venerdì 18 novembre 2016

Ahi serva Italia... nave senza nocchiere


Dopo decenni di “euroforia”, con sottofondo di inno alla gioia, eurovisione e giochi senza frontiere, stiamo prendendo atto che questa Europa non è quella dei cittadini che ci si voleva far credere ma quella delle lobby e dei comitati d’affari. Non è quella delle libertà ma quella dei Paesi più forti che dettano le regole ai Paesi più deboli. Non quella della solidarietà bensì quella degli egoismi e delle discordie. È l’Europa della troika che infligge supplizi non agli Onassis, ai Niarchos, ai Melissanidis ma ai poveri salariati e ai pensionati, e mai paga inasprisce viepiù la dose. Ora, è vero – come affermava George Orwell – che “un popolo che elegge corrotti, impostori, ladri e traditori, non è vittima, è complice”, ma è anche vero che di norma un potere superiore interviene per porre rimedio a gravi irregolarità messe in atto dai poteri subordinati, fino a commissariare le cariche elettive (sindaci, governatori) in fin dei conti a protezione della cittadinanza. L’Unione Europea non ha questo potere (grazie al Cielo, date le premesse) ma ha quello di infliggere sanzioni insopportabili e controproducenti di fatto direttamente ai cittadini di uno Stato membro, a protezione dei trattati comunitari, firmati peraltro all’insaputa degli stessi cittadini.

Il filo del nostro discorso ci vede costretti a fare alcune riflessioni critiche nei confronti delle istituzioni europee e della Germania che ne è, quasi con riluttanza, al timone. Ma per chiarire subito ogni equivoco non siamo animati da spirito antieuropeo, semmai siamo amareggiati da questa situazione che richiama stormi d’avvoltoi populisti sul cadavere in decomposizione del Continente. E sarebbe anche troppo comodo accusare i tedeschi di tutti i mali che affliggono l’Europa. La Germania come tutti gli stati membri si sta semplicemente, con qualche miopia, facendo gli affari suoi. Se occupa la posizione che occupa lo si deve semmai ad atteggiamenti più virtuosi rispetto ad altri. È troppo facile recriminare contro i “cattivi” tedeschi, che comunque meglio di noi hanno fatto, visto che sono gl’italiani a cercar lavoro in Germania e non i tedeschi a cercare impiego nelle fabbriche o nei resort italiani. La nostra riflessione critica è un prendere atto del modo sbagliato in cui s’è cercato di costruire l’Europa, della superficialità con cui non s’è tenuto conto delle disomogeneità che dividono le varie culture: quelle nordiche da quelle mediterranee e da quelle slavo-balcaniche. Questo porta a gravi incomprensioni che in questi anni stanno emergendo in tutta la loro gravità. Unite agli egoismi nazionali, ecco approntata la formula esplosiva. La Germania, come tutti gli altri, non è stata in grado di uscire da questa palude, ed essendo la sua azione più gravida di conseguenze è anche quella che più sta contribuendo ad affossare il progetto europeo. A detta di autorevoli studiosi, anche tedeschi, la miopia dovuta all’egoismo e alle differenze culturali, porterà al dissolvimento dell’attuale unione. Certo si costruiranno in seguito nuove aggregazioni, stavolta tenendo conto delle affinità che legano i popoli europei, perché in un mondo dove spadroneggiano entità sovranazionali sarà inevitabile aggregarsi.

E un’ultima parola sui governanti di casa nostra, sempre pronti ad apparire nelle foto di gruppo, e a vantare meriti inesistenti su un’adesione all’Europa costruita malissimo e pedissequamente. Che al contrario degli statisti tedeschi non hanno saputo perseguire gl’interessi nazionali. Mentre la Germania si riunificava con i nostri soldi e risanava le sue banche con il beneplacito di tutti, noi apportavamo modifiche alla nostra costituzione secondo i criteri di Berlino e accettavamo in silenzio il bail-in che ha gettato sul lastrico, e nella disperazione fino al suicidio, i nostri piccoli risparmiatori. Solo adesso ci si inquieta sui pericoli derivanti da una germanizzazione della governance europea, dopo quasi un ventennio che quel Paese impone, elemento dopo elemento, la sua visione di politica economica senza che nessuno dei nostri osasse eccepire o tutelarsi pretendendo clausole di salvaguardia. E come avrebbero potuto? Mentre in Francia si succedevano due soli presidenti e in Germania due soli cancellieri, in Italia si susseguivano 17 presidenti del consiglio, tutti concentrati sui loro giochini di potere, e assolutamente inconsapevoli e non in grado di capire cosa effettivamente si stava decidendo a Parigi e a Berlino. D’altra parte, forse ha ragione Orwell: ognuno ha i governanti che si merita. E così uomini incapaci di amministrare un condominio ci vengono spacciati per grandi statisti e salvatori della patria. Nel frattempo sono entrate nel nostro vocabolario espressioni come “olgettine”, “esodati” e “stai sereno”. “Ahi serva Italia… nave senza nocchiere…”. Parole sempre attuali del sommo Vate. Gli fa eco il Petrarca quando si chiede: “Che s’aspetti non so, né che s’agogni Italia, che suoi guai non par che senta: Vecchia, oziosa e lenta, dormirà sempre, e non fia chi la svegli?” (Rime, 53, 10-13). Il nostro è un problema antico e ben sedimentato.

giovedì 17 novembre 2016

L'egemone riluttante


Nell’analisi di questa settimana ascoltiamo Jürgen Habermas, il più autorevole filosofo e sociologo tedesco vivente, nelle critiche che muove al suo Governo riguardo alle politiche europee. Habermas ritiene la Germania di questi anni, ancor più della Francia, il maggiore ostacolo al processo di unificazione europea e causa di disaffezione dei cittadini europei per le istituzioni comunitarie. Egli definisce il proprio Paese un “egemone riluttante”, nel senso che esercita la propria leadership europea con insensibilità e miopia, nel solo proprio interesse immediato piuttosto che nell’interesse comune, attuale e futuro. Tutta acqua al mulino dei populismi euroscettici.



All’indomani del referendum che ha deciso per la Brexit, il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier stava per convocare i colleghi dei sei Stati fondatori per riflettere insieme sull’accaduto. Questo gesto del ministro socialdemocratico si sarebbe potuto leggere come il desiderio di voler ricostruire l’Europa su quelle basi politiche di cui era impregnata la sua fondazione. L’iniziativa non piacque alla cancelliera Merkel, proprio per questa valenza che ormai la Germania non persegue più. Giustappunto quella Germania, che dall’Unione ha tratto i maggiori benefici, sta facendo marcia indietro nel sia pur lentissimo percorso di maggiore integrazione politica e istituzionale. Persino il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, considerato il più federalista tra i politici tedeschi, ha ormai abbandonato l’idea di un’Europa a due velocità, la cosiddetta Europa del nucleo (Kerneuropa) che di fatto avrebbe dovuto coincidere con i Paesi dell’unione monetaria. Ebbene adesso Schäuble ha annunciato una svolta che va in tutt’altra direzione, ovvero nel rafforzamento delle relazioni intergovernative. Egli non esclude in futuro un’Europa che avanzi nel suo processo d’integrazione ma ciò che importa adesso è impedire che si rafforzino le istituzioni europee (il Parlamento e la Commissione) per lasciare le mani libere ai governi che si riconosceranno nell’iniziativa. Il che implica un’Europa dove i governi e i parlamenti dei Paesi più forti dominano quelli dei Paesi più deboli o, ancora più esplicitamente, una Germania che domini su tutti, che detti la sua agenda, le sue priorità, le sue ricette di politica economica. Lo sta già facendo in realtà, ma i recenti attriti tra Schäuble e Juncker – il presidente della Commissione europea – rendono ancora più evidente l’insofferenza della Germania per le istituzioni europee che pur recependo le sue “direttive” non le fanno applicare con la dovuta celerità e intransigenza. “Non è il momento giusto per le grandi visioni. La situazione è così grave – afferma  Schäuble – che è necessario smettere di giocare ai soliti giochi dell’Europa e di Bruxelles”. Ormai è chiaro che i tedeschi non accetteranno mai di consegnare a Bruxelles i poteri dell’unione fiscale. L’idealismo di Adenauer e Kohl è acqua passata, l’appetito vien mangiando, e l’idea di Europa che ormai hanno i tedeschi è quella di una grande Germania che annette gli altri Stati che fanno fino in fondo i compiti a casa, che lei stessa ha assegnato. “Una buona ricetta per la disintegrazione”, è il commento di Sergio Fabbrini del Sole 24 Ore.

Jürgen Habermas, l’autorevole filosofo sociale e politologo tedesco, afferma che l’unico tragitto percorribile d’integrazione europea è quello previsto dai federalisti: ovvero una cooperazione approfondita e vincolante decisa dagli Stati motivati a risolvere in modo serio e solidale tutti i problemi man mano che si presentano, a cominciare da quelli sociali ed economici. Il Welfare e la democrazia sono inscindibili dal processo di integrazione europea perché senza di essi è impossibile creare consenso presso la cittadinanza. La costruzione europea invece negli ultimi anni ha trascurato questi due pilastri portanti, e infatti il loro sbriciolarsi sta mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Habermas attribuisce gran parte di questo disastro proprio alla Germania. Molto più che alla Gran Bretagna e alla Francia. I britannici hanno sempre visto l’Europa comunitaria come area di libero scambio, sono entrati tardi e adesso ne stanno uscendo. Se hanno potuto far danno è perché gli altri glielo hanno consentito. Discorso diverso è per i francesi e i tedeschi che sono i due azionisti di maggioranza dell’Unione. È per impedire che si facessero nuovamente guerra che hanno deciso di avviare questo processo di integrazione. Le motivazioni iniziali erano chiare e potenti quanto evidente era il disastro causato dalla guerra appena conclusa. Inizialmente fu la Francia ad evidenziare un atteggiamento contraddittorio con la sua resistenza a fare rinunce in tema di sovranità, già nel 1954, quando affossò la Comunità europea di difesa. E questa riluttanza non l’ha mai del tutto abbandonata. Le resistenze della Germania risalgono invece a dopo l’unificazione con la DDR e, soprattutto, in concomitanza con la grande crisi economica del 2008. Rapidamente essa è diventata il maggiore ostacolo al processo di unificazione europea e causa di disaffezione dei cittadini europei per le istituzioni comunitarie. Habermas definisce il proprio Paese un “egemone riluttante”, nel senso che esercita la propria leadership europea con insensibilità e miopia, nel solo proprio interesse immediato piuttosto che nell’interesse comune, attuale e futuro. Questo esercizio di miopia ed egoismo scambia leadership (che dovrebbe comportare responsabilità) con proiezione e piena realizzazione delle “proprie idee di ordine”, per dirla con la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 29 giugno 2016. Il governo di coalizione presieduto da Angela Merkel dà di se stesso di fronte alla propria opinione pubblica l’immagine di difensore autentico dell’idea di Europa quando invece le sta scavando la fossa. Esso approfitta abbondantemente di questa posizione di dominio per dettare la propria linea e trarne vantaggi; al contempo rifiuta le corrispondenti responsabilità che la leadership internazionale richiede, e questo crea serie difficoltà nei Paesi più fragili. Crea risentimenti. “Come devono sentirsi uno spagnolo, un portoghese o un greco che hanno perso il posto di lavoro in seguito alla politica di risparmio decisa dal Consiglio Europeo?”, fa notare Habermas. Politica imposta proprio dalla Germania, senza al contempo che essa si assuma la co-responsabilità per le conseguenze sociali disastrose che tali politiche producono. Adesso la Germania non potrà neppure nascondersi dietro la foglia di fico delle istituzioni europee, che essa sta esautorando attraverso l’intergovernamentalismo invocato da Schäuble, per prendere in mano direttamente le redini del potere comunitario. Ormai chi comanda davvero è venuto allo scoperto, e non si potrà più raccontare ai cittadini vessati che “lo vuole l’Europa”. Lo vuole la Germania, fautrice di una disastrosa politica “che utilizza e al contempo nega il disturbato equilibrio del potere europeo”, con l’evidente scopo di godere dei vantaggi del dominio senza volersene assumere le responsabilità. L’intergovernamentalista Schäuble afferma che la concertazione diretta tra i governi produce risultati concreti, e porta l’esempio della fruizione dei contenuti digitali senza barriere all’interno dell’Unione o l’attenzione sulla politica dei rifugiati, con la proposta di fondare un diritto d’asilo europeo. Argomenti cioè che, guarda caso, interessano ai tedeschi. Il tema scottante, invece, della drammatica disoccupazione giovanile nei paesi del sud viene da lui semplicemente ignorato. Allora, voler dettare l’agenda con le priorità decise da Berlino non è politica europea, è politica tedesca e questo alla lunga non è sostenibile e già adesso non può che far nascere risentimenti.


martedì 15 novembre 2016

Donald Trump sull'Europa


Adesso che l’elezione di Donald Trump è un dato di fatto, le sue affermazioni sull’Europa acquistano un nuovo peso. Prendiamo ad esempio ciò che dichiarò in un’intervista durante la sua visita in Scozia nel mese di Giugno. All’indomani del voto sulla Brexit, egli aveva affermato che in Occidente è in corso una rivoluzione epocale provocata da emigrazione e crisi economica che negli Stati Uniti si sarebbe tradotta nel suo ingresso alla Casa Bianca; in Europa tale crisi sta causando lo sgretolamento delle istituzioni comunitarie. La Brexit è solo il primo esempio, a cui presto sarebbero seguite altre uscite, a cominciare da quelle di Italia e Francia. È un fatto positivo – affermava – che i singoli Paesi possano tornare a governarsi autonomamente e a determinare il proprio destino. “Lo sgretolamento dell’Europa invece è un dato di fatto, non una mia opinione. Dipende dagli errori commessi dalle sue leadership inadeguate”. Riguardo alla Merkel, ha definito “sciagurata” la decisione di accogliere i rifugiati. “Così ha trasformato la Germania in un Paese da cui i suoi abitanti vogliono scappare”. A una settimana dalla sua elezione ha avuto colloqui telefonici con Putin e con i leader populisti europei come Farage e Le Pen, mentre ha snobbato Junker che, insieme al presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, gli aveva inviato una lettera per invitarlo presto ad un vertice Usa-Ue. “The Donald” ha fatto capire che nella nuova Casa Bianca si parlerà poco di Unione Europea e molto di rapporti bilaterali con i singoli Stati del Vecchio Continente.

domenica 13 novembre 2016

Elezione di Trump, crisi del modello democratico?


“Mi dispiace dover essere ambasciatore di cattive notizie… Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente. Presidente Trump. Forza, pronunciate queste parole perché le ripeterete per i prossimi quattro anni: ‘PRESIDENTE TRUMP’. In vita mia non ho mai desiderato così tanto essere smentito”. Scriveva così a luglio Michael Moore, il noto regista di “Bowling a Columbine” ed altri fortunati documentari che denunciano alcune distorsioni nel sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti. “Purtroppo, state vivendo in una campana di vetro dotata di camera dell’eco, dove voi e i vostri amici siete convinti che gli Americani non eleggeranno mai un idiota come presidente”, proseguiva Moore. “Dovete uscire da quella campana, adesso. Cercate di consolarvi con la logica: le persone non voteranno per un buffone o contro i loro interessi”. E quindi spiegava i cinque motivi per cui egli era sicuro della vittoria del tycoon newyorkese. Allora gli analisti ignorarono quest’articolo di Moore ed altri lo derisero. Ma c’era poco da ridere perché la sua analisi si è dimostrata corretta, al contrario di quella dominante tra i professionisti dell’informazione, della politica, delle università, degli istituti di sondaggio, dei templi della finanza. Come si spiega questo colossale abbaglio?

Come è potuto diventare presidente degli Stati Uniti “un candidato così mediocre, violento, xenofobo e con posizioni tanto protezioniste e improntate a un liberismo sfrenato”? Se lo chiede Fausto Durante, responsabile delle politiche europee e internazionali della Cgil. A suo avviso è una domanda che “bisogna porsi un po’ tutti”, poiché è un segnale inequivocabile di un “fenomeno epocale e grave”. È un segnale della crisi del modello democratico nei paesi occidentali. La diffidenza nei confronti del sistema democratico ha toccato i massimi livelli dopo la crisi economica del 2008. Come dire che la crisi e i suoi postumi hanno smascherato i limiti della democrazia. Ciò che ha colpito molti cittadini in quel periodo è stata l’impotenza dei loro leader democraticamente eletti di fronte al caos finanziario. Se non, ancora peggio, la loro connivenza con le oligarchie finanziarie ed economiche. I cittadini cominciano a scoprire, come sostengono i teorici delle élite, che la stessa democrazia è sostanzialmente un’oligarchia. Certo, è la scoperta dell’acqua calda. Lo affermava già Platone nel Menesseno: “La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse”. È inevitabile che le società umane si dividano tra una minoranza che governa ed una maggioranza che è governata, ed è inevitabile che la suddetta minoranza si ponga come principale obiettivo quello di salvaguardare i propri privilegi. Ma l’illusione è durata finché la base elettorale si è sentita in qualche modo rappresentata dall’élite per cui ha votato. Poi però con la crisi economica sono arrivate le politiche di austerità: i governi hanno detto agli elettori che avrebbero tagliato la spesa per le scuole, gli ospedali, le pensioni. I posti di lavoro non sono più stati tutelati, i salari sono stati ridotti, molte famiglie hanno perso la casa. I programmi dei partiti progressisti si sono fatti sempre più simili a quelli dei partiti conservatori, e dal momento che la politica non riesce più a distinguersi tra Sinistra e Destra, le società occidentali finiscono per dividersi tra Alto e Basso, tra Privilegiati e Subalterni.

E allora chi ha votato Trump? Lo hanno votato le periferie, delle città come delle zone rurali. I più colpiti dalla globalizzazione, le vittime delle delocalizzazioni, i licenziati e coloro che hanno visto diminuire costantemente i loro salari reali, mentre le grandi multinazionali si accaparravano sotto forma di profitti una fetta del reddito prodotto mai così grande dal secondo dopoguerra. I 30 milioni di sfrattati che hanno perso la casa di proprietà, senza alcuna tutela, anzi con la truffa dei robo-signing messa in atto dalle stesse banche che avevano innescato la crisi con l’immissione sul mercato di titoli tossici. Quelle stesse banche che poi sono state salvate con enormi quantità di denaro pubblico. È stato un calcolo sbagliato – afferma la politologa Nadia Urbinati – confidare nel fatto che la classe lavoratrice avrebbe seguito i Democratici, comunque, anche nella condizione di grandissima sofferenza in cui si trova, così come aveva fatto con Obama. Su questo si sono illusi sia Hillary Clinton e il suo staff, che lo stesso Partito Democratico. Quella che fu la Middle Class – metteva in guardia Michael Moore – è arrabbiata e amareggiata dall’effetto a cascata delle politiche reaganiane, ma si sente ingannata e abbandonata anche dai Democratici che predicano ancora bene in campagna elettorale ma che non vedono l’ora di flirtare anch’essi con i lobbisti della Goldman Sachs pronti a staccare assegni milionari. L’elezione di Trump – afferma il leader del Labour, Jeremy Corbyn – “è uno choc comprensibile, un rigetto implacabile dell’establishment politico e del sistema economico”.  

Se i beneficiati dalla globalizzazione avessero messo il naso fuori dalla loro bolla avrebbero capito che candidare e sostenere Hillary Clinton sarebbe stato un errore; perché la Clinton rappresenta proprio ciò che gli esclusi e i puniti detestano. Essa è una donna che vive di potere, che si è arricchita con la politica e che rappresenta proprio quei poteri forti che hanno impoverito il Paese. Se il Partito Democratico non fosse ormai ridotto a un’oligarchia inaccessibile e corrotta rinchiusa dentro le istituzioni non avrebbe trescato per fermare Bernie Sanders che era invece sintonizzato sui problemi della gente e aveva intercettato il voto dei giovani. E adesso – scrive Flavia Perina – “è stupidamente consolatoria la reazione di chi, a sinistra o comunque nell’area progressista, si affida ancora una volta alle parole ‘populismo’, ‘ignoranza’, ‘manipolazione propagandistica’. Si prenda atto dell’esistenza di un conflitto sociale e politico su larga scala. Si prenda atto di uno scontro di classe in corso a livello planetario. Si accetti l’idea che la globalizzazione e il suo portato sono rifiutati da larga parte degli elettorati occidentali, e chi si schiera da quella parte perde. Si metabolizzi il pensiero che Trump non ha vinto solo nella sfida finale con Hillary Clinton, ma che ha macinato uno dopo l’altro tutti i suoi concorrenti più moderati e filo-establishment della scena repubblicana”.

Per Trump xenofobo, sessista, evasore fiscale, ultramiliardario e ultraliberista, hanno votato non solo i bianchi non scolarizzati, razzisti e maschilisti, ma anche gli operai, le donne e persino parte delle minoranze etniche che egli aveva disprezzato. Come possono questi ultimi sentirsi rappresentati da lui?  Eppure lo hanno votato, nonostante i media e gli intellettuali avessero cercato in tutti i modi di stigmatizzarli e intimidirli. Anzi, ottenendo il risultato opposto a quello sperato. È stato solo un voto di pancia, non ragionato, sedotto dalle parole dell’insolente pifferaio? Non proprio.

L’outsider Trump è riuscito a convincere il popolo dei delusi e degli arrabbiati che questa è la loro occasione! L’occasione per opporsi a tutti coloro che hanno distrutto il Sogno Americano. Il loro sogno. Ed è per questo che essi lo hanno votato, per la rabbia che essi sentono verso un sistema politico corrotto. “Per stravolgere un po’ le cose”. Non necessariamente sono d’accordo con tutto ciò che dice, non necessariamente egli piace loro, possono persino disprezzarne il fanatismo e l’ego. Tutti gli scheletri nell’armadio che la stampa schierata gli ha lanciato contro, li ha lasciati indifferenti. Perché egli – per usare le parole di Moore – è la loro “Molotov personale da lanciare ai bastardi che hanno fatto loro questo!” Se essi per l’establishment non contano nulla, almeno il loro voto conta quanto quello di tutti gli altri. Essi hanno mandato un messaggio e Trump è il loro messaggero! Il loro è un voto “contro”, espresso anche a rischio del loro futuro perché esasperati dal proprio presente.


Ma Trump non è un docile petardo di cui servirsi per scuotere il sistema. È un’incognita, un imprevedibile, non sappiamo neppure se avrà la voglia e la forza di riportare le fabbriche di automobili e smartphone negli USA per la gioia degli operai che lo hanno votato. Ha promesso che abolirà l’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Obama. La sua ammirazione per l’autoritario Putin inquieta, non avendo egli fatto mistero del suo disprezzo per le regole. È dubbio che con Trump il mondo sarà un luogo più sicuro e, soprattutto, la vera incognita per gli americani – afferma Nadia Urbinati – saranno i diritti civili. La tolleranza negli USA è garantita da emendamenti che possono sempre essere revocati. Il Ku Klux Klan ha esultato per l’elezione di Trump. L’America è la patria del linciaggio e del maccartismo che negli anni ’50 vide affermarsi un clima di persecuzione con liste di proscrizione e censura della stampa. Sorprende comunque che sia la democrazia americana la prima ad aprire le porte alla tumultuosa rivolta contro le èlite. Le oligarchie europee si sentono spiazzate, temono il contagio ed hanno tutti i motivi per inquietarsi.


giovedì 10 novembre 2016

Stato sociale e federalismo


Questa settimana la nostra analisi ha per oggetto il pensiero di William Beveridge, conosciuto come il padre del Welfare State, quel complesso di politiche volute per ridurre le disuguaglianze sociali. Pochi sanno però che Beveridge, oltre ad essere un riformatore sociale, era anche un europeista convinto. Anzi, forse in nessun altro i due aspetti erano così intrecciati tra loro. Infatti lo stato sociale era per lui il modo più efficace per controllare le pulsioni distruttive del mercato, creare consenso attorno ai regimi democratici e contrastare i nazionalismi fomentatori di guerre.



Chi studia politiche sociali non può non imbattersi in William Beveridge, universalmente riconosciuto come il padre del Welfare State. Economista e sociologo, Beveridge era un liberale, anche se egli amava poco le etichette e le ideologie. Fu molto amico dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, fondatori del socialismo fabiano. Alla fine si definì un liberale dal programma radicale. Del socialismo temeva la prassi, perché a suo dire, la sua applicazione avrebbe provocato l’ingiusta attribuzione di vantaggi ai non meritevoli. Ma al contempo credeva nel ruolo attivo dello Stato e nella necessità della solidarietà tra classi diverse come unico modo per far progredire il corpo sociale. Dal 1919 al 1937 diresse la prestigiosa London School of Economics and Political Science. Nel 1941 fu chiamato dal ministro della Ricostruzione Arthur Greenwood a dirigere una Commissione Interministeriale con il compito di effettuare una “indagine sui vigenti sistemi di assicurazione sociale e servizi sociali affini”. Ciò che chiedeva il Ministro era solo un’indagine che fotografasse la complessiva area delle retribuzioni e delle assicurazioni sociali, al fine di offrire degli elementi conoscitivi alla Commissione dei problemi di ricostruzione – da lui presieduta – come base di discussione in vista di una futura riforma. Ma Beveridge fece molto di più, egli stese un dettagliato progetto di Protezione Sociale con il dichiarato obiettivo di sconfiggere i “cinque giganti che tengono schiava l’umanità: la miseria, la malattia, l’ignoranza, la disoccupazione e il degrado abitativo”. Alla ricerca di un non facile compromesso tra i meriti dell’individualismo liberale e l’esigenza di proteggere gli individui dalle conseguenze negative dell’economia di mercato, esso proponeva una impostazione insieme universalistica e assicurativa del welfare. Ossia un sistema fondato sulla corrispondenza tra il dovere di contribuzione e il diritto alle prestazioni ma al contempo che garantisse a tutti i cittadini un livello minimo di sussistenza. Per individuare le modalità di finanziamento del progetto egli si avvalse delle indicazioni che gli suggerì l’amico Maynard Keynes, anch’egli liberale e sostenitore di politiche interventiste da parte dello Stato.

Il Rapporto Beveridge fu presentato alla stampa il primo dicembre 1942 e il giorno seguente messo in vendita nelle principali librerie del Regno Unito suscitando un grande interesse: ne verranno vendute 645.000 copie. I tempi erano favorevoli. La guerra contro l’aggressore nazista aveva compattato la società britannica e reso accettabili le politiche solidali. I conflitti sociali sembravano dimenticati. Si spiega così l’incredibile entusiasmo con cui il Rapporto Beveridge venne accolto dall’opinione pubblica e dalla stampa. Molto più fredda fu invece la sua ricezione da parte degli ambienti governativi, in particolare del Premier, il conservatore Wiston Churchill che ufficialmente, per ragioni d’immagine, sia pur senza entusiasmo appoggiò il Rapporto ma in privato definì Beveridge “un venditore di fumo e un sognatore”. Non tutti i conservatori però furono ostili: ad esempio i deputati guidati da Quintin Hogg appoggiarono il piano e accusarono Churchill di essere unconstructive and unimaginative. Teniamo presente inoltre che questo era un governo di coalizione e buona parte dei ministri laburisti, a cominciare da Clement Attlee e dallo stesso Greenwood, che aveva commissionato l’indagine, furono favorevoli. Questa minore attenzione alle riforme sociali (e in genere alla politica interna) pesò non poco sulla sconfitta di Churchill nelle elezioni del 1947. Solo allora il nuovo esecutivo laburista, presieduto da Attlee, quasi a furor di popolo diede attuazione al progetto di Beveridge, ovvero alle politiche di welfare: la costruzione di nuove case, le cure sanitarie gratuite per tutti, il diritto allo studio, la lotta alla disoccupazione e la protezione delle categorie svantaggiate. Dopo aver vinto la guerra adesso occorreva vincere la pace, scongiurando una crisi simile a quella che aveva sconvolto il mondo nel 1929; allora i conservatori avevano adottato politiche del credito restrittive con il risultato di accrescere la disoccupazione e deprimere i consumi.

Ma il Report viaggiò pure fuori dal suolo britannico. Fu distribuito alle truppe dell’esercito inglese in versione tascabile per rinsaldare l’amor patrio. Circolò pure tra le truppe degli altri eserciti europei a fini di propaganda per esaltare i valori della democrazia. Fu anche pubblicizzato dalle frequenze di Radio Londra, suscitando interesse tra le popolazioni dell’Asse. Ovviamente i regimi fascista e nazista, che ne riconobbero il potenziale rivoluzionario, lo attaccarono pesantemente. Suoi riferimenti furono persino trovati nel bunker di Berlino. Cessata la guerra esso divenne il progetto di riferimento per la riformulazione dei programmi assistenziali e previdenziali di tutti i nuovi esecutivi europei. Il che non significò che venisse adottato tale e quale con semplici adattamenti alle realtà locali. In Italia si susseguirono diverse commissioni, già a partire dal governo Badoglio, che ne valutarono la fattibilità in termini di sostenibilità economica e culturale. L’unica componente politica che vi si riconobbe senza troppi distinguo fu la corrente dossettiana, che è stata definita la sinistra “culturale” della Democrazia Cristiana, in particolare Amintore Fanfani e Giorgio La Pira. Il resto della DC, espressione dei poteri forti della finanza, delle élites e di quegli interessi di settore determinati a non perdere i loro privilegi, oppose resistenza a una radicale riforma del sistema socio-previdenziale. Ma anche le sinistre si rivelarono confuse nel prendere posizione a favore di un sistema con connotati universalistici. In linea teorica auspicavano una riforma profonda e complessiva ma al contempo trovavano inaccettabile dover riservare analogo trattamento, come diritto di cittadinanza, “ad Agnelli e ai suoi operai”. Quando nel 1948 Fanfani fu nominato Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel governo De Gasperi, sembrò che le cose potessero cambiare. Egli chiamò La Pira (ammiratore di Beveridge e di Keynes) a fargli da sottosegretario, e nominò Ludovico d’Aragona a presiedere la costituenda Commissione per la riforma della previdenza sociale. La scelta non fu casuale. D’Aragona era stato membro della Commissione Rava del 1917-1920 che aveva prodotto una proposta di riforma di tipo universalistico. L’Italia usciva prostrata dalla I Guerra mondiale e una parte dei liberali democratici e dei socialisti pensò ad una coalizione politica in funzione di pacificazione sociale, ma poi non se ne fece nulla perché prevalsero altre logiche che consegnarono il Paese a Mussolini. D’Aragona, socialdemocratico ma in sintonia con la visione dossettiana, propose alla sua Commissione una impostazione dei lavori ispirata agli schemi della Commissione Beveridge sperando di poter orientare la legislazione italiana verso un sistema di protezione sociale con contenuti universalistici. Ma questa impostazione fu rigettata dalla Commissione. Quando nel 1951 Giuseppe Dossetti diede le dimissioni dal Consiglio Nazionale della DC, le motivò con il fatto che essa nella sua azione di partito e di governo era venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati assunti da De Gasperi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata. Il Welfare italiano era basato su una cultura familistica, paternalistica e patriarcale. La nostra tradizione previdenziale, di chiara derivazione bismarckiana, era incentrata sulle “assicurazioni sociali obbligatorie”. Gli interventi pubblici a fini sociali, concessi dall’alto, hanno sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere particolaristico e discriminante. Questa impostazione di fondo non è mai stata cambiata. Innesti universalistici sono avvenuti nel tempo solo per aspetti specifici e circoscritti: la riforma della scuola dell’obbligo (1962), l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (1978) e l’introduzione della pensione sociale (1969) che, per il suo ammontare, da sola, non garantisce all’anziano una sopravvivenza decorosa ma è pur sempre un provvedimento di rottura in una cultura rigidamente previdenziale. Con il risorgere delle politiche liberiste, a partire dagli anni Ottanta, l’attuale sistema di protezione sociale, cominciò ad essere posto in discussione. Soprattutto nei suoi, sia pur limitati, aspetti universalistici. Non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Le successive “riforme” sociali in risposta alla crisi economica vanno nel verso di un arretramento dell’azione dello Stato e dell’avanzamento del mercato. La validità di questo percorso a ritroso non può neppure essere discussa, eppure i risultati di tale processo appaiono controversi soprattutto sul piano della loro compatibilità con quei diritti di cittadinanza sociale posti alla base di una grande parte degli ordinamenti costituzionali europei.

Gli scritti di Beveridge, anche quelli anteriori al suo Report, erano ben noti a due personaggi che abbiamo già incontrato: Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi. Il fatto in sé non sorprende: le politiche sociali sono strettamente connesse a quelle economiche ed Einaudi era un grande economista. L’economia era anche la materia di Rossi: fu lui a redigere la sezione economica del Manifesto di Ventotene. Ma vi è un filo rosso che lega queste persone e che rende ancora più significativa la ragione per cui Einaudi e Rossi leggessero Beveridge. Questi infatti oltre ad essere un riformatore sociale fu anche un europeista convinto: mentre criticava le ingiustizie sociali criticava i nazionalismi. Ed ecco spiegata l’importanza che egli ebbe per i federalisti italiani. Beveridge, mentre infuriava una guerra dagli esiti incerti, con la sua proposta di Welfare State indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dalle dittature e suggeriva la confortante prospettiva di affrancamento dalle miserie prodotte dalla vita di relazione in un sistema di democrazia vera e attiva. Beveridge combatteva una duplice battaglia a favore del welfare e dell’Europa. Considerava i due aspetti non disgiungibili. L’Europa si edifica nelle solidarietà e si disfa negli egoismi ad ogni livello. Ed è ciò che stiamo osservando accadere puntualmente, prima nella buona e adesso nella cattiva sorte. In “eurovisione” potremmo dire in una battuta. Beveridge era un utopista con i piedi piantati per terra, nel senso che la sua utopia non era un astratto fantasticare ma concreta determinazione a cambiare la realtà, perché l’alternativa sarebbe la rovina del nostro Continente. Scriveva nel 1940, quando la Wermacht avanzava inarrestabile: “Il nostro piano osa essere utopico e ha bisogno di esserlo, perché la scelta non è più fra l’utopia e il mondo gradevole e ordinato che i nostri padri hanno conosciuto. La scelta è fra l’utopia e l’inferno.”

Nei trent’anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, gli europei avevano assaporato l’inferno. Gli Stati-nazione avevano dato il peggio di sé sfogando senza freni i loro nazionalismi, complice la crisi economica degli anni Trenta che aveva distrutto la classe media e gettato milioni di disoccupati e diseredati tra le braccia delle dittature e nella tragedia delle guerre. Le istituzioni europee nacquero come patto di guerra. Ai popoli che avevano fatto esperienza delle bombe e dei campi di battaglia, ma anche di una crisi economica e sociale gravissima, si proponeva un patto continentale basato sulla collaborazione e sulla solidarietà. L’Europa era partita con il giusto passo e con il giusto spirito. Si parlò allora di nuova età dell’oro del capitalismo, quella dell’espansione e della piena occupazione. Ma non si trattava del classico capitalismo che riconosceva la sola legge del mercato. Fu in realtà la vittoria di un capitalismo dimezzato e sorvegliato. Fu la storia felice di una convivenza tra il liberalismo e il socialismo, due ideologie antitetiche e complementari, che non si sono mai amate, costrette a coabitare per motivi d’interesse. Durante quegli anni fu possibile qualcosa oggi inimmaginabile: l’abbassamento globale delle differenze sociali quasi ad ogni livello. Ma fu una formula fortunata determinata pur sempre da una costrizione. Dal patto di solidarietà postbellica. Poi il benessere diffuso ha riattizzato l’egoismo sociale, e la caduta del Comunismo ha rincuorato gl’imprenditori e li ha riconcentrati sulla loro specifica missione che è quella di perseguire il massimo profitto. Nel frattempo le istituzioni europee andavano perdendo l’iniziale slancio ideale. L’utopia federalista lasciava il posto alla politica funzionalista dei piccoli passi su progetti delimitati, prevalentemente mercantili. Le resistenze falsamente pragmatiche hanno riattizzato gli appetiti nazionali e immiserito il pensiero del futuro.

Oggi che servirebbe riaffermare il “patto di guerra” delle origini, fondato sui due pilastri dell’antinazionalismo e della solidarietà tra le classi, invece si va in direzione opposta assecondando l’illusione sovranista degli Stati nazionali e la sottomissione ai mercati mondializzati. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Europa è sempre meno una comunità e sempre più un’accozzaglia di discordie, disinteressata a far valere persino i principi solenni che si diede quando fu fondata. Neppure la democrazia è ormai un valore imprescindibile. Oggi il primo ministro ungherese Viktor Orbán può affermare impunemente: “Io non penso che la nostra adesione all’Unione europea ci precluda la possibilità di costruire un nuovo Stato illiberale fondato sul lavoro e la nazione”. Sulla falsariga di Stati come la Russia, la Cina e la Turchia che “non sono liberal-democrazie e forse neanche democrazie, ma conoscono un successo certo”. E vista la scarsa reazione che suscitano le sue parole e i suoi provvedimenti, forse ha anche ragione a pensarla così. Altri governi come quello polacco, rassicurati dallo stordimento comunitario, cominciano a muoversi nella medesima direzione. Proprio la Polonia addirittura sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento europeo e la Commissione europea che si sono permesse di criticare timidamente le sue scelte illiberali se non autoritarie. Ed Erdogan, il presidente della Turchia, mentre sta sprofondando il suo Paese nella dittatura non osa sfidare l’Unione Europea pretendendo di ottenere ulteriori privilegi?

Ecco così acquisire impellente attualità il pensiero di William Beveridge: l’Europa può sussistere solo in forma realmente federata e in presenza di politiche di Welfare State. Tant’è vero che il loro odierno disfarsi sotto un vento neoliberista sta mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Noam Chomsky, linguista di fama internazionale, è anche un pensatore politico piuttosto radicale. Egli si definisce “socialista libertario” e simpatizzante dell’anarco-sindacalismo. Lo citiamo perché ha fatto del neoliberismo, inteso come dottrina economica basata sulla radicalizzazione della centralità del mercato, l’oggetto della sua critica più implacabile. Egli afferma che esso è causa di vari disastri sociali, come il crescente divario tra ricchi e poveri e la perdita di controllo sul potere statale da parte dei cittadini. Egli denuncia gli attuali sistemi di potere come ingiusti e profondamente immorali, e accusa le lobby economiche di strumentalizzare la quasi totalità dei mezzi d’informazione. L’obiettivo sarebbe quello di controllare e manipolare l’opinione pubblica per “fabbricare il consenso”. L’anestesia delle classi subalterne consente a queste di accettare passivamente politiche di austerità nel bel mezzo di una crisi recessiva, com’è avvenuto in questi anni in Europa, con risultati disastrosi per la gente comune soprattutto nei paesi periferici dell’euro. Chomsky afferma che è in atto una vera lotta di classe all’incontrario con l’obiettivo di minare la democrazia ed eliminare le conquiste della socialdemocrazia. Man mano che viene demolito il Welfare State, esso viene sostituito con uno “stato sociale” progettato per beneficiare le classi più abbienti. È al contempo in atto uno svuotamento delle istituzioni democratiche perché i ricchi amano le mani libere e temono l’alleanza del popolo con i demagoghi. Era pure così nelle democrazie antiche. Lo comprese anche Aristotele quando affermò che la distruzione della classe media uccide la democrazia e apre la porta alle tirannie. E questo però dovrebbe preoccupare le lobby che detengono il vero potere, perché le finte democrazie finiscono per esasperare il popolo immiserito che si lascerà sedurre dal demagogo di turno, e questi cerca solo il proprio tornaconto e fa solo alleanze di comodo. Impoverire il popolo alla lunga non paga le oligarchie. Afferma Chomsky: “Quando il centro collassa, rimangono solo gli estremi. Sono abbastanza vecchio da ricordare i discorsi di Hitler alla radio. Mi ricordo l’eccitazione, la paura … paura. Questo è accaduto in Germania negli anni ’30. Un decennio prima, nel 20, la Germania era al culmine della civiltà occidentale in termini scientifici e culturali. Dieci anni dopo era nel più profondo abisso della storia del genere umano. È quello che succede quando il centro scompare”. Tocqueville giudicava i ceti medi “nemici naturali” delle rivoluzioni, che solitamente scoppiano per diseguaglianze sociali, affermando che “con la loro immobilità tengono fermo tutto ciò che si trova al di sopra e al di sotto di essi, mantenendo la società nel suo assetto”. Quando alle porte del potere si assiepa un popolo di derelitti senza rappresentanza né vera sovranità, lo sbocco autoritario diventa ineludibile, il Parlamento europeo si riempirà di euroscettici alla Farage, e nei referendum vinceranno le exit, almeno finché il modello d’Europa proposto continuerà ad essere questo. Più avanti nel libro torneremo su Beveridge quando contestualizzeremo la storia del Welfare nella quarta fase del capitalismo, torneremo a parlare di classe media nell’ambito della teoria ciclica delle forme di governo, e parleremo del patto tra liberalismo e democrazia che diede vita alle liberal-democrazie, che si sta sfaldando sotto i nostri occhi. Prospettiva inquietante non solo per la pacifica convivenza nell’ambito nazionale ma anche per la fiducia nella dimensione sovranazionale.


giovedì 3 novembre 2016

Il sogno federalista di Altiero Spinelli


Il tema che svilupperemo questa settimana verterà sul sogno federalista di Altiero Spinelli. Scopriremo – come egli stesso raccontò – che a ispirarlo non furono i nostri pensatori risorgimentali quali Cattaneo o Mazzini il cui europeismo egli trovò “fumoso, contorto, assai poco coerente”, bensì il “pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti inglesi” d’anteguerra. Sembra un paradosso, oggi, che i sudditi di Sua Maestà Britannica ripiegano su un provincialismo nostalgico dei tempi che furono.


Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati politici nell’isola di Ventotene, lessero un libro sull’Europa pubblicato oltre vent’anni prima da Luigi Einaudi. Era l’inverno 1940-1941 e il Continente sprofondava nella guerra. Rossi, che era stato allievo di Einaudi, chiese al celebre economista d’inviargli altro materiale sull’argomento e poco dopo si vide recapitare alcuni volumetti della letteratura federalista inglese. Dalla riflessione su questi documenti nacque sei mesi più tardi il celebre Manifesto di Ventotene, una sorta di Magna Charta dell’unità europea. Come più tardi avrebbe raccontato lo stesso Spinelli, il “pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi” fu per lui “una rivelazione”.

La rapacità e l’anarchismo degli Stati-nazione era sotto gli occhi di tutti. Affermava Eugenio Colorni nella prefazione al Manifesto di Ventotene: “Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”. Di conseguenza l’istituzione di un’Europa sovranazionale auspicata da Rossi e Spinelli prevedeva il superamento degli Stati nazionali. Questa è la ragione per cui essi si sentivano poco attratti dai pensatori risorgimentali come Cattaneo o Mazzini anch’essi europeisti, “pensatori politici originali e potenti”, tuttavia non coerentemente antinazionalisti.

In un suo libro, scritto sul finire degli anni Sessanta, Altiero Spinelli osservava: “Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non è stata attratta dal fumoso, contorto e assai poco coerente federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano che allignava in Francia o in Italia, ma dal pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti inglesi del decennio precedente la guerra, i quali proponevano di trapiantare in Europa la grande esperienza politica americana”. Solo un’organizzazione di tipo federale, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe permesso di garantire la pace in Europa perché sottraeva gli Stati alla sfera pre-giuridica dello stato di natura, alle loro innate tentazioni prevaricatrici, e li inseriva in un ordinamento giuridico supernazionale; li sottometteva a un’autorità e a una Costituzione, e avrebbe protetto i cittadini – a questo punto anche giuridicamente europei – dai ricorrenti disastri dei nazionalismi totalitari e dei pensieri unici. Ricorrenti e inevitabili. Perché – per usare le parole di Lucio Levi, che ha curato una postfazione del Manifesto – “lo Stato nazionale giunto alla fase più acuta della sua crisi, non è più in grado di mantenere il regime democratico e genera tirannidi di tipo nuovo il cui carattere totalitario era già latente nella sua struttura chiusa e accentrata”.

Così Spinelli constatò che nel “pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi”, l’unità del vecchio Continente “non si presentava come un’ideologia” bensì “come la sobria proposta di creare un potere democratico europeo”. Questa riorganizzazione istituzionale avrebbe definitivamente posto fine ad ogni forma di autarchia economica, fomentatrice di guerre dalle grandi unificazioni ottocentesche e, in particolare, avrebbe assicurato “la pacifica convivenza della Germania con gli altri Stati nazionali”, il problema di fondo che “tormentava l’Europa dal 1870”.

Spinelli non considerava utopistico il trapianto in Europa dell’esperienza americana. Al contrario di quel che si pensi, la costituzione degli Stati Uniti è stata tutt’altro che un prodotto spontaneo e naturale degli eventi storici americani. È stata invece un processo che ha incontrato forti resistenze. Le differenze tra uno Stato e l’altro erano notevoli e considerate insormontabili. Inoltre gli Stati americani erano decisi a non rinunziare alla loro personalità politica e costituzionale. Basta ascoltare i commenti dei testimoni contemporanei a quell’evento. Lois Guillaume Otto, incaricato di Francia in America, scriveva al suo governo: “Gli Stati si lasceranno spogliare di parte della loro sovranità?... La loro politica ispira loro reciprocamente avversione e gelosia”. Dello stesso tenore le parole dell’economista inglese Josiah Tucker: “Quanto alla futura grandezza dell’America e all’idea che essa possa mai diventare un possente impero sotto una testa, sia essa monarchica o repubblicana, questa è una delle utopie più folli e più visionarie che siano state mai immaginate da scrittori di romanzi. Le antipatie reciproche e gli interessi opposti degli americani, le loro differenze di governi, di abitudini e di costumi provano che non avranno alcun centro di unione o di interesse comune. Mai potranno essere uniti in un impero compatto sotto qualsiasi forma di governo: gente disunita fino alla fine dei tempi, piena di sospetti e diffidenze degli uni verso gli altri, saranno divisi e suddivisi in piccole comunità o principati, secondo le loro frontiere naturali, i grandi golfi ed i vasti fiumi, i laghi e le catene di montagne”. Ciononostante all’Unione ci si arrivò, sia pure per gradi. L’iniziale Confederazione non era un potere superiore agli Stati, e il Congresso si limitava a fare delle raccomandazioni agli Stati i quali conservavano il potere di decidere e di eseguire. Essi accettarono di cedere sovranità negoziando scrupolosamente le competenze da conservare e quelle da trasferire all’autorità federale, le forme di separazione dei poteri, l’organo di risoluzione delle controversie e il controllo ad ogni livello dei governati sui governanti. Il modello americano è portato ad esempio dai federalisti europei per la capacità dei suoi fondatori di tenere sempre presente, nel processo di costruzione del loro Stato, i due ordini di problemi compresenti: la costruzione di una forza e la determinazione dei suoi limiti.

Certamente i federalisti non ignorano che gli Stati americani – nonostante fossero gelosi della loro sovranità e le differenze che li distinguevano – erano comunque molto più giovani, più omogenei e meno differenziati rispetto a quelli europei dalle culture molto più sedimentate e caratterizzate. E inoltre l’Europa non ha alle spalle tradizioni sovranazionali forti. L’era degli imperi era tramortita già nel Seicento e l’architettura sovranista di Westfalia fu voluta proprio per porre una pietra tombale su ogni forma di potere sovranazionale. Ora è naturale che il percorso inverso dagli Stati-nazione allo Stato sovranazionale incontri resistenza. Ma è un percorso inevitabile. “Lo Stato nazionale è il fondamentale nemico della libertà e della democrazia”, ha instancabilmente ripetuto Spinelli lungo il corso di tutta la sua vita. Egli sperava che la rinascita democratica degli Stati europei dopo la guerra favorisse il tramonto degli Stati-nazione e il contemporaneo avvento dello Stato federale europeo. Ma così non avvenne. Sperò ancora che la Comunità politica europea potesse nascere per reazione e timore del comunismo staliniano. Ma anche questa speranza rimase delusa quando il parlamento francese nel 1954 bocciò la CED (Comunità europea di difesa), affossando di fatto la costruzione dell’Europa politica. Tentò con scarsi risultati di mobilitare l’europeismo diffuso in un’azione popolare (il Congresso del popolo europeo) contro la legittimità degli Stati nazionali. Criticò la costituzione della Comunità economica europea, che definì “una beffa”. Egli infatti considerava il Mercato comune del ’57 un misero ripiego, figlio del fallimento del ’54, perché vedeva come approdo di una comunità solo economica il libero mercato e non l’Europa politica. E criticò al contempo la svolta gradualista che accompagnò la nascita del Mercato comune (il cosiddetto metodo funzionalista) che trascura il disegno finale accontentandosi di coordinamenti in aree circoscritte. I funzionalisti infatti procedono per gradi con la convinzione che l’obiettivo dell’unione politica scaturisca per necessità da piccoli progressi successivi. Spinelli era invece convinto che l’Europa non può essere costruita solo gradualmente perché alcuni nodi si rivelerebbero indissolubili se non affrontati da una prospettiva complessiva. Come dargli torto osservando oggi l’impasse in cui s’è impantanato il progetto gradualista delle unioni bancaria, fiscale, economica e politica?

Tuttavia Spinelli, pur mantenendo intatta l’irremovibile tensione verso il traguardo di un’Europa federale, si adattò alle circostanze con molta flessibilità e più volte si posizionò su nuovi punti di partenza. Egli tenne conto dei cambiamenti storici in atto e non si limitò a declamare rigidamente le parole d’ordine del Manifesto di Ventotene. Convinto che l’Europa non si può costruire di nascosto, senza un grande dibattito, senza il coinvolgimento dei cittadini e la ricerca del loro consenso, egli si rivolse direttamente al Parlamento europeo affinché assumesse un ruolo costituente nel processo d’integrazione. Grazie al suo attivismo infaticabile il suo progetto di Trattato sull’Unione europea fu votato a larga maggioranza e rappresentò l’inizio del processo di costituzionalizzazione.

Che poi il sogno di questo entusiasta federalista si concretizzerà nei termini da lui sperati, è un altro discorso. Non tutti i cosiddetti europeisti posseggono la sua onestà intellettuale. Pensiamo alla sconcertante affermazione di Jean-Claude Juncker quando presiedeva il gruppo dei ministri delle finanze: “Prendiamo una decisione in una stanza, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede. Se non provoca proteste o rivolte, è perché la maggior parte delle persone non ha idea di ciò che è stato deciso; allora noi andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”. Ciò è un esempio di come si costruisce un’Europa di nascosto. Quale Europa, poi? Come stupirsi quando i referendum vanno a ramengo?

Che una qualche forma di unione si verificherà sarà inevitabile se non si vorrà soccombere. Ma sarà l’Europa dei cittadini? E gli Stati-nazione davvero spariranno, come auspicano i federalisti? Ma visto che il riferimento di questa riflessione è stato il federalismo inglese, proprio da loro ci giunge un monito che ci ricorda quanto l’Europa delle consorterie si sia allontanata da quella dei cittadini. I federalisti inglesi, distanti anni luce dall’Inghilterra della Thatcher, avevano ben chiaro che il superamento delle vecchie sovranità statali potrà avvenire soltanto se a sostituirle sarà una Comunità che sappia preservare la democrazia e la giustizia sociale. Sarà questo l’argomento del prossimo tema che svilupperemo.



mercoledì 2 novembre 2016

I nemici intimi della democrazia

Tzvetan Todorov

Il Novecento è stato segnato dalla lotta della democrazia contro i regimi totalitari: nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, è stato sconfitto il nazifascismo; con la caduta del muro di Berlino nel 1989 si è sgretolato il comunismo. Oggi, per molti osservatori, la sfida alla democrazia arriverebbe dai fondamentalismi religiosi e dal terrorismo, oltre che dalle brutali dittature che li proteggono. Per l'antropologo francese d'origine bulgara Tzvetan Todorov questa visione è sbagliata, fuorviante e pericolosa. Oggi la democrazia non ha più nemici esterni in grado di metterla in pericolo. I rischi per la democrazia ora arrivano invece dal suo interno: un individualismo spinto all'eccesso, un neoliberismo avido e senza più regole, la deriva populista. È proprio per questo che oggi la democrazia, per sopravvivere, ha bisogno di rinnovarsi: alla ricerca di un nuovo equilibrio tra i valori su cui è fondata. "Vivere in una democrazia - afferma Todorov - rimane sempre preferibile alla vita sottomessa in uno stato totalitario, a una dittatura militare o a un regime feudale oscurantista. Ma, divorata così dai propri nemici intimi, creati da lei stessa, la democrazia non è più all’altezza delle promesse fatte”. L’ultimo “nemico” che mette in crisi il tessuto democratico è il populismo. Complessivamente siamo nella demagogia, “un modo di agire che consiste, qui, nel mettere a fuoco le preoccupazioni della gente comune e proporre per alleviarle soluzioni facilmente comprensibili, ma irrealizzabili”. “Il populista si rivolge alla folla con cui entra in contatto” privilegiando il contatto diretto, immediato, sfruttando l’emotività, recita la parte del tribuno, pretende di occuparsi dei problemi quotidiani. Riguardo al pubblico: si rivolge in genere “non alla classe dei più poveri, ma a quella che teme di raggiungerli”. Il popolo è la base del potere, ma le società mediatiche di oggi facilitano la manipolazione dei cittadini favorendo il troppo potere di alcuni individui che costituisce sempre un pericolo.

martedì 1 novembre 2016

Paura della libertà


“L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi. [...] Se invece si sottomette a un’autorità, allora può sperare che l’autorità gli dica quello che è giusto fare, e ciò vale tanto più se c’è un’unica autorità – come è spesso il caso – che decide per tutta la società cosa è utile e cosa invece è nocivo” (Erich Fromm).