Questa settimana la nostra analisi ha per oggetto il pensiero di William
Beveridge, conosciuto come il padre del Welfare State, quel complesso
di politiche volute per ridurre le disuguaglianze sociali. Pochi sanno
però che Beveridge, oltre ad essere un riformatore sociale, era anche un
europeista convinto. Anzi, forse in nessun altro i due aspetti erano
così intrecciati tra loro. Infatti lo stato sociale era per lui il modo
più efficace per controllare le pulsioni distruttive del mercato, creare
consenso attorno ai regimi democratici e contrastare i nazionalismi
fomentatori di guerre.
Chi
studia politiche sociali non può non imbattersi in William Beveridge,
universalmente riconosciuto come il padre del Welfare State. Economista e
sociologo, Beveridge era un liberale, anche se egli amava poco le
etichette e le ideologie. Fu molto amico dei coniugi Sidney e Beatrice
Webb, fondatori del socialismo fabiano. Alla fine si definì un liberale
dal programma radicale. Del socialismo temeva la prassi, perché a suo
dire, la sua applicazione avrebbe provocato l’ingiusta attribuzione di
vantaggi ai non meritevoli. Ma al contempo credeva nel ruolo attivo
dello Stato e nella necessità della solidarietà tra classi diverse come
unico modo per far progredire il corpo sociale. Dal 1919 al 1937 diresse
la prestigiosa London School of Economics and Political Science. Nel
1941 fu chiamato dal ministro della Ricostruzione Arthur Greenwood a
dirigere una Commissione Interministeriale con il compito di effettuare
una “indagine sui vigenti sistemi di assicurazione sociale e servizi
sociali affini”. Ciò che chiedeva il Ministro era solo un’indagine che
fotografasse la complessiva area delle retribuzioni e delle
assicurazioni sociali, al fine di offrire degli elementi conoscitivi
alla Commissione dei problemi di ricostruzione – da lui presieduta –
come base di discussione in vista di una futura riforma. Ma Beveridge
fece molto di più, egli stese un dettagliato progetto di Protezione
Sociale con il dichiarato obiettivo di sconfiggere i “cinque giganti che
tengono schiava l’umanità: la miseria, la malattia, l’ignoranza, la
disoccupazione e il degrado abitativo”. Alla ricerca di un non facile
compromesso tra i meriti dell’individualismo liberale e l’esigenza di
proteggere gli individui dalle conseguenze negative dell’economia di
mercato, esso proponeva una impostazione insieme universalistica e
assicurativa del welfare. Ossia un sistema fondato sulla corrispondenza
tra il dovere di contribuzione e il diritto alle prestazioni ma al
contempo che garantisse a tutti i cittadini un livello minimo di
sussistenza. Per individuare le modalità di finanziamento del progetto
egli si avvalse delle indicazioni che gli suggerì l’amico Maynard
Keynes, anch’egli liberale e sostenitore di politiche interventiste da
parte dello Stato.
Il Rapporto Beveridge fu presentato alla
stampa il primo dicembre 1942 e il giorno seguente messo in vendita
nelle principali librerie del Regno Unito suscitando un grande
interesse: ne verranno vendute 645.000 copie. I tempi erano favorevoli.
La guerra contro l’aggressore nazista aveva compattato la società
britannica e reso accettabili le politiche solidali. I conflitti sociali
sembravano dimenticati. Si spiega così l’incredibile entusiasmo con cui
il Rapporto Beveridge venne accolto dall’opinione pubblica e dalla
stampa. Molto più fredda fu invece la sua ricezione da parte degli
ambienti governativi, in particolare del Premier, il conservatore Wiston
Churchill che ufficialmente, per ragioni d’immagine, sia pur senza
entusiasmo appoggiò il Rapporto ma in privato definì Beveridge “un
venditore di fumo e un sognatore”. Non tutti i conservatori però furono
ostili: ad esempio i deputati guidati da Quintin Hogg appoggiarono il
piano e accusarono Churchill di essere
unconstructive and unimaginative.
Teniamo presente inoltre che questo era un governo di coalizione e
buona parte dei ministri laburisti, a cominciare da Clement Attlee e
dallo stesso Greenwood, che aveva commissionato l’indagine, furono
favorevoli. Questa minore attenzione alle riforme sociali (e in genere
alla politica interna) pesò non poco sulla sconfitta di Churchill nelle
elezioni del 1947. Solo allora il nuovo esecutivo laburista, presieduto
da Attlee, quasi a furor di popolo diede attuazione al progetto di
Beveridge, ovvero alle politiche di welfare: la costruzione di nuove
case, le cure sanitarie gratuite per tutti, il diritto allo studio, la
lotta alla disoccupazione e la protezione delle categorie svantaggiate.
Dopo aver vinto la guerra adesso occorreva vincere la pace, scongiurando
una crisi simile a quella che aveva sconvolto il mondo nel 1929; allora
i conservatori avevano adottato politiche del credito restrittive con
il risultato di accrescere la disoccupazione e deprimere i consumi.
Ma il Report viaggiò pure fuori dal suolo britannico. Fu distribuito
alle truppe dell’esercito inglese in versione tascabile per rinsaldare
l’amor patrio. Circolò pure tra le truppe degli altri eserciti europei a
fini di propaganda per esaltare i valori della democrazia. Fu anche
pubblicizzato dalle frequenze di Radio Londra, suscitando interesse tra
le popolazioni dell’Asse. Ovviamente i regimi fascista e nazista, che ne
riconobbero il potenziale rivoluzionario, lo attaccarono pesantemente.
Suoi riferimenti furono persino trovati nel bunker di Berlino. Cessata
la guerra esso divenne il progetto di riferimento per la riformulazione
dei programmi assistenziali e previdenziali di tutti i nuovi esecutivi
europei. Il che non significò che venisse adottato tale e quale con
semplici adattamenti alle realtà locali. In Italia si susseguirono
diverse commissioni, già a partire dal governo Badoglio, che ne
valutarono la fattibilità in termini di sostenibilità economica e
culturale. L’unica componente politica che vi si riconobbe senza troppi
distinguo fu la corrente dossettiana, che è stata definita la sinistra
“culturale” della Democrazia Cristiana, in particolare Amintore Fanfani e
Giorgio La Pira. Il resto della DC, espressione dei poteri forti della
finanza, delle élites e di quegli interessi di settore determinati a non
perdere i loro privilegi, oppose resistenza a una radicale riforma del
sistema socio-previdenziale. Ma anche le sinistre si rivelarono confuse
nel prendere posizione a favore di un sistema con connotati
universalistici. In linea teorica auspicavano una riforma profonda e
complessiva ma al contempo trovavano inaccettabile dover riservare
analogo trattamento, come diritto di cittadinanza, “ad Agnelli e ai suoi
operai”. Quando nel 1948 Fanfani fu nominato Ministro del Lavoro e
della Previdenza sociale nel governo De Gasperi, sembrò che le cose
potessero cambiare. Egli chiamò La Pira (ammiratore di Beveridge e di
Keynes) a fargli da sottosegretario, e nominò Ludovico d’Aragona a
presiedere la costituenda Commissione per la riforma della previdenza
sociale. La scelta non fu casuale. D’Aragona era stato membro della
Commissione Rava del 1917-1920 che aveva prodotto una proposta di
riforma di tipo universalistico. L’Italia usciva prostrata dalla I
Guerra mondiale e una parte dei liberali democratici e dei socialisti
pensò ad una coalizione politica in funzione di pacificazione sociale,
ma poi non se ne fece nulla perché prevalsero altre logiche che
consegnarono il Paese a Mussolini. D’Aragona, socialdemocratico ma in
sintonia con la visione dossettiana, propose alla sua Commissione una
impostazione dei lavori ispirata agli schemi della Commissione Beveridge
sperando di poter orientare la legislazione italiana verso un sistema
di protezione sociale con contenuti universalistici. Ma questa
impostazione fu rigettata dalla Commissione. Quando nel 1951 Giuseppe
Dossetti diede le dimissioni dal Consiglio Nazionale della DC, le motivò
con il fatto che essa nella sua azione di partito e di governo era
venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati
assunti da De Gasperi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata. Il
Welfare italiano era basato su una cultura familistica, paternalistica e
patriarcale. La nostra tradizione previdenziale, di chiara derivazione
bismarckiana, era incentrata sulle “assicurazioni sociali obbligatorie”.
Gli interventi pubblici a fini sociali, concessi dall’alto, hanno
sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un
gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere
particolaristico e discriminante. Questa impostazione di fondo non è mai
stata cambiata. Innesti
universalistici sono avvenuti nel tempo solo
per aspetti specifici e circoscritti: la riforma della scuola
dell’obbligo (1962), l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale
(1978) e l’introduzione della pensione sociale (1969) che, per il suo
ammontare, da sola, non garantisce all’anziano una sopravvivenza
decorosa ma è pur sempre un provvedimento di rottura in una cultura
rigidamente previdenziale. Con il risorgere delle politiche liberiste, a
partire dagli anni Ottanta, l’attuale sistema di protezione sociale,
cominciò ad essere posto in discussione. Soprattutto nei suoi, sia pur
limitati, aspetti universalistici. Non solo in Italia, ma anche nel
resto d’Europa. Le successive “riforme” sociali in risposta alla crisi
economica vanno nel verso di un arretramento dell’azione dello Stato e
dell’avanzamento del mercato. La validità di questo percorso a ritroso
non può neppure essere discussa, eppure i risultati di tale processo
appaiono controversi soprattutto sul piano della loro compatibilità con
quei diritti di cittadinanza sociale posti alla base di una grande parte
degli ordinamenti costituzionali europei.
Gli scritti di
Beveridge, anche quelli anteriori al suo Report, erano ben noti a due
personaggi che abbiamo già incontrato: Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi.
Il fatto in sé non sorprende: le politiche sociali sono strettamente
connesse a quelle economiche ed Einaudi era un grande economista.
L’economia era anche la materia di Rossi: fu lui a redigere la sezione
economica del
Manifesto di Ventotene. Ma vi è un filo rosso che lega
queste persone e che rende ancora più significativa la ragione per cui
Einaudi e Rossi leggessero Beveridge. Questi infatti oltre ad essere un
riformatore sociale fu anche un europeista convinto: mentre criticava le
ingiustizie sociali criticava i nazionalismi. Ed ecco spiegata
l’importanza che egli ebbe per i federalisti italiani. Beveridge, mentre
infuriava una guerra dagli esiti incerti, con la sua proposta di
Welfare State indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i
popoli liberati dalle dittature e suggeriva la confortante prospettiva
di affrancamento dalle miserie prodotte dalla vita di relazione in un
sistema di democrazia vera e attiva. Beveridge combatteva una duplice
battaglia a favore del welfare e dell’Europa. Considerava i due aspetti
non disgiungibili. L’Europa si edifica nelle solidarietà e si disfa
negli egoismi ad ogni livello. Ed è ciò che stiamo osservando accadere
puntualmente, prima nella buona e adesso nella cattiva sorte. In
“eurovisione” potremmo dire in una battuta. Beveridge era un utopista
con i piedi piantati per terra, nel senso che la sua utopia non era un
astratto fantasticare ma concreta determinazione a cambiare la realtà,
perché l’alternativa sarebbe la rovina del nostro Continente. Scriveva
nel 1940, quando la Wermacht avanzava inarrestabile: “Il nostro piano
osa essere utopico e ha bisogno di esserlo, perché la scelta non è più
fra l’utopia e il mondo gradevole e ordinato che i nostri padri hanno
conosciuto. La scelta è fra l’utopia e l’inferno.”
Nei
trent’anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, gli europei
avevano assaporato l’inferno. Gli Stati-nazione avevano dato il peggio
di sé sfogando senza freni i loro nazionalismi, complice la crisi
economica degli anni Trenta che aveva distrutto la classe media e
gettato milioni di disoccupati e diseredati tra le braccia delle
dittature e nella tragedia delle guerre. Le istituzioni europee nacquero
come patto di guerra. Ai popoli che avevano fatto esperienza delle
bombe e dei campi di battaglia, ma anche di una crisi economica e
sociale gravissima, si proponeva un patto continentale basato sulla
collaborazione e sulla solidarietà. L’Europa era partita con il giusto
passo e con il giusto spirito. Si parlò allora di nuova età dell’oro del
capitalismo, quella dell’espansione e della piena occupazione. Ma non
si trattava del classico capitalismo che riconosceva la sola legge del
mercato. Fu in realtà la vittoria di un capitalismo dimezzato e
sorvegliato. Fu la storia felice di una convivenza tra il liberalismo e
il socialismo, due ideologie antitetiche e complementari, che non si
sono mai amate, costrette a coabitare per motivi d’interesse. Durante
quegli anni fu possibile qualcosa oggi inimmaginabile: l’abbassamento
globale delle differenze sociali quasi ad ogni livello. Ma fu una
formula fortunata determinata pur sempre da una costrizione. Dal patto
di solidarietà postbellica. Poi il benessere diffuso ha riattizzato
l’egoismo sociale, e la caduta del Comunismo ha rincuorato
gl’imprenditori e li ha riconcentrati sulla loro specifica missione che è
quella di perseguire il massimo profitto. Nel frattempo le istituzioni
europee andavano perdendo l’iniziale slancio ideale. L’utopia
federalista lasciava il posto alla politica funzionalista dei piccoli
passi su progetti delimitati, prevalentemente mercantili. Le resistenze
falsamente pragmatiche hanno riattizzato gli appetiti nazionali e
immiserito il pensiero del futuro.
Oggi che servirebbe
riaffermare il “patto di guerra” delle origini, fondato sui due pilastri
dell’antinazionalismo e della solidarietà tra le classi, invece si va
in direzione opposta assecondando l’illusione sovranista degli Stati
nazionali e la sottomissione ai mercati mondializzati. Il risultato è
sotto gli occhi di tutti: l’Europa è sempre meno una comunità e sempre
più un’accozzaglia di discordie, disinteressata a far valere persino i
principi solenni che si diede quando fu fondata. Neppure la democrazia è
ormai un valore imprescindibile. Oggi il primo ministro ungherese
Viktor Orbán può affermare impunemente: “Io non penso che la nostra
adesione all’Unione europea ci precluda la possibilità di costruire un
nuovo Stato illiberale fondato sul lavoro e la nazione”. Sulla falsariga
di Stati come la Russia, la Cina e la Turchia che “non sono
liberal-democrazie e forse neanche democrazie, ma conoscono un successo
certo”. E vista la scarsa reazione che suscitano le sue parole e i suoi
provvedimenti, forse ha anche ragione a pensarla così. Altri governi
come quello polacco, rassicurati dallo stordimento comunitario,
cominciano a muoversi nella medesima direzione. Proprio la Polonia
addirittura sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento
europeo e la Commissione europea che si sono permesse di criticare
timidamente le sue scelte illiberali se non autoritarie. Ed Erdogan, il
presidente della Turchia, mentre sta sprofondando il suo Paese nella
dittatura non osa sfidare l’Unione Europea pretendendo di ottenere
ulteriori privilegi?
Ecco così acquisire impellente attualità il
pensiero di William Beveridge: l’Europa può sussistere solo in forma
realmente federata e in presenza di politiche di Welfare State. Tant’è
vero che il loro odierno disfarsi sotto un vento neoliberista sta
mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Noam Chomsky,
linguista di fama internazionale, è anche un pensatore politico
piuttosto radicale. Egli si definisce “socialista libertario” e
simpatizzante dell’anarco-sindacalismo. Lo citiamo perché ha fatto del
neoliberismo, inteso come dottrina economica basata sulla
radicalizzazione della centralità del mercato, l’oggetto della sua
critica più implacabile. Egli afferma che esso è causa di vari disastri
sociali, come il crescente divario tra ricchi e poveri e la perdita di
controllo sul potere statale da parte dei cittadini. Egli denuncia gli
attuali sistemi di potere come ingiusti e profondamente immorali, e
accusa le lobby economiche di strumentalizzare la quasi totalità dei
mezzi d’informazione. L’obiettivo sarebbe quello di controllare e
manipolare l’opinione pubblica per “fabbricare il consenso”. L’anestesia
delle classi subalterne consente a queste di accettare passivamente
politiche di austerità nel bel mezzo di una crisi recessiva, com’è
avvenuto in questi anni in Europa, con risultati disastrosi per la gente
comune soprattutto nei paesi periferici dell’euro. Chomsky afferma che è
in atto una vera lotta di classe all’incontrario con l’obiettivo di
minare la democrazia ed eliminare le conquiste della socialdemocrazia.
Man mano che viene demolito il Welfare State, esso viene sostituito con
uno “stato sociale” progettato per beneficiare le classi più abbienti. È
al contempo in atto uno svuotamento delle istituzioni democratiche
perché i ricchi amano le mani libere e temono l’alleanza del popolo con i
demagoghi. Era pure così nelle democrazie antiche. Lo comprese anche
Aristotele quando affermò che la distruzione della classe media uccide
la democrazia e apre la porta alle tirannie. E questo però dovrebbe
preoccupare le lobby che detengono il vero potere, perché le finte
democrazie finiscono per esasperare il popolo immiserito che si lascerà
sedurre dal demagogo di turno, e questi cerca solo il proprio tornaconto
e fa solo alleanze di comodo. Impoverire il popolo alla lunga non paga
le oligarchie. Afferma Chomsky: “Quando il centro collassa, rimangono
solo gli estremi. Sono abbastanza vecchio da ricordare i discorsi di
Hitler alla radio. Mi ricordo l’eccitazione, la paura … paura. Questo è
accaduto in Germania negli anni ’30. Un decennio prima, nel 20, la
Germania era al culmine della civiltà occidentale in termini scientifici
e culturali. Dieci anni dopo era nel più profondo abisso della storia
del genere umano. È quello che succede quando il centro scompare”.
Tocqueville giudicava i ceti medi “nemici naturali” delle rivoluzioni,
che solitamente scoppiano per diseguaglianze sociali, affermando che
“con la loro immobilità tengono fermo tutto ciò che si trova al di sopra
e al di sotto di essi, mantenendo la società nel suo assetto”. Quando
alle porte del potere si assiepa un popolo di derelitti senza
rappresentanza né vera sovranità, lo sbocco autoritario diventa
ineludibile, il Parlamento europeo si riempirà di euroscettici alla
Farage, e nei referendum vinceranno le exit, almeno finché il modello
d’Europa proposto continuerà ad essere questo. Più avanti nel libro
torneremo su Beveridge quando contestualizzeremo la storia del Welfare
nella quarta fase del capitalismo, torneremo a parlare di classe media
nell’ambito della teoria ciclica delle forme di governo, e parleremo del
patto tra liberalismo e democrazia che diede vita alle
liberal-democrazie, che si sta sfaldando sotto i nostri occhi.
Prospettiva inquietante non solo per la pacifica convivenza nell’ambito
nazionale ma anche per la fiducia nella dimensione sovranazionale.
