giovedì 10 novembre 2016

Stato sociale e federalismo


Questa settimana la nostra analisi ha per oggetto il pensiero di William Beveridge, conosciuto come il padre del Welfare State, quel complesso di politiche volute per ridurre le disuguaglianze sociali. Pochi sanno però che Beveridge, oltre ad essere un riformatore sociale, era anche un europeista convinto. Anzi, forse in nessun altro i due aspetti erano così intrecciati tra loro. Infatti lo stato sociale era per lui il modo più efficace per controllare le pulsioni distruttive del mercato, creare consenso attorno ai regimi democratici e contrastare i nazionalismi fomentatori di guerre.



Chi studia politiche sociali non può non imbattersi in William Beveridge, universalmente riconosciuto come il padre del Welfare State. Economista e sociologo, Beveridge era un liberale, anche se egli amava poco le etichette e le ideologie. Fu molto amico dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, fondatori del socialismo fabiano. Alla fine si definì un liberale dal programma radicale. Del socialismo temeva la prassi, perché a suo dire, la sua applicazione avrebbe provocato l’ingiusta attribuzione di vantaggi ai non meritevoli. Ma al contempo credeva nel ruolo attivo dello Stato e nella necessità della solidarietà tra classi diverse come unico modo per far progredire il corpo sociale. Dal 1919 al 1937 diresse la prestigiosa London School of Economics and Political Science. Nel 1941 fu chiamato dal ministro della Ricostruzione Arthur Greenwood a dirigere una Commissione Interministeriale con il compito di effettuare una “indagine sui vigenti sistemi di assicurazione sociale e servizi sociali affini”. Ciò che chiedeva il Ministro era solo un’indagine che fotografasse la complessiva area delle retribuzioni e delle assicurazioni sociali, al fine di offrire degli elementi conoscitivi alla Commissione dei problemi di ricostruzione – da lui presieduta – come base di discussione in vista di una futura riforma. Ma Beveridge fece molto di più, egli stese un dettagliato progetto di Protezione Sociale con il dichiarato obiettivo di sconfiggere i “cinque giganti che tengono schiava l’umanità: la miseria, la malattia, l’ignoranza, la disoccupazione e il degrado abitativo”. Alla ricerca di un non facile compromesso tra i meriti dell’individualismo liberale e l’esigenza di proteggere gli individui dalle conseguenze negative dell’economia di mercato, esso proponeva una impostazione insieme universalistica e assicurativa del welfare. Ossia un sistema fondato sulla corrispondenza tra il dovere di contribuzione e il diritto alle prestazioni ma al contempo che garantisse a tutti i cittadini un livello minimo di sussistenza. Per individuare le modalità di finanziamento del progetto egli si avvalse delle indicazioni che gli suggerì l’amico Maynard Keynes, anch’egli liberale e sostenitore di politiche interventiste da parte dello Stato.

Il Rapporto Beveridge fu presentato alla stampa il primo dicembre 1942 e il giorno seguente messo in vendita nelle principali librerie del Regno Unito suscitando un grande interesse: ne verranno vendute 645.000 copie. I tempi erano favorevoli. La guerra contro l’aggressore nazista aveva compattato la società britannica e reso accettabili le politiche solidali. I conflitti sociali sembravano dimenticati. Si spiega così l’incredibile entusiasmo con cui il Rapporto Beveridge venne accolto dall’opinione pubblica e dalla stampa. Molto più fredda fu invece la sua ricezione da parte degli ambienti governativi, in particolare del Premier, il conservatore Wiston Churchill che ufficialmente, per ragioni d’immagine, sia pur senza entusiasmo appoggiò il Rapporto ma in privato definì Beveridge “un venditore di fumo e un sognatore”. Non tutti i conservatori però furono ostili: ad esempio i deputati guidati da Quintin Hogg appoggiarono il piano e accusarono Churchill di essere unconstructive and unimaginative. Teniamo presente inoltre che questo era un governo di coalizione e buona parte dei ministri laburisti, a cominciare da Clement Attlee e dallo stesso Greenwood, che aveva commissionato l’indagine, furono favorevoli. Questa minore attenzione alle riforme sociali (e in genere alla politica interna) pesò non poco sulla sconfitta di Churchill nelle elezioni del 1947. Solo allora il nuovo esecutivo laburista, presieduto da Attlee, quasi a furor di popolo diede attuazione al progetto di Beveridge, ovvero alle politiche di welfare: la costruzione di nuove case, le cure sanitarie gratuite per tutti, il diritto allo studio, la lotta alla disoccupazione e la protezione delle categorie svantaggiate. Dopo aver vinto la guerra adesso occorreva vincere la pace, scongiurando una crisi simile a quella che aveva sconvolto il mondo nel 1929; allora i conservatori avevano adottato politiche del credito restrittive con il risultato di accrescere la disoccupazione e deprimere i consumi.

Ma il Report viaggiò pure fuori dal suolo britannico. Fu distribuito alle truppe dell’esercito inglese in versione tascabile per rinsaldare l’amor patrio. Circolò pure tra le truppe degli altri eserciti europei a fini di propaganda per esaltare i valori della democrazia. Fu anche pubblicizzato dalle frequenze di Radio Londra, suscitando interesse tra le popolazioni dell’Asse. Ovviamente i regimi fascista e nazista, che ne riconobbero il potenziale rivoluzionario, lo attaccarono pesantemente. Suoi riferimenti furono persino trovati nel bunker di Berlino. Cessata la guerra esso divenne il progetto di riferimento per la riformulazione dei programmi assistenziali e previdenziali di tutti i nuovi esecutivi europei. Il che non significò che venisse adottato tale e quale con semplici adattamenti alle realtà locali. In Italia si susseguirono diverse commissioni, già a partire dal governo Badoglio, che ne valutarono la fattibilità in termini di sostenibilità economica e culturale. L’unica componente politica che vi si riconobbe senza troppi distinguo fu la corrente dossettiana, che è stata definita la sinistra “culturale” della Democrazia Cristiana, in particolare Amintore Fanfani e Giorgio La Pira. Il resto della DC, espressione dei poteri forti della finanza, delle élites e di quegli interessi di settore determinati a non perdere i loro privilegi, oppose resistenza a una radicale riforma del sistema socio-previdenziale. Ma anche le sinistre si rivelarono confuse nel prendere posizione a favore di un sistema con connotati universalistici. In linea teorica auspicavano una riforma profonda e complessiva ma al contempo trovavano inaccettabile dover riservare analogo trattamento, come diritto di cittadinanza, “ad Agnelli e ai suoi operai”. Quando nel 1948 Fanfani fu nominato Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel governo De Gasperi, sembrò che le cose potessero cambiare. Egli chiamò La Pira (ammiratore di Beveridge e di Keynes) a fargli da sottosegretario, e nominò Ludovico d’Aragona a presiedere la costituenda Commissione per la riforma della previdenza sociale. La scelta non fu casuale. D’Aragona era stato membro della Commissione Rava del 1917-1920 che aveva prodotto una proposta di riforma di tipo universalistico. L’Italia usciva prostrata dalla I Guerra mondiale e una parte dei liberali democratici e dei socialisti pensò ad una coalizione politica in funzione di pacificazione sociale, ma poi non se ne fece nulla perché prevalsero altre logiche che consegnarono il Paese a Mussolini. D’Aragona, socialdemocratico ma in sintonia con la visione dossettiana, propose alla sua Commissione una impostazione dei lavori ispirata agli schemi della Commissione Beveridge sperando di poter orientare la legislazione italiana verso un sistema di protezione sociale con contenuti universalistici. Ma questa impostazione fu rigettata dalla Commissione. Quando nel 1951 Giuseppe Dossetti diede le dimissioni dal Consiglio Nazionale della DC, le motivò con il fatto che essa nella sua azione di partito e di governo era venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati assunti da De Gasperi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata. Il Welfare italiano era basato su una cultura familistica, paternalistica e patriarcale. La nostra tradizione previdenziale, di chiara derivazione bismarckiana, era incentrata sulle “assicurazioni sociali obbligatorie”. Gli interventi pubblici a fini sociali, concessi dall’alto, hanno sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere particolaristico e discriminante. Questa impostazione di fondo non è mai stata cambiata. Innesti universalistici sono avvenuti nel tempo solo per aspetti specifici e circoscritti: la riforma della scuola dell’obbligo (1962), l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (1978) e l’introduzione della pensione sociale (1969) che, per il suo ammontare, da sola, non garantisce all’anziano una sopravvivenza decorosa ma è pur sempre un provvedimento di rottura in una cultura rigidamente previdenziale. Con il risorgere delle politiche liberiste, a partire dagli anni Ottanta, l’attuale sistema di protezione sociale, cominciò ad essere posto in discussione. Soprattutto nei suoi, sia pur limitati, aspetti universalistici. Non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Le successive “riforme” sociali in risposta alla crisi economica vanno nel verso di un arretramento dell’azione dello Stato e dell’avanzamento del mercato. La validità di questo percorso a ritroso non può neppure essere discussa, eppure i risultati di tale processo appaiono controversi soprattutto sul piano della loro compatibilità con quei diritti di cittadinanza sociale posti alla base di una grande parte degli ordinamenti costituzionali europei.

Gli scritti di Beveridge, anche quelli anteriori al suo Report, erano ben noti a due personaggi che abbiamo già incontrato: Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi. Il fatto in sé non sorprende: le politiche sociali sono strettamente connesse a quelle economiche ed Einaudi era un grande economista. L’economia era anche la materia di Rossi: fu lui a redigere la sezione economica del Manifesto di Ventotene. Ma vi è un filo rosso che lega queste persone e che rende ancora più significativa la ragione per cui Einaudi e Rossi leggessero Beveridge. Questi infatti oltre ad essere un riformatore sociale fu anche un europeista convinto: mentre criticava le ingiustizie sociali criticava i nazionalismi. Ed ecco spiegata l’importanza che egli ebbe per i federalisti italiani. Beveridge, mentre infuriava una guerra dagli esiti incerti, con la sua proposta di Welfare State indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dalle dittature e suggeriva la confortante prospettiva di affrancamento dalle miserie prodotte dalla vita di relazione in un sistema di democrazia vera e attiva. Beveridge combatteva una duplice battaglia a favore del welfare e dell’Europa. Considerava i due aspetti non disgiungibili. L’Europa si edifica nelle solidarietà e si disfa negli egoismi ad ogni livello. Ed è ciò che stiamo osservando accadere puntualmente, prima nella buona e adesso nella cattiva sorte. In “eurovisione” potremmo dire in una battuta. Beveridge era un utopista con i piedi piantati per terra, nel senso che la sua utopia non era un astratto fantasticare ma concreta determinazione a cambiare la realtà, perché l’alternativa sarebbe la rovina del nostro Continente. Scriveva nel 1940, quando la Wermacht avanzava inarrestabile: “Il nostro piano osa essere utopico e ha bisogno di esserlo, perché la scelta non è più fra l’utopia e il mondo gradevole e ordinato che i nostri padri hanno conosciuto. La scelta è fra l’utopia e l’inferno.”

Nei trent’anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, gli europei avevano assaporato l’inferno. Gli Stati-nazione avevano dato il peggio di sé sfogando senza freni i loro nazionalismi, complice la crisi economica degli anni Trenta che aveva distrutto la classe media e gettato milioni di disoccupati e diseredati tra le braccia delle dittature e nella tragedia delle guerre. Le istituzioni europee nacquero come patto di guerra. Ai popoli che avevano fatto esperienza delle bombe e dei campi di battaglia, ma anche di una crisi economica e sociale gravissima, si proponeva un patto continentale basato sulla collaborazione e sulla solidarietà. L’Europa era partita con il giusto passo e con il giusto spirito. Si parlò allora di nuova età dell’oro del capitalismo, quella dell’espansione e della piena occupazione. Ma non si trattava del classico capitalismo che riconosceva la sola legge del mercato. Fu in realtà la vittoria di un capitalismo dimezzato e sorvegliato. Fu la storia felice di una convivenza tra il liberalismo e il socialismo, due ideologie antitetiche e complementari, che non si sono mai amate, costrette a coabitare per motivi d’interesse. Durante quegli anni fu possibile qualcosa oggi inimmaginabile: l’abbassamento globale delle differenze sociali quasi ad ogni livello. Ma fu una formula fortunata determinata pur sempre da una costrizione. Dal patto di solidarietà postbellica. Poi il benessere diffuso ha riattizzato l’egoismo sociale, e la caduta del Comunismo ha rincuorato gl’imprenditori e li ha riconcentrati sulla loro specifica missione che è quella di perseguire il massimo profitto. Nel frattempo le istituzioni europee andavano perdendo l’iniziale slancio ideale. L’utopia federalista lasciava il posto alla politica funzionalista dei piccoli passi su progetti delimitati, prevalentemente mercantili. Le resistenze falsamente pragmatiche hanno riattizzato gli appetiti nazionali e immiserito il pensiero del futuro.

Oggi che servirebbe riaffermare il “patto di guerra” delle origini, fondato sui due pilastri dell’antinazionalismo e della solidarietà tra le classi, invece si va in direzione opposta assecondando l’illusione sovranista degli Stati nazionali e la sottomissione ai mercati mondializzati. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Europa è sempre meno una comunità e sempre più un’accozzaglia di discordie, disinteressata a far valere persino i principi solenni che si diede quando fu fondata. Neppure la democrazia è ormai un valore imprescindibile. Oggi il primo ministro ungherese Viktor Orbán può affermare impunemente: “Io non penso che la nostra adesione all’Unione europea ci precluda la possibilità di costruire un nuovo Stato illiberale fondato sul lavoro e la nazione”. Sulla falsariga di Stati come la Russia, la Cina e la Turchia che “non sono liberal-democrazie e forse neanche democrazie, ma conoscono un successo certo”. E vista la scarsa reazione che suscitano le sue parole e i suoi provvedimenti, forse ha anche ragione a pensarla così. Altri governi come quello polacco, rassicurati dallo stordimento comunitario, cominciano a muoversi nella medesima direzione. Proprio la Polonia addirittura sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento europeo e la Commissione europea che si sono permesse di criticare timidamente le sue scelte illiberali se non autoritarie. Ed Erdogan, il presidente della Turchia, mentre sta sprofondando il suo Paese nella dittatura non osa sfidare l’Unione Europea pretendendo di ottenere ulteriori privilegi?

Ecco così acquisire impellente attualità il pensiero di William Beveridge: l’Europa può sussistere solo in forma realmente federata e in presenza di politiche di Welfare State. Tant’è vero che il loro odierno disfarsi sotto un vento neoliberista sta mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Noam Chomsky, linguista di fama internazionale, è anche un pensatore politico piuttosto radicale. Egli si definisce “socialista libertario” e simpatizzante dell’anarco-sindacalismo. Lo citiamo perché ha fatto del neoliberismo, inteso come dottrina economica basata sulla radicalizzazione della centralità del mercato, l’oggetto della sua critica più implacabile. Egli afferma che esso è causa di vari disastri sociali, come il crescente divario tra ricchi e poveri e la perdita di controllo sul potere statale da parte dei cittadini. Egli denuncia gli attuali sistemi di potere come ingiusti e profondamente immorali, e accusa le lobby economiche di strumentalizzare la quasi totalità dei mezzi d’informazione. L’obiettivo sarebbe quello di controllare e manipolare l’opinione pubblica per “fabbricare il consenso”. L’anestesia delle classi subalterne consente a queste di accettare passivamente politiche di austerità nel bel mezzo di una crisi recessiva, com’è avvenuto in questi anni in Europa, con risultati disastrosi per la gente comune soprattutto nei paesi periferici dell’euro. Chomsky afferma che è in atto una vera lotta di classe all’incontrario con l’obiettivo di minare la democrazia ed eliminare le conquiste della socialdemocrazia. Man mano che viene demolito il Welfare State, esso viene sostituito con uno “stato sociale” progettato per beneficiare le classi più abbienti. È al contempo in atto uno svuotamento delle istituzioni democratiche perché i ricchi amano le mani libere e temono l’alleanza del popolo con i demagoghi. Era pure così nelle democrazie antiche. Lo comprese anche Aristotele quando affermò che la distruzione della classe media uccide la democrazia e apre la porta alle tirannie. E questo però dovrebbe preoccupare le lobby che detengono il vero potere, perché le finte democrazie finiscono per esasperare il popolo immiserito che si lascerà sedurre dal demagogo di turno, e questi cerca solo il proprio tornaconto e fa solo alleanze di comodo. Impoverire il popolo alla lunga non paga le oligarchie. Afferma Chomsky: “Quando il centro collassa, rimangono solo gli estremi. Sono abbastanza vecchio da ricordare i discorsi di Hitler alla radio. Mi ricordo l’eccitazione, la paura … paura. Questo è accaduto in Germania negli anni ’30. Un decennio prima, nel 20, la Germania era al culmine della civiltà occidentale in termini scientifici e culturali. Dieci anni dopo era nel più profondo abisso della storia del genere umano. È quello che succede quando il centro scompare”. Tocqueville giudicava i ceti medi “nemici naturali” delle rivoluzioni, che solitamente scoppiano per diseguaglianze sociali, affermando che “con la loro immobilità tengono fermo tutto ciò che si trova al di sopra e al di sotto di essi, mantenendo la società nel suo assetto”. Quando alle porte del potere si assiepa un popolo di derelitti senza rappresentanza né vera sovranità, lo sbocco autoritario diventa ineludibile, il Parlamento europeo si riempirà di euroscettici alla Farage, e nei referendum vinceranno le exit, almeno finché il modello d’Europa proposto continuerà ad essere questo. Più avanti nel libro torneremo su Beveridge quando contestualizzeremo la storia del Welfare nella quarta fase del capitalismo, torneremo a parlare di classe media nell’ambito della teoria ciclica delle forme di governo, e parleremo del patto tra liberalismo e democrazia che diede vita alle liberal-democrazie, che si sta sfaldando sotto i nostri occhi. Prospettiva inquietante non solo per la pacifica convivenza nell’ambito nazionale ma anche per la fiducia nella dimensione sovranazionale.


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