cento dei seggi; il prossimo presidente del consiglio avrebbe quindi un mandato di cinque anni senza contropoteri, contrappesi. Anche questo potrebbe avere senso salvo il fatto che approvare leggi non è il più grande problema che ha l’Italia; misure importanti come la legge elettorale sono state votate in pochi giorni, il Parlamento italiano approva tante leggi quante quelle di altri Paesi europei. Se la risposta all’incapacità di riformare fosse di dare più poteri all’esecutivo, la Francia oggi sarebbe il Paese più fortunato del mondo e invece, malgrado il suo sistema presidenziale, come l’Italia la Francia è perennemente resistente, ostile alle riforme. Il rischio dello schema di Renzi è che il principale beneficiario alla fine sarebbe Beppe Grillo e la sua sconclusionata coalizione chiamata Movimento 5 Stelle che vuole un referendum per lasciare l’euro. Il Movimento 5 Stelle nei sondaggi è pochi punti dietro al Partito Democratico ed ha appena conquistato i comuni di Roma e Torino. Lo spettro di Grillo come primo ministro, eletto da una minoranza ma con i poteri assoluti grazie alla riforma costituzionale di Renzi, è una prospettiva che molti italiani e gran parte d’Europa trovano inquietante. Si può rispondere che un “no” nel referendum rafforzerebbe l’impressione che l’Italia manchi della capacità di risolvere i suoi problemi ma è stato lo stesso Renzi che ha creato questa potenziale crisi facendo in modo che il referendum fosse più sul suo governo che sulla riforma costituzionale. Renzi avrebbe fatto meglio a sostenere più riforme strutturali, da quella sulla Giustizia a quella del miglioramento del sistema scolastico e invece ha perso due anni a giocherellare con la Costituzione. Prima l’Italia tornerà alle vere riforme, meglio sarà per l’Europa. E invece come rispondere alla prospettiva di un disastro in caso della vittoria dei no nel referendum? Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono, l’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto più volte in passato, ma se il fallimento del referendum dovesse davvero avviare il collasso dell’euro, beh, allora sarebbe la dimostrazione che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione è solo questione di tempo”.

Quest’articolo dell’Economist non solo stupisce per la sua presa di posizione controcorrente ma ha il pregio di dire le cose in modo così chiaro e asciutto come neppure molti sostenitori del no in Italia erano riusciti. Gli italiani comunque hanno dimostrato che, nonostante la campagna mediatica della carta stampata e di una televisione addomesticata, hanno espresso un voto libero e ragionato. La Costituzione per il momento è salva. Il famigerato ricordo dell’uomo forte ha fatto da deterrente, afferma la BBC. In realtà in questo voto la componente di protesta è stata molto alta. Il fatto che gli over 65 siano stati meno compatti a votare no dimostra che il ricordo della dittatura non è stato così determinante. Molti con questo voto hanno raccolto l’invito dei partiti d’opposizione a esprimersi per mandare a casa l’attuale premier. Renzi non solo ha commesso l’errore di personalizzare la campagna referendaria ma si è mosso sottovalutando l’intelligenza dei suoi connazionali: le regalie, l’occupazione grossolana della televisione pubblica, le relazioni fin troppo scoperte con i poteri forti, oltre al suo linguaggio arrogante e all’atteggiamento da bulletto di paese, lo hanno reso indisponente. In breve, se l’è cercata. Le sue dimissioni tuttavia non risolvono il problema della politica italiana. La reputazione della nostra classe politica è ai minimi storici. La pur necessaria riforma costituzionale chi la farà: l’eterogenea opposizione divisa su tutto? Ma soprattutto il rischio dell’uomo forte è tutt’altro che scongiurato. Renzi era inviso a gran parte degli italiani, ma quando si presenterà l’uomo con le giuste qualità relazionali, quello che all’inizio “sorride e saluta tutti affabile, e nega d’essere tiranno, e fa grandi promesse in pubblico e in privato, e libera dai debiti e distribuisce terra al popolo e ai suoi seguaci, e finge con tutti di essere benigno e mite”, come ci si difenderà da lui? Così Platone descrive l’avvento del tiranno. Gli italiani, che hanno l’animo ribelle ma la postura supina, non sanno difendersi dall’uomo forte con le qualità appropriate, e non sanno dirgli di no quando egli chiede sempre più potere. Un demagogo, quello espresso dalle élite, sembra aver fallito l’attuazione del suo progetto. Ma i potenziali demagoghi sono molti e non mancano mai d’accorrere al capezzale delle democrazie morenti.

Nessun commento:

Posta un commento