domenica 19 febbraio 2017

La Democrazia in frasi



La tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia.
(Jacques Maritain)

La democrazia è sempre un esperimento non finito, che testa la capacità di ogni generazione di vivere nobilmente in libertà.
(George Weigel)

Che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto.
(Piero Calamandrei)

La democrazia può resistere alla minaccia autoritaria soltanto a patto che si trasformi, da “democrazia di spettatori passivi”, in “democrazia di partecipanti attivi”, nella quale cioè i problemi della comunità siano familiari al singolo e per lui importanti quanto le sue faccende private.
(Erich Fromm)

Un popolo educato, illuminato e informato è una delle vie migliori per la promozione della democrazia.
(Nelson Mandela)

Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione?
(Massimo Gramellini)

Il limite della democrazia: troppi coglioni alle urne.
(Michele Serra)

La democrazia è solo un esperimento di governo, e ha lo svantaggio evidente di conteggiare i voti, invece che pesarli.
(Dean Inge)

Nelle democrazie, i governanti raramente sono peggiori dei governati.
(Roberto Gervaso)

La democrazia bisogna guadagnarsela; la dittatura la si merita.
(Roberto Gervaso)

Oggi la nuova resistenza consiste nel difendere le posizioni che abbiamo conquistato; difendere la Repubblica e la democrazia.
(Sandro Pertini)

La qualità della democrazia è strettamente intrecciata con la qualità del giornalismo.
(Bill Moyers)

Una democrazia cessa di essere democrazia se i suoi cittadini non partecipano al suo governo. Per partecipare in modo intelligente, devono sapere quello che il loro governo ha fatto, sta facendo e prevede di fare. Ogni volta che qualsiasi ostacolo, non importa quale sia il suo nome, si frappone a queste informazioni, una democrazia è indebolita, e il suo futuro in pericolo.
(Walter Cronkite)

La tendenza delle democrazie è, in ogni cosa, alla mediocrità.
(James Fenimore Cooper)

Democrazia è pochi al servizio dei tanti e non tanti al servizio di pochi.
(Prem Rawat)

Non vorrei essere uno schiavo, ma non vorrei neanche essere un padrone. Questo esprime la mia idea di democrazia.
(Abraham Lincoln)

La democrazia è l’arte di far credere al popolo che esso governi.
(Anonimo)

Mentre conculca la libertà del singolo, facendogli credere che ne ha più di quanta ne abbia mai avuta in passato solo perché può scegliere fra diverse marche di frigorifero, la democrazia non realizza nemmeno la volontà della maggioranza. Fra l’una e l’altra si inseriscono le oligarchie, le vere detentrici del potere, annullandole entrambe. Non siamo che sudditi.
(Massimo Fini)

In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi; in una democrazia, attraverso libere elezioni.
(Gabriel Laub)

Nessuna democrazia rappresentativa è una democrazia, ma un sistema di minoranze organizzate che prevalgono sulla maggioranza dei cittadini singolarmente presi, soffocandoli, limitandone gravemente la libertà e tenendoli in una condizione di minorità.
(Massimo Fini)

Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
(Umberto Eco)

È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.
(Winston Churchill)

Quanto più gravi sono i problemi, tanto maggiore è il numero di inetti che la democrazia chiama a risolverli.
(Nicolás Gómez Dávila)

Le democrazie non possono fare a meno di essere ipocrite più di quanto i dittatori possano fare a meno di essere cinici.
(Georges Bernanos)

È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi.
(Padmé Amidala)

Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato.
(Gordon Gekko)

Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà.
(Sandro Pertini)

Senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.
(Stefano Rodotà)



mercoledì 15 febbraio 2017

Trump, la nèmesi


Ricordate la “Biblioteca Presidenziale Schwarzenegger” citata nel film d’azione “Demolition man”, realizzato nel ’93 e ambientato nel 2032? Lì s’immaginava che il palestrato attore ammazacattivi (ne aveva giustiziati ben 369 nella finzione cinematografica) fosse riuscito a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti. Nel 2003 Schwarzenegger divenne senza problemi governatore della California ma lì dovette fermarsi, non perché non avesse una parvenza presidenziale ma perché non è statunitense di nascita. Gli americani tendono a confondere la realtà con la finzione cinematografica. Raccontava un noto attore, specializzato nel ruolo di cattivo, di doversi guardare le spalle quando camminava per strada perché era già successo diverse volte d’essere stato aggredito dai passanti una volta riconosciuto. Ronald Reagan fu eletto presidente non per la coerenza del suo pensiero politico (era passato con disinvoltura da una visione progressista ad una sfrenatamente conservatrice) ma perché era piaciuto agli elettori piazzare un “action hero” a capo del mondo reale. A maggior ragione oggi, nel XXI secolo, che da sognata utopia si è rivelato per i più una vera e propria distopia (ovvero un mondo da incubo, altamente indesiderabile e spaventoso, senza prospettive), si comprende il bisogno di collocare degli “action hero” nella sala dei comandi, nell’illusoria speranza che essi sappiano come nei film punire i cattivi e raddrizzare le cose.

Donald Trump ha colto questa logica e questo bisogno. Ha saputo interpretare il personaggio di “action hero”. Peraltro ha anche esperienza nel mondo dei media, essendo spesso apparso nel ruolo di se stesso in svariati progetti televisivi e cinematografici. È stato anche candidato all’Emmy nella categoria del miglior reality show competitivo, per “The Apprentice”, di cui è stato conduttore fino al 2015 quando, per avviare la propria campagna elettorale, passò il testimone ad un altro entertainer entrato in politica, ovvero al già citato Arnold Schwarzenegger. Grazie a “The Apprentice”, Trump è riuscito a mutare la propria immagine pubblica da personaggio da imprese fallimentari, stravagante ed eccentrico, a businessman di successo, con il quale non bisogna necessariamente essere d’accordo, ma che affascina perché dà speranza. Dal 2007 risplende anche la sua stella sulla Walk of fame per il contributo dato alla televisione.

Oggi l’America e il mondo si trovano a dover fare i conti con questa mina vagante che di eroico ha solo l’involucro immaginario. Appena insediato, ha già creato il caos con il suo sconclusionato bando ai musulmani. Persino Schwarzenegger lo ha criticato, proponendogli lo scambio dei ruoli: “Perché non ci scambiamo il lavoro? Potresti tornare in televisione dove hai degli ottimi risultati. Io prenderei il tuo posto e le persone potrebbero dormire serenamente”. Nei giorni scorsi, in una lettera aperta, 35 psichiatri e psicologi clinici lo hanno definito “emotivamente squilibrato”. Questo probabilmente lo avevano capito anche coloro che lo hanno votato. Ma poco importa, ciò che conta è che egli interpreti il ruolo di “action hero”, l’eroe ardito e solitario che sfida e umilia i potenti d’America. Così, per incanto, sempre nell’immaginario collettivo, egli è diventato il paladino dei poveri e degli ultimi, dell’umiliata classe media americana che chiede giustizia contro i ricchi capitalisti americani, contro i delocalizzatori. Ma l’eletto, investito di questa sacra vocazione, non è un José Mujica, già presidente dell’Uruguay, che destinava il proprio appannaggio ai poveri e andava in giro con un maggiolino dell’87. L’eletto dagli americani è il messia di Park Avenue, un anti-eroe miliardario che eludeva le tasse e faceva beneficenza per finta. Che ne sa egli come vivono i poveri, lui, che occupa gli ultimi tre piani della Trump Tower? Un attico da 100 milioni di dollari in puro stile rococo, zeppo fino al kitsch di ori, cristalli, marmi e mobili di lusso. Un tripudio allo sfarzo e all’opulenza. Un messia che tra i primi provvedimenti ha cancellato la legge Dodd-Frank, voluta da Obama per frenare le speculazioni finanziarie dopo la crisi del 2008 e le norme per tutelare i risparmi dei pensionati. Che si circonda di collaboratori miliardari proventienti da Wall Street e da Goldman Sachs, quando in campagna elettorale accusava i vertici della banca di derubare la “working class” e di  mettere “quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporation ed entità politiche”. Che sta cancellando la Obamacare, che per la prima volta in America consentiva le cure sanitarie anche ai meno abbienti.

Eppure questo furbone finto Robin Hood, che ha dimostrato di saper coltivare i propri interessi, fa paura nel mondo. Perché comunque è “emotivamente squilibrato”, è imprevedibile, insofferente alle regole. E poi, come tutti i tiranni, qual si prospetta essere, qualche bastonata agli establishment dovrà pur darla per soddisfare un minimo il popolo che lo ha eletto. Perché i tiranni traggono principalmente la loro legittimazione non tanto dalle istituzioni, che essi disprezzano, quanto piuttosto dalle masse, i cui umori, si sa, sono volubili. I primi a tremare sono i governanti europei, già alle prese con i loro populismi nazionali. La Germania improvvisamente ha riscoperto il valore dell’integrazione europea, la Francia è indispettita dall’assist fornito alla Le Pen, la Gran Bretagna è imbarazzata dalle sparate di Trump sul quale contava per dare successo alla sua Brexit, la Polonia si dimostra meno suscettibile alle critiche di Bruxelles per il modello illiberale che sta perseguendo. Persino Putin, che credeva d’aver trovato la quadratura del cerchio con l’elezione del tycoon, si trova in difficoltà. Perché questa strana alleanza con la Turchia non ha le stesse finalità sul destino della Siria mentre l’alleato iraniano è visto con ostilità da Trump, ma soprattutto questi sembra più interessato ad isolarsi dal mondo che a fare comunella con la Russia, prospettiva peraltro che non entusiasma il Congresso. Non parliamo poi dell’estremo Oriente che, al contrario d’Obama, a Trump sembra interessare molto poco. E nella Cina egli non fa mistero di vedere solo un competitor sleale. Per dirla con Bernard Guetta, noto columnist di Libération, “il trumpismo, per il momento, è solo un’accozzaglia di idee poco chiare condite da un ego spropositato, e l’unica certezza è che il fronte occidentale che era stato la colonna vertebrale del mondo dagli anni settanta sta sprofondando in un caos senza precedenti”.  

Ma potremmo anche dare un’ulteriore chiave di lettura a questo fenomeno che emerge tra l’incredulità generale. Donald Trump appare incarnare l’elemento di disturbo con cui la Storia ciclicamente sembra provocare le società umane quando s’incattiviscono e cedono agli egoismi e alle ingiustizie più sfrenate. Essa adopera, a mo’ di nemesi, schegge impazzite che emergono dalle stesse società malate per giocare come fa il gatto con il topo prima di divorarlo. Trump sembra l’avanguardia che scombina le carte a chi pensa di andare avanti con le regole imposte dai più furbi per perpetuare ingiustizia dopo ingiustizia. I furbetti sono costretti a fermarsi e a guardarsi sorpresi. Perdono le loro sicurezze. All’improvviso il loro ordine si trasforma “in un gran casino”. “Che confusione…”, comincia così una nota canzone dei Ricchi e Poveri. “Il mondo è matto perché / e se l’amore non c’è / basta una sola canzone / per far confusione / fuori e dentro di te”. La Storia sembra possedere un sottile senso dell’umorismo, un umorismo tragico, che sfodera nei momenti di svolta epocale per ridimensionare la prosopopea degli uomini.


martedì 14 febbraio 2017

EUROPA “À LA CARTE” O DEI VOLENTEROSI?


 Il fatto è ormai risaputo. Angela Merkel, al termine del vertice di Malta, ha dichiarato che la storia degli ultimi anni ci ha insegnato “che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea”. Ha inoltre auspicato che questo concetto venga formalizzato nella Dichiarazione per il 60° anniversario dei Trattati di Roma che a marzo si celebrerà nella Capitale italiana. In quell’occasione infatti i Paesi membri dell’Unione dovranno tracciare la tabella di marcia dei prossimi 10 anni, incalzati da varie empasse, emergenze ed eventi ostili quali il terrorismo, l’invasione dei migranti, la Brexit e l’elezione di Trump.

Alle parole della cancelliera è stata subito data la grande evidenza che si riserva alle affermazioni clamorose e d’importanza prioritaria. Ci siamo chiesti cos’ha di strepitoso la notizia per meritare tanta risonanza? Peraltro di Unione Europea “a differenti velocità” aveva già parlato il presidente francese François Hollande, riferendosi in particolare a quei paesi dell’Est che non rispettano gli impegni pur ricevendo sostanziosi sussidi da Bruxelles. E poche ore prima del summit di Malta, i tre leader del Benelux (Michel, Rutte e Bettel) avevano diramato un documento in cui si parlava di “diverse forme di integrazione” tra Paesi diversi nel quadro dell’Ue. Di questo documento gli organi d’informazione hanno parlato poco. Quando il giorno dopo la Cancelliera tedesca ha fatto propria la proposta lanciata dai Paesi del Benelux, la notizia dei diversi tempi e forme d’integrazione invece non è passata inosservata.

D’altra parte non è certo il concetto in sé che è nuovo. Di Europa a doppia velocità si parlava già negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90. Cioè ben da prima che la maggior parte dei Paesi ex comunisti, spinti soprattutto da ragioni economiche e di sicurezza, entrassero nella Comunità europea. La doppia velocità prefigurava uno scenario dove gli Stati più motivati a rafforzare l’unione politica avrebbero preceduto quelli meno pronti. I nuovi ingressi conseguenti alla caduta del muro, diedero maggiore attualità alla proposta perché l’Unione allargata rendeva ancora più farraginoso il funzionamento delle istituzioni e accresceva le differenze tra le motivazioni che avevano portato all’associazione. Apparvero così espressioni quali: “iniziativa degli Stati pionieri”, “forme di cooperazione rafforzata”, “sistema delle geometrie variabili”, ecc. Nell’iniziativa degli Stati pionieri l’Unione aveva solo in parte motivazioni economiche, e questi erano pertanto più motivati a procedere con l’integrazione politica rispetto a coloro che si erano aggiunti successivamente e che erano soprattutto mossi da ragioni economiche.

Non solo, ma l’Europa a più velocità esiste già da tempo. Esistono accordi che aggregano alcuni stati e non altri su determinate finalità. Gli accordi più noti e importanti sono quello sull’adozione della moneta unica, cioè la zona euro, e quello sulla libera circolazione delle persone, il cosiddetto Spazio Schengen. Ma ce ne sono altri ancora, ad esempio sulla cooperazione in materia giudiziaria, o di brevetto unico; c’è il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997 dagli allora 15 paesi dell’Unione europea in materia di libertà, sicurezza e giustizia. E si parla di farne altri, come quello sulla difesa comune o sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Sono tutti accordi che vanno nella direzione di rafforzare l’unione politica e che rendono i Paesi interni firmatari più integrati rispetto agli altri nell’Unione europea. L’esistenza di questi trattati implica diversi ritmi d’integrazione. E non si tratta di iniziative estemporanee, almeno dal 2009 quando la riforma di Lisbona ha previsto un preciso “motore giuridico”, modulato sulle cosiddette cooperazioni rafforzate.

Ma allora, se il concetto di velocità differenziata non solo è noto ma è di fatto già in atto, per quale ragione la dichiarazione di Angela Merkel, e proprio la sua, ha suscitato tanto clamore? Per almeno due motivi. Innanzi tutto perché parlarne era rompere un tabù. Tutti sanno che gli Stati dell’Unione hanno raggiunto livelli diversi d’integrazione, a seconda della loro appartenenza alle diverse forme rafforzate di cooperazione; non si poteva però mettere in relazione tali appartenenze con le diverse velocità dell’Europa (almeno non apertamente) poiché farlo avrebbe significato riconoscere che non tutti gli Stati condividono le stesse ambizioni. Adesso si ammette chiaramente che esistono partner (oltre al Regno Unito, sempre esplicito sull’argomento) che non ambiscono all’unione politica. È la fine di un’ipocrisia che si chiede trovi formalizzazione nel documento programmatico che a marzo sarà stilato a Roma.

Il secondo motivo è che la presa d’atto giunge dai tedeschi. Non solo per l’importanza che la Germania riveste nell’Unione, ma soprattutto per il fatto che essa ha sempre vissuto con ambivalenza il discorso delle velocità variabili, preoccupata per le conseguenze sull’integrità del mercato unico. La principale attenzione alle esportazioni tedesche prioritaria persino sull’unione politica, che però non viene esclusa, ha orientato le politiche di Berlino da Maastricht in poi. Ciò ha fatto sì che la Germania si rivelasse il più immobilista tra i Paesi fondatori dell’Unione. È l’accusa che il filosofo Jürgen Habermas ha mosso ad Angela Merkel di “frenetico immobilismo”, di impegnarsi attivamente per conservare lo status quo. Ma lo star fermi si paga con la rinuncia alla progettazione politica e quest’atteggiamento attendista – prosegue Habermas – soprattutto quando soffiano venti di crisi produce danni. “In caso di pericolo e di più grande bisogno la via di mezzo porta alla morte”. Non è indice di buonsenso. Adesso, con l’esternazione del 4 febbraio, la Merkel sembra finalmente aver capito che l’attendismo non è una politica. La novità pertanto è politica ed è dirompente. Ecco perché non è passata inosservata.

“Che Angela Merkel rilanci l’Europa a diverse velocità è un fatto importante, una mossa utile e coraggiosa. La buona notizia è che la proposta venga dalla Germania, il Paese fin qui più immobilista, quello che non voleva toccare nulla e ora invece si muove per la prima volta in una logica di discontinuità. Berlino sembra capire che la mera difesa dell’esistente porta alla distruzione di tutto. La Brexit e Donald Trump costituiscono una doppia minaccia esterna esistenziale e l’Europa deve cambiare passo e direzione”. Lo afferma l’ex premier Enrico Letta in un’intervista al Corriere della Sera.

Avere lanciato lo slogan senza entrare nel merito di cosa lei concretamente intendesse con diverse velocità, che nei suoi sviluppi può essere un concetto molto ambiguo, ha però aperto degli interrogativi. Perché è vero che l’obiettivo finale vuole essere quello di un’Europa integrata anche politicamente, ma perseguendo quali criteri? Inclusivi o esclusivi? Alcuni Stati si metteranno insieme, per tenerne fuori altri non ritenuti ancora “pronti”, o si metteranno insieme, con chi ci sta, per portare avanti l’integrazione nonostante l’ostruzionismo degli altri che all’integrazione non sono interessati? In entrambi i casi si tratterebbe di iniziative volte ad accelerare la costruzione dell’Europa politica ma il metodo è molto diverso ed anche il risultato finale sarebbe diverso.

È vero che dopo l’incontro di giovedì con Mario Draghi, il presidente della Bce, la cancelliera ha tenuto a chiarire che lei è contraria alla creazione di club esclusivi nella Ue e che l’Eurozona deve restare unita nella sua interezza. Ma è questa una precisazione dopo gl’interrogativi che si sono levati un po’ dappertutto alle sue parole o è una correzione di tiro dopo il confronto con Draghi, la cui posizione è nota, e che aveva già dichiarato che l’adozione dell’euro è un percorso irreversibile?

Non bisogna infatti dimenticare che Wolfgang Schäuble, il suo ministro delle finanze, è stato sostenitore della forma più radicale di Europa a più velocità, la “Kerneuropa” (l’Europa del nucleo), che mirava ad un’aristocrazia di Paesi a traino franco-tedesco. E quello è un progetto tutt’altro che inclusivo.

È possibile che la Merkel volesse soprattutto condividere il disappunto di Hollande per l’atteggiamento dei Paesi dell’Est europeo, sempre pronti a battere cassa ma molto tiepidi ad ogni proposta di trasferire quote di sovranità nazionale all’Unione europea. “L’Europa non è una cassa da cui attingere – ha di recente dichiarato Hollande – e a Roma dovremo ribadire il principio che l’Unione è stata costruita per essere più forti insieme”. E pertanto anche la Germania sosterrebbe l’idea di un’Europa a “cerchi concentrici”, dove l’unanimità non è più necessaria, in quanto metodo più razionale per far avanzare senza ostruzionismi un progetto comune con gli Stati che ci stanno. Se hanno deciso di portare il problema a Malta, è anche perché Merkel e Hollande sanno bene che i Paesi dell’Europa orientale si trovano attualmente di fronte a un dilemma esistenziale. L’elezione di Trump, infatti, crea loro più problemi che assonanze. Essi plaudono al nuovo corso degli Stati Uniti quando chiudono le porte ai rifugiati ma sono in grande apprensione per il Trump che va a braccetto con Putin e si disinteressa della Nato. Con un Putin che ha ripreso l’antico vizio dell’Unione Sovietica di confinare con chi gli pare, essi possono permettersi di allontanarsi dagli altri europei per seguire l’irrefrenabile vocazione dello stato illiberale?

Tranne che decidano di crearsi un’Unione europea degli Stati orientali integrata a tutti i livelli, compreso quello politico-militare. E sta qui il rischio della mossa di Francia e Germania: quello di un’idea teoricamente buona che può sfuggire loro di mano. Infatti, una volta definita formalmente la possibilità che ognuno si scelga a suo piacimento il proprio grado d’integrazione senza più l’obiettivo finale per tutti dell’unione politica, c’è il pericolo concreto che prevalga la frammentazione. E poi, a prescindere dalle attuali intenzioni della Merkel, va comunque tenuto conto del dibattito tutto interno alla Germania che è caratterizzato da una, più o meno malcelata, diffidenza verso il resto del Continente. Di tutto il Continente, e non solo dei Paesi dell’Est. Ma anche verso la Commissione, avvertita come troppo accomodante per i dogmi ordoliberisti, e verso l’Europa meridionale cronicamente indisciplinata al Patto di stabilità. I tedeschi da tempo ormai hanno rinunciato a credere che l’Europa a 27 possa funzionare. Ma si rendono conto che anche l’Eurozona nella sua interezza non è in grado di raggiungere quei parametri minimi che consentirebbero (sempre secondo la loro tabella di marcia imposta a Maastricht) di proseguire con le altre integrazioni. Sullo sfondo permane quindi la tentazione di tirare una linea Sigfrido tra i Paesi del Nord a basso debito e quelli del Sud ad alto debito.

Nel prossimo marzo romano comunque non si parlerà certamente di spaccatura dell’Eurozona con la creazione di euro 1, di serie A, ed euro 2 di serie B. Si parlerà più facilmente di difesa comune e della nuova politica americana, dei venti sovranisti, di terrorismo e d’immigrazione. Si definiranno le regole per un’Europa che procederà “a isole” o a “cerchi concentrici” su vari temi. E sarà questo il punto critico, perché una volta che queste regole saranno definite, prima o poi sarà inevitabile toccare il tema dolente delle questioni economiche. E in quel momento la posizione dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei non sarà comoda. A prescindere dall’entusiasmo espresso da Gentiloni alla proposta della cancelliera, il quale dà per scontato che l’Italia, in quanto Paese fondatore, resti nel gruppo di testa nonostante l’alto debito pubblico. Non sarà scontato, anzi.

Ma al di là dell’ottimismo di alcuni e delle intime convinzioni di Angela Merkel, la presa di posizione sulle velocità variabili dell’Europa che ha smosso la cancelliera dalla difesa ad oltranza dello status quo, è dettata anche dalle minacce interne all’Europa dei vari sovranismi resi attuali dalle imminenti elezioni, a cominciare da quelle tedesche. La posizione della cancelliera è poi particolarmente delicata perché insidiata a sinistra dalla candidatura che si sta rivelando travolgente di Martin Schulz, europeista convinto, e a destra dai populisti di Alternative für Deutschland, che la costringe a recitare il duplice ruolo di europeista e di maestrina intransigente con i latini indisciplinati che non fanno i compiti a casa, e con gli europei dell’est che non rispettano le regole sull’accoglienza ai migranti. Per non dire della minaccia costituita dalla candidatura di Marine Le Pen in Francia che, in caso di vittoria, ha chiaramente promesso l’uscita dalla moneta unica, dalla stessa Ue e dalla Nato. E allora l’appoggio dell’alleato storico alle inamovibili ricette tedesche non ci sarà più. Merkel ha finalmente capito che l’assalto alla diligenza europea che proviene da nemici interni ed esterni costringe ad accelerare i tempi dell’integrazione per scongiurare la disintegrazione del progetto europeo, anche a costo di farlo con alcuni soltanto. Ma è una scommessa sui tempi e sui modi. Sui tempi perché potrebbe essere troppo tardi; sui modi perché, come ha osservato Schulz, “se l’Europa a differenti velocità esiste già, dobbiamo chiederci se è sempre stata una soluzione per i nostri problemi. O se ne è stata piuttosto, a volte, la causa.”


domenica 12 febbraio 2017

UN “DEMOLITION MAN” A BRUXELLES


“L’euro? Non credo che sia solo una moneta decotta, ma un vero problema per gli europei ed anche per tutti gli altri. La mia previsione è che sia destinata al collasso. Diciamo entro un anno, forse 18 mesi”.

Lo ha dichiarato il professor Ted Malloch in una recente intervista alla BBC. Malloch non è un semplice profeta di sventure e neppure un incompetente. È un economista che vanta parecchi titoli: è presidente e amministratore delegato della Global Fiduciary Governance, LLC, una società di consulenza strategica per leader. Insegna alla Henley Business School. È autore di una serie di libri bestseller. È stato banchiere di Salomon Brothers e chairman e AD del Roosevelt Group come pure Senior Fellow dell’Aspen Institute. Ha inoltre ricoperto un incarico diplomatico alle Nazioni Unite “con cui ho contribuito a far cadere l'Unione Sovietica”, afferma asciutto nella medesima intervista. È uno che non si limita a fare previsioni dall’alto della propria competenza ma che pure si adopera per far crollare i mostri politico-economici della Storia contemporanea. E questo rappresenta un problema per l’Unione Europea.

Malloch infatti ha chiesto a Trump di essere nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea. Con l’esplicita missione di collaborare alla sua dissoluzione. “Ho aiutato a far crollare l’Unione Sovietica, forse adesso c’è anche un’altra Unione che ha bisogno di essere domata un po’.” Favorevoli a questa nomina sono naturalmente tutti i leader euroscettici che si adoperano per il medesimo obiettivo, a cominciare dal leader dell’Ukip, Nigel Farage (nella foto con Malloch), che ha suggerito il suo nome a Trump.

Per ragioni opposte sono invece in subbuglio i partiti filoeuropei che siedono nell’Europarlamento. Conservatori e liberali, hanno firmato una lettera in cui si chiede al Consiglio europeo e alla Commissione Ue di bloccare la nomina di Ted Malloch ad ambasciatore Usa presso l’Unione europea. Il presidente dei socialisti, Pittella, ha affermato che Malloch “non sarebbe una persona gradita, perché non si può gradire qualcuno che dice vado lì per distruggere l’Ue”. Mentre Manfred Weber, leader del Ppe, e Guy Verhofstadt, che guida l'Alde, hanno accusato Malloch di “scandalosa cattiveria” nei confronti “dei valori che definiscono l’Unione europea” e che “se pronunciati da un rappresentante ufficiale degli Stati Uniti avrebbero il potenziale di minare seriamente le relazioni transatlantiche che, negli ultimi 70 anni, hanno contribuito in maniera essenziale alla pace, alla stabilità e alla prosperità del continente”.

Questo è un fatto rilevante. Per la prima volta dal dopoguerra infatti Washington non sostiene con determinazione l’architettura europea ed anzi si adopera per la sua dissoluzione. Prima della vociferata nomina dell’ambasciatore euroscettico, già Trump aveva sostenuto la Brexit e definito i britannici “smart” (cioè intelligenti) quando hanno deciso per l’uscita da un’Unione europea sempre più diventata “veicolo” della Germania. Anzi egli ha auspicato a breve nuove exit dall’Unione, in accordo con il suo programma che prevede il passaggio dall’ “internazionalismo liberale” al populismo nazionale.

Sulla stessa linea Ted Malloch che ha affermato di non stupirsi “se le prossime elezioni in Olanda, Francia e Germania provocassero un’accelerazione della disgregazione dell'Unione europea”. E subito comunque una sua fondamentale riorganizzazione. Egli auspica che possa trovarsi il modo perché Londra e Washington firmino nel giro di 90 giorni un accordo commerciale bilaterale nonostante i vincoli che ancora leghino la prima all’Unione europea, dimostrando così che “i burocrati di Bruxelles” possano essere bypassati. Quanto ai rapporti tra Ue e USA, egli è convinto che le prossime elezioni europee stravolgeranno talmente il Continente da renderlo ininfluente come interlocutore. “Personalmente non sono certo che dopo ci sarà una Unione europea con la quale avere negoziati per un accordo”, ha affermato. Intanto ci si concentrerà sull’euro che è “destinato a scomparire, così come ha scritto Stiglitz”. È il pensiero dell’economista euroscettico in sintonia con il presidente tycoon che, salvo sorprese, lo invierà alla corte di Jean-Claude Juncker e Angela Merkel. Con licenza di uccidere la moneta unica.


martedì 24 gennaio 2017

Europa (ordo)liberista


“Sono combattuto fra due aspirazioni: quella della costruzione dell’Europa e quella della giustizia sociale”. Queste parole furono pronunziate da François Mitterrand nel 1983, rinunciando a portare avanti la politica di rottura per cui era stato eletto presidente dei francesi. Decideva in tal modo di adottare politiche di austerità per non sganciare il franco dal sistema monetario europeo e dalla Germania. Lo SME non era ancora l’Unione economica e monetaria (istituita nel 1998) ma la logica era già quella. Le parole di Mitterrand hanno un sapore profetico perché ormai è sempre più chiaro al comune cittadino che la costruzione dell’Europa è alternativa alla giustizia sociale. Al di là delle dichiarazioni di principio. Pensiamo a questa continua pressione che ci giunge da Bruxelles per privatizzare beni e servizi con il pretesto di ridurre la spesa pubblica e migliorare l’offerta. L’esperienza ci racconta che le cose vanno davvero in questo modo? Non parliamo dei posti di lavoro che si fanno precari, insalubri (pensiamo all’ILVA di Taranto) o addirittura si perdono per le delocalizzazioni. Limitiamoci ai pretesi vantaggi per il consumatore. Con i gestori privati paghiamo meno l’energia elettrica? Di quanti zeri è aumentato il biglietto del treno? Ciò nonostante i pendolari viaggiano dignitosamente o ammucchiati come in carri bestiame? E i continui e ingiustificati aumenti dei pedaggi da quando le autostrade sono state svendute ai privati? Non si ripercuotono sul prezzo finale delle merci trasportate? In tal modo le bancarelle del nord Italia si riempiono di frutta spagnola o marocchina perché quella prodotta in Sicilia, di migliore qualità, costa troppo trasportarla. Così s’incentiva l’economia? Giusto qualche esempio tratto dalla vita di tutti i giorni.

La verità è – afferma il sociologo Wolfgang Streeck – che l’Unione europea si è conformata sempre più come una macchina di de-regolamentazione. Essa non ha protetto le nazioni che ne fanno parte dinanzi a un capitalismo diventato selvaggio ma gliele ha soltanto consegnate. L’Europa odia le costituzioni, come quella italiana, nate nel dopoguerra dal compromesso tra liberalismo e socialdemocrazia e che hanno come obiettivo tendenziale la giustizia sociale. I trattati dell’Unione hanno come scopo preminente quello di sostituire la giustizia sociale con la “giustizia del mercato”, cioè con l’imposizione giuridica del mercato. La privatizzazione dei servizi e della sicurezza sociale ha proprio questo fine: quello di eliminare gli effetti redistributivi dell’intervento pubblico volti alla giustizia sociale. Il sogno europeo delle origini, quello fondato su “unità, pace e prosperità dei popoli” è stato sostituito dalle regole ordoliberiste imposte dalla Germania, le quali contemplano che “le decisioni in materia di politica economica, rilevanti per la società nella sua totalità, siano sottratte ai processi di formazione della volontà democratica”. Le decisioni prese a Bruxelles sono sottratte al controllo democratico di proposito, non perché è imperfetta la costruzione delle istituzioni europee, ma per metterle al riparo dai “pericoli” connessi all’esercizio della sovranità popolare. Ed è così che la dimensione sovranazionale, anziché riproporre il gioco democratico analogamente come (ancora) avviene nei suoi stati membri, diviene scientificamente funzionale a distaccare la politica economica dalle pressioni delle organizzazioni dei lavoratori e, più in generale, dai meccanismi della rappresentanza.

Ricordiamo (lo abbiamo già detto in un nostro recente post) che l’ordoliberismo nasce come “rivolta delle élite”, in risposta alla “rivolta delle masse”. Per sua natura è antidemocratico e antiegualitarista. Esso è stato imposto dalla Germania all’Europa comunitaria come precondizione per poter entrare nell’Unione economica e monetaria, e per poterci rimanere dopo la crisi del 2008. Da allora tutti i trattati sono impregnati fino alle midolla di questa dottrina economica e politica. “Tutto il quadro di Maastricht riflette i principi centrali dell’ordoliberismo e dell’economia sociale di mercato”, afferma compiaciuto Jens Weidmann, il famigerato presidente della Bundesbank.

Ma c’è di più. Non dimentichiamo che a suo tempo l’ordoliberismo fu adottato dallo stato tedesco per mancanza di alternative. Fu un ripiego. Nel dopoguerra l’amministrazione americana impedì ai tedeschi di attuare politiche redistributive di stampo socialdemocratico (o cattolico sociale) così come facevano le restanti nazioni che cercavano d’uscire dalle macerie della guerra. A cominciare dalla nazionalizzazione dei beni e dei servizi di pubblica utilità che fu vietata alla Germania. In cambio gli americani dimezzarono il debito tedesco e lo sgravarono dalle spese per la difesa. Rispetto al liberismo classico e al neoliberismo, l’ordoliberismo presentava il vantaggio di stabilire regole precise che impedissero al mercato azioni e operazioni troppo disinvolte, come quelle che ad esempio portarono alla crisi del ’29. Al contempo, però, ancor più del liberismo e neoliberismo, l’ordoliberismo proibiva allo Stato d’intervenire direttamente nel gioco del mercato persino per correggere distorsioni e sperequazioni, ad esempio promuovendo politiche a favore dell’occupazione. Nel 1957 fu approvata in Germania una legge che rendeva indipendente la Bundesbank e puntava alla stabilità monetaria al punto di sottrarla al normale dibattito democratico. Ne conseguiva un uso ingessato della moneta così come nessuno Stato aveva mai fatto, in quanto semmai la moneta è di per sé uno strumento elastico che si tende o s’accorcia in controtendenza all’andamento dei corsi economici. E nessuno oltre alla Germania farà quest’uso rigido finché le regole ordoliberiste non furono imposte all’intera eurozona. Nonostante quest’autolimitazione, i tedeschi sono riusciti negli anni a costruire una società ed un’economia in grado di operare superando quest’handicap grazie ad altri fattori compensativi: il sostegno americano, la disciplina di popolo, l’investimento massiccio nella ricerca scientifica e tecnologica, etc. L’ordoliberismo inoltre non ha favorito la costruzione di una società più giusta. Le sue regole non hanno impedito né la disoccupazione di massa, né lo spreco delle risorse, e non ha prodotto l’uguaglianza sociale. Inoltre la competitività tedesca – come riconoscono gli economisti – si deve non poco a una crescita dei salari di gran lunga inferiore alla media dell’eurozona. Il Consiglio degli Esperti Economici, un organismo consultivo del governo quasi tutto composto da ordoliberisti, è giunto a criticare l’introduzione del salario minimo e piccoli miglioramenti introdotti nel sistema pensionistico.

La Germania, con la sua dottrina ordoliberista, non è un modello per l’Europa, né degno né utile. Semmai, come ha intitolato Martin Wolf (il principale columnist del Financial Times) un suo articolo: “È la Germania il più grande problema dell’Eurozona”. Ovviamente per i tedeschi il più grande problema è rappresentato dai Paesi mediterranei che costituiscono la corrotta e papista Europa romana del Sud, da contrapporre alla nordica e virtuosa Europa del Nord di cui la Germania sarebbe fulgido esempio. Paesi mediterranei afflitti per atavica cultura da corruzione, clientelismo e irriducibile individualismo, i cui governi e apparati amministrativi sforano volentieri i conti pubblici per alimentare la propria avidità, quella delle consorterie con cui sono conniventi, e per le regalie elettorali. Ed è per questo che i Paesi nordici hanno imposto il risanamento dei conti pubblici come precondizione ad una maggiore integrazione, ed è per questo che Merkel e compagni prescrivono compiti a casa severi e senza sconti ai partner disinvolti nella spesa per carenze – di ciò sono assolutamente convinti – d’ordine morale. Ora, a prescindere dalla esaustività di quest’analisi, sempre più commentatori economici sono convinti che il primo ostacolo alla soluzione della crisi in cui da un decennio versa la Ue sono invece proprio questi compiti a casa da eseguire in autonomia e nel pieno di una recessione globale. Il vero ostacolo sarebbe quindi la Germania e la sua ideologia che Wolfgang Münchau definisce “stravagante”. Il riferimento è ovviamente all’ordoliberismo. Münchau, che da anni detta la “linea” del Financial Times sugli affari europei, spiega di seguito la sua severità di giudizio verso la dottrina economica dominante nel suo Paese.

Gli ordoliberisti – afferma Münchau – non hanno alcuna politica economica coerente per affrontare le depressioni, disastri che si presentano diverse volte in un secolo. Essi mancherebbero inoltre di un proprio quadro di politica monetaria coerente. Ma quel che è più grave, il dogma ordoliberista è inapplicabile in una grande economia chiusa come la zona euro. Perché la visione del mondo ordoliberista è asimmetrica. I surplus delle partite correnti sono considerati più accettabili dei deficit. Ciò fa sì che lo spropositato attivo di bilancio che la Germania ha nei confronti degli altri partner dell’eurozona venga considerato con molta più indulgenza rispetto al passivo che questi hanno accumulato. Se a questa asimmetria si aggiungono le ricette proposte dalla dottrina ordoliberista per costringere i debitori/colpevoli a conseguire senza indugi il pareggio di bilancio, la catastrofe è assicurata. Finché questa ideologia stravagante era un fatto interno alla Germania, era un problema solo suo, che peraltro riusciva a riequilibrare grazie ad altri fattori compensativi e grazie al fatto che quella tedesca è un’economia aperta relativamente piccola. La cosa grave è stata volerla imporre agli altri partner dell’eurozona. È difficile pensare ad una dottrina meno adatta di questa ad una unione monetaria con tradizioni giuridiche, sistemi politici e condizioni economiche così diverse. D’altra parte è altrettanto difficile vedere una Germania che possa mai rinunciarvi. Perciò Angela Merkel continuerà a interpretare il ruolo di sacerdotessa europea dell’austerity. Münchau ne ha anche per la socialdemocrazia tedesca della Spd che accusa di “bancarotta intellettuale” per la sua incapacità di proporre soluzioni alternative alla gestione dell’eurocrisi della Merkel. Di conseguenza i costi economici della risoluzione della crisi non potranno che essere molto alti.

Sempre Münchau fa notare che tra i tanti errori compiuti nel mettere insieme l’Eurozona v’è stato quello di badare solo all’idoneità economico-finanziaria dei candidati partner senza porre attenzione a ciò che poi s’è rivelato di gran lunga più importante: cioè la visione comune che permette alle persone di comunicare e agire insieme. Vale anche in fatto di macroeconomia. I tedeschi hanno adottato un sistema loro peculiare, non hanno potuto fare esperienza degli altri, e rispetto agli altri paesi vivono in un universo parallelo. Se poi alle incomprensioni aggiungiamo le tensioni e le fratture nazionali che sono esplose con la crisi del 2008, non ha certamente aiutato il riemergere degli immaginari collettivi che si ritenevano estinti con la lezione delle due guerre mondiali. Non è solo un fatto di stereotipi e di pregiudizi rispetto alla valutazione di confinanti popoli europei. Ma è anche un fatto di valutazione di sé e di vecchi atteggiamenti interiorizzati. Mentre i tedeschi del dopoguerra discutevano di normalizzazione e di occidentalizzazione della Germania, c’è chi ha tagliato corto – racconta Gian Enrico Rusconi – affermando che i tedeschi sono semplicemente diventati “normali egoisti” come gli altri popoli, pur continuando però a sentirsi diversi nella loro ritrovata normalità. Lo “spirito del tempo” di hegeliana memoria riposa ancora su di loro e ne fa un popolo egemone (“Deutchland über Alles”), destinato ad essere un modello e quindi a imporre i loro modelli che, in tema di economia, ovviamente, è l’ordoliberismo. Per altre dottrine economiche non c’è semplicemente posto. D’altra parte anche in passato, per ragioni storiche, geografiche e culturali, essi sono stati spesso chiamati ad assumere un ruolo di leadership, che però nei confronti degli altri popoli non hanno mai saputo esercitare adeguatamente per la loro incapacità di attuare politiche sovranazionali e plurinazionali, sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Guerra armata e guerra commerciale. Anche nell’attuale aggressiva politica neomercantilista, mentre impartiscono moralistiche lezioni in virtù del loro ruolo di nazione guida, i tedeschi rivendicano una posizione di comando ma solo sul piano economico. La leadership politica, che vuol dire responsabilità politica, ha per loro senso solo nell’ambito del loro popolo, ancor meglio dell’Heimat, del luogo natio, dove si parla la lingua degli affetti. I tedeschi non mancano di senso di accoglienza e non sono neppure contrari all’idea di Europa unita, ma non concepiscono un’Europa unita dei popoli. Essi sono disponibili all’integrazione nella misura in cui l’Europa si germanizza. Altrimenti gli altri sono buoni solo per le vacanze e per i commerci; e a causa del loro spirito competitivo il commercio per loro è una gara all’ultimo sangue. Famigerate le guerre commerciali e la politica imperialista in età guglielmina che sfociarono nella Prima guerra mondiale.

Le due guerre mondiali e la sconfitta del nazismo non hanno cambiato questa mentalità. Le Panzer-Division non scorrazzano più per l’Europa, ma altrettanto aggressive sono le politiche commerciali che i tedeschi hanno prestissimo posto in essere, già ai tempi della Cee, contro gli altri Paesi europei che essi trattano da avversari e non come concorrenti. Con il disprezzo e l’alterigia che meritano i “vinti”. L’unica difesa che avevano soprattutto i Paesi del sud per proteggersi dall’egemonia tedesca era la flessibilità del cambio che permetteva loro di essere competitivi sui mercati senza ricorrere a pratiche di deflazione salariale di scuola neoliberista. L’adozione della moneta unica ha lasciato queste economie alla completa mercé del panzer tedesco. Nessuna difesa è ormai possibile senza i trasferimenti di solidarietà fiscale che sarebbero d’obbligo in un sistema economico-finanziario-monetario integrato a questo livello. Ma come si è affrettato a ribadire il solito Weidmann, “non c’è spazio per la solidarietà”. Il guardiano del verbo ordoliberista, imposto all’intera eurozona con il Trattato di Maastricht, però non ce la racconta tutta. Perché persino tale dottrina “stravagante” prevede dei correttivi per situazioni insostenibili come l’attuale. Infatti uno dei massimi teorici della dottrina, l’economista Alfred Müller-Armack, pur essendo contrario ai trasferimenti tout court che violerebbero i principi di stabilità fiscale e monetaria (dogma intangibile dell’ordoliberismo), raccomandava ai paesi che si trovano in posizione di eccedenza (qual è il caso della Germania) di accrescere la propria domanda interna con l’aumento dei salari. Questo, oltre a migliorare le condizioni dei propri lavoratori, sosterrebbe le esportazioni dei Paesi concorrenti e stimolerebbe la loro ripresa economica. La Germania però neanche si sogna di attuare questi correttivi perché è proprio comprimendo la domanda interna che essa riesce ad essere così competitiva con l’estero da realizzare un surplus che viaggia nell’ordine dei 300 miliardi di euro l’anno. Quindi in questo caso il rispetto della dottrina è solo una scusa di facciata per giustificare il proprio ostinato egoismo. E se questa politica commerciale si tradurrà nella disfatta dei “nemici”, pazienza: non è per questo che si combattono le guerre?

Quel che è ancora più triste è che questa guerra tra Paesi partner avviene con la complicità delle élite economico-finanziarie dei Paesi sotto attacco. Élite che non sono mai state ordoliberiste ma che per convenienza non hanno mai abbandonato il loro sogno liberista, tenuto per un po’ a bada dal patto postbellico con le forze socialdemocratiche o cristiano-sociali. L’introduzione delle regole ordoliberiste con il Trattato di Maastricht, sfruttando il vincolo posto dai tedeschi, consente ai governi asserviti alle élite di smantellare lo stato sociale, con la scusa che “ce lo chiede l’Europa”. Il tal modo l’ordoliberismo (che comunque è una forma peculiare di liberismo) per quanto originariamente orientato contro gli effetti del “laissez-faire”, ritenuto responsabile della Grande Depressione del 1929, è stato successivamente rivolto contro le politiche economiche d’ispirazione keynesiana e socialista. Tutti i contraenti ne hanno quindi il loro vantaggio; è per questo d’altronde che è stato introdotto l’euro: per limitare l’intrusione dello Stato nel processo economico e fermare le politiche redistributive di giustizia sociale. Chi ci perde sono i popoli e il sogno di un’Europa unita nella giustizia. Il “patto scellerato” è venuto allo scoperto con la crisi economica del 2008 perché ha reso apertamente insostenibili le cosiddette riforme strutturali, che altro non sono che una deregulation neoliberista. Perché esse impoveriscono ulteriormente le classi medie e operaie, cioè quelle produttive, la domanda interna si deprime, circola meno denaro e l’obiettivo del pareggio di bilancio si allontana sempre di più. Inoltre la precarizzazione dei servizi e dei posti di lavoro, che è partita proprio dalla Germania per iniziativa del “socialdemocratico” Schroeder, ed emulata dai vari Job Act, ha reso quasi impossibile nell’Europa comunitaria progettare una vita di coppia stabile per le nuove generazioni, con il conseguente crollo esponenziale della natalità. Questa politica devastante imposta dai tedeschi va ormai avanti per inerzia, in una sorta di circolo vizioso che sovrappone egoismo su egoismo ad ogni livello, che si concluderebbe con la sola sopravvivenza dell’economia tedesca, e poi con la morte pure di questa quando non ci saranno più mercati assoggettati da saccheggiare.

I vari comitati d’affari però adesso cominciano a preoccuparsi. È vero che l’avidità ottenebra il giudizio, però quando il cittadino comune comincia a non aver più nulla da perdere si ricorda che il proprio voto vale quanto quello di un altro. È per questo che i governi sostenuti dalle élite adesso temono gli appuntamenti elettorali e studiano sistemi di rappresentanza che limitino l’uso del voto, e che rendano questo meno influente sul potere che si cerca d’accentrare negli esecutivi. Di riesame delle politiche fin qui perseguite però non si parla. Anzi ci si accanisce nella loro prescrizione, nonostante il Fondo Monetario Internazionale, con un sorprendente mea culpa, ne abbia preso le distanze, ammettendo di aver sottovalutato il danno che esse stanno provocando. Nel febbraio del 2013 il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman, in un duro articolo sul New York Times si compiaceva delle dimissioni di Mario Monti, da lui definito “il proconsole messo dalla Germania per imporre l’austerità fiscale su un’economia già in difficoltà”. E quindi notava che “la volontà di perseguire l’austerità senza limiti è ciò che definisce la rispettabilità nei circoli politici europei”. E di conseguenza osservava che se in Italia, come in tutta l’Europa meridionale, “i politici poco raccomandabili” sono in aumento è grazie al fatto che “gli europei rispettabili non vogliono ammettere che le politiche che hanno imposto nei confronti dei debitori sono un fallimento disastroso”. Se tutto questo non cambia non ci si deve poi sorprendere del “pericoloso processo di estremizzazione che verrà”. Insomma gli elettori esasperati finiranno per affidare il potere ai politici poco raccomandabili perché quelli rispettabili li hanno rovinati. Da allora sono trascorsi quattro anni, gli “europei rispettabili” non si destano dal “furore ideologico ottenebrante” che li ha colti e l’analisi di Paul Krugman si sta confermando in tutta la sua drammaticità.


venerdì 20 gennaio 2017

UN EURO DEL NORD E UN EURO DEL SUD



Quasi tutti i fondatori di “Alternativa per la Germania” (AfD), il partito euroscettico tedesco, provengono dalle file della Cdu, il partito di Angela Merkel. L’AfD è nato nel 2013 contestando l’affermazione della cancelliera che “se fallisce l’euro, fallisce l’Europa”. Guidato dall’ex presidente della Confindustria tedesca, Hans-Olof Henkel, esso si è sempre opposto all’uso del "denaro dei contribuenti tedeschi" per salvare le economie in crisi dell’Eurozona; con l’acquisto ad esempio di debito dei Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea. Gli economisti dell’AfD sanno però anche che il mantenimento dell’attuale situazione non è proponibile neppure con le politiche di maggior compromesso consentite dall’esecutivo guidato dalla Merkel. Sanno che la camicia di forza imposta dalle regole della moneta unica si sta traducendo in una fortissima rabbia sociale, politica ed economica degli Stati del sud che si tradurrà presto o tardi in una vittoria dei partiti euroscettici. In fondo è ciò che auspica, dato che anch’esso è partito euroscettico. L’AfD però non si spinge fino a chiedere l’uscita dall’euro e il ritorno al marco, la moneta nazionale. Sa che la Germania è stata l’economia che ha tratto più beneficio dall’introduzione della moneta unica. Semplicemente (ed egoisticamente) non vuole che i tedeschi paghino i costi di una politica più integrata e quindi inevitabilmente redistributiva. Insomma è contrario a pagare gli oneri e al contempo non vuole perdere i vantaggi dell’unione monetaria. E così la sua proposta, sin da quando ancora era movimento, è quella di sdoppiare la valuta unica europea in due monete: un euro del Nord a cui aderirebbero i Paesi più forti economicamente, e quindi anche la Germania, e un euro del Sud a cui dovrebbero aderire i Paesi mediterranei, i ben noti Pigs. Ci si apparenterebbe così tra culture monetarie ed economie più simili tra loro, senza perdere troppo i vantaggi dell’integrazione, ed esponendosi inoltre di meno alle speculazioni del mercato che invece il ritorno alle monete nazionali comporterebbe. La proposta dell’AfD piace a molti tedeschi. I sondaggi gli attribuiscono il 15% dei voti nelle elezioni del prossimo settembre. Ma il consenso per i suoi slogan è ancora più ampio, raccogliendo esso gradimenti non solo a destra, ma pure al centro e persino a sinistra, tra gli strati sociali più marginalizzati.

Angela Merkel si trova tra due fuochi. Da una parte deve rispondere alle critiche dello sfidante socialdemocratico alle prossime elezioni, Sigmar Gabriel, che la accusa di spaccare l’Unione europea con la sua ossessione per l’austerità. “Cosa sarebbe più costoso per la Germania – egli le ha chiesto – avere una Francia con mezzo punto percentuale in più di deficit o avere Marine Le Pen come presidente?” D’altra parte la cancelliera non può non tenere conto degli umori dell’elettore medio, che è stato finora indottrinato con la tiritera che i Paesi del sud Europa cercano di sfruttare furbescamente i virtuosi lavoratori tedeschi. Ritornello che è stato alimentato non solo dalle forze populiste ma anche e soprattutto dai partiti di governo. In fondo le idee dell’AfD non sono così lontane da ciò che pensano i parlamentari della Cdu da cui questa formazione populista proviene. La Merkel è tutt’altro che stupida. Certamente è condizionata da settant’anni di cultura ordoliberista e dalla voracità delle élite economico-finanziarie del suo Paese. Ma sa anche bene che per la Germania un conto è tirare la corda e giocare a fare la prima della classe, e un altro è portare il gioco alle estreme conseguenze provocando la spaccatura dell’Unione europea. Con conseguenze non solo sul progetto unionista ma ancor prima sulla stessa economia del suo Paese. La nuova moneta nord-europea che risulterebbe da questa spaccatura si apprezzerebbe, si stima, di circa il 40% rispetto al livello attuale dell’euro. Ciò renderebbe difficili le esportazioni in tutto il mondo e in particolare nell’Europa mediterranea la cui nuova moneta sud-europea si deprezzerebbe di almeno un 20% rispetto all’euro. La fine dell’euro recherebbe alla Germania un grande danno, avendo goduto di una moneta debole che le ha permesso di rilanciare l’export senza creare tensioni inflazionistiche. Tuttavia l’attivo accumulato rispetto alle altre economie europee è eccessivo e non potrà essere sostenuto ancora per molto, senza attuare politiche redistributive. Ma questa possibilità è ormai impraticabile perché l’opinione pubblica è stata educata a considerarla un’aberrazione, per colpa non solo dell’AfD, come dicevamo. Per cui anche chi ha finora governato si rende conto che la spaccatura sarà inevitabile, sebbene gli attuali governanti probabilmente sperino che siano gli altri a fare il primo passo. Se non altro per evitare di passare nuovamente alla Storia come i soliti tedeschi specializzati nello sfasciare l’Europa.

Nota curiosa a margine. Inizialmente l’AfD nell’ipotesi di Euro del Nord Europa includeva, oltre a Germania, Olanda, Lussemburgo, Austria e Finlandia, pure la Francia. Mentre nella moneta meridionale vi vedeva Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Adesso invece Jörg Meuthen, uno dei leader dell’AfD, in un’intervista a Reuters prefigura uno scenario leggermente ma significativamente diverso. Infatti nella moneta più forte, quella nord-europea, non v’include più la Francia, ma vede questa nella moneta sud-europea la quale, al contempo, non includerebbe più la Grecia perché “troppo debole e nessun paese vorrebbe condividere con essa la moneta”. È uno scenario curioso perché il territorio dove dovrebbe circolare questa moneta corrisponde a quello del risorto Impero latino prefigurato da Alexandre Kojève nel 1945 di cui abbiamo già detto in uno dei nostri post. Insomma, l'euro del sud come una sorta di moderno sesterzio.


martedì 3 gennaio 2017

Pigrizia o tradimento?


Eccoci come promesso a commentare l’articolo dell’Economist sul 2016, annus horribilis del liberalismo. Dicevamo nella nota introduttiva che la rivista fa un’analisi abbastanza obiettiva su questa crisi. Inizia elencando la serie di eventi che hanno costituito “uno schiaffo durissimo” per la concezione liberale della politica e delle libertà individuali, dalla svolta della Turchia a quella delle Filippine. Fa persino un interessante parallelismo tra le due fasi di transizione, quella attuale e quella avvenuta nel diciannovesimo secolo, tra il consolidato modo di vivere ottocentesco e le sfide destabilizzanti poste dalle forze tecnologiche, economiche, sociali e politiche. Anche allora si avvertiva la necessità di maggiore ordine e protezione da parte dello Stato, e le due soluzioni che si prospettarono furono: quella illiberale dell’uomo forte, conservatore o rivoluzionario, con sufficiente potere da decidere per tutti cosa fosse meglio; e quella liberale che invece proponeva non di concentrare il potere nelle mani di uno o di pochi, bensì di disperderlo usando lo stato di diritto, i partiti politici e i mercati in concorrenza tra loro. S’impose quest’ultima visione perché era quella della borghesia allora in piena affermazione e andò avanti così (aggiungiamo noi) fino agli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando di fronte al pericolo rosso incalzante i ceti privilegiati (compresa la borghesia) e la Chiesa trovarono più rassicurante affidarsi ai fascismi degli uomini forti.

Anche oggi la gente, provata dall’aumento delle disuguaglianze, chiede maggiore sicurezza. Ed è a questo punto però che l’articolo dell’Economist comincia a perdere di obiettività e lucidità. Inizialmente in modo quasi impercettibile, perché individua bene il momento della svolta negativa e riconosce le responsabilità dei liberali. “Nell’ultimo quarto di secolo per il liberalismo le cose sono state troppo facili. Il suo dominio dopo il collasso del comunismo sovietico si è trasformato in pigrizia e compiacenza”. I liberali, rincuorati dalla sconfitta del comunismo, si sono compiaciuti negli ozi e negozi consentiti dal loro stato di diritto, e poco si sono curati dell’aumento delle disuguaglianze che il loro agire stava producendo, rassicurati sempre dalla loro filosofia che premia il merito anche quando si traduce in privilegio di pochi e disagio dei molti. Dove comincia ad avvertirsi la perdita di obiettività? Nel considerare quest’atteggiamento solo frutto di “pigrizia e compiacenza”. Nel definire il liberalismo “il miglior modo per conferire dignità e portare prosperità e uguaglianza”. Nell’attribuire semmai agli impoveriti, alla “gente”, mancanza di obiettività, perdita di fiducia nel progresso, visione distorta dei fatti che esagera la realtà, dove “il progresso vale principalmente per gli altri, la ricchezza non è distribuita, le nuove tecnologie distruggono posti di lavoro, le classi subalterne vivono al di là d’ogni possibilità d’aiuto o di redenzione, altre culture costituiscono una minaccia, spesso violenta”.

L’articolo chiude prospettando delle soluzioni liberali alla crisi, che forniscano “una risposta anche per i pessimisti”. Ammette che “durante questi anni al potere, le soluzioni liberali sono state deludenti”, ma attribuisce questo comportamento ad autocompiacimento, alla pigrizia, alla mancanza d’immaginazione. E allora propone di aprirsi ai bisogni che esprime la società esplorando “le prospettive offerte dalla tecnologia” e nuove forme di democrazia partecipata che parta dal basso, dalle comunità locali. Dell’aspetto etico non si fa alcuna menzione e s’ignorano le contraddizioni che convivono nell’ideologia liberale. L’articolo ha il merito di analizzare i fatti della crisi con discreta obiettività, chiamando in causa anche le responsabilità dello stesso liberalismo, ma lo fa dal suo interno. Sono i liberali che giudicano se stessi, incapaci di scavare sino in fondo ed esprimendo su di sé un giudizio a dir poco indulgente.

Quest’atteggiamento viene considerato miope e pericoloso persino da alcuni studiosi di area liberale come il sociologo Lorenzo Infantino, che accusa soprattutto i politici di vivere in un mondo virtuale costruito dagli esperti nella comunicazione e delineato dalla loro lettura dei fatti. In tal modo essi sovrappongono una realtà virtuale, una meta-realtà, alla realtà vissuta dai cittadini quotidianamente, perdendo così il contatto con l’uomo della strada e quindi con l’elettore. È l’errore – afferma Infantino – commesso da Hillary Clinton, la candidata democratica alla presidenza USA, che ha pagato a caro prezzo a favore del candidato Trump, improbabile per tratti di carattere e storia personale, ma ritenuto credibile per il solo fatto di avere denunciato questa realtà virtuale in cui si culla l’establishment.

Certo, l’Economist prende atto della situazione di crisi e di difficoltà in cui i liberali si trovano. E lo sono in modo evidente sia sul piano internazionale che sul piano interno. Essi devono fronteggiare – afferma il politologo Angelo Panebianco – “una forte protesta sociale che in larga misura è la conseguenza di una lunga crisi economica, e che mette in difficoltà le forze liberali perché domanda più Stato, più protezione statale”. Lo stesso Trump “non c’è dubbio che sia stato portato alla massima carica degli Stati Uniti anche da una fortissima spinta protezionista”.

L’articolo mette in evidenza molti aspetti reali della crisi attuale. Quella che il politologo Biagio De Giovanni ha definito la prima crisi politica della globalizzazione. La prima crisi nella quale il mondo globale non riesce più a governare se stesso. E questa crisi apre campi di grandi anomalie, eccezioni, disordine. De Giovanni concorda con l’analisi dell’Economist quand’esso richiama tali fenomeni e concorda pure con il timore che a causa di ciò possano essere messe in discussione le conquiste che ci ha portato la civiltà liberale, ovvero maggiore libertà e diritti in tutti i campi. Ma il liberalismo non è solo questo, su cui si può essere tutti d’accordo. Il liberalismo – afferma De Giovanni – è un fatto complesso e carico di contraddizioni al suo interno. Quando infatti esso diventa di fatto rigetto della politica, ovvero rifiuto tendenziale della decisione politica, affermazione dei diritti umani senza la loro effettiva tutela politica, quando diventa cosmopolitismo che rigetta e rifiuta le identità, che esistono nel mondo e che devono trovare un punto di mediazione… Per dirla più in breve: quando il liberalismo diventa liberismo, cioè quando diventa tendenziale governo dell’economia e tendenziale rifiuto della politica, allora si capisce perché il liberalismo è in crisi.

Simile giudizio esprime il filosofo Aldo Masullo che trova inevitabilmente partigiano l’articolo dell’Economist. Ovviamente è incontestabile il principio della difesa dei diritti individuali, quello che oppone alla tendenza totalizzante la difesa dei singoli individui. Tutto questo si è realizzato attraverso i principi costituzionalistici, già teorizzati nel Settecento, che pongono dei punti di resistenza molto forti e molto precisi in difesa delle libertà individuali, ed è quello che abbiamo chiamato lo stato di diritto; conquista che viene posta in pericolo con la crisi del liberalismo. Dov’è allora che la discussione si fa più delicata, come sempre d’altra parte quando si parla di liberalismo? Quando si tocca il rapporto tra il liberalismo inteso come grande principio e l’economia liberale, l’economia di mercato, perché è quello il punto di caduta della discussione. Il rapporto tra il principio liberale e i vari aspetti della personalità umana, compreso l’aspetto economico, il principio dell’insindacabile libertà economica della persona, diventa difficile da sostenere quando l’economia è in crisi.

L’aumento delle disuguaglianze, l’impoverimento della classe operaia, prima, e della classe media, poi, che sono seguiti al collasso del comunismo sovietico e al dominio del liberalismo, “si è trasformato in pigrizia e compiacenza”, afferma l’Economist, come abbiamo letto e fatto osservare. Giudizio indulgente nei confronti di chi ha imposto la deregulation e vi ha cinicamente lucrato nel nome della meritocrazia e della libertà d’impresa.  Anziché “pigrizia e compiacenza” il giornalista Federico Rampini, di Repubblica, preferisce chiamare questo comportamento “Il tradimento”. È il titolo del suo ultimo libro, pubblicato a novembre. Sottotitolo: “Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite”. Tradimento e non pigrizia. Secondo Rampini il tradimento della classe dirigente si consuma sopratutto su due promesse mancate: una società multietnica integrata e armoniosa e una globalizzazione in grado di arricchire tutti.

“Per élite – afferma Rampini – intendo un ceto privilegiato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali, pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io. Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teorizzato e propagandato i benefici delle frontiere aperte: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare un’astratta retorica europeista mentre per milioni di persone l’euro e l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento. Il tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro il mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori”.

Le élite, cioè l’1% della popolazione occidentale, sono le uniche che hanno tratto beneficio dalla globalizzazione. Si sono arricchite soprattutto le élite economico finanziarie a cui fanno da reggicoda le élite politiche imbelli e corrotte, e le élite culturali che non hanno svolto con serietà il ruolo di coscienza critica del processo. Per gli altri ha significato impoverimento generale, delocalizzazioni, stagnazione, immigrazione di massa per mantenere bassi i salari e diluire le identità nazionali, aumento esponenziale delle disuguaglianze con forte assottigliamento del ceto medio, peraltro tartassato visto che alle multinazionali si consente di eludere il fisco. Se non si può ormai eliminare la globalizzazione – afferma Rampini – si deve almeno ricostruirla su una base più equa. È inaccettabile che le moderne oligarchie fissino regole per gli altri, rifiutando di applicarle a se stesse. “Come stupirsi se una parte di noi perde fiducia nella democrazia stessa?”.  Può la democrazia sopravvivere all’impoverimento della classe media? Questa è la domanda che dovrebbero porsi i pigri e compiacenti liberali, così definiti dall’Economist. Impaurite dai fenomeni destabilizzanti della globalizzazione e dell’immigrazione incontrollata, “senza una guida, abbandonate dai loro leader sempre più insignificanti e irrilevanti – afferma Rampini – le opinioni pubbliche occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme”.