giovedì 3 novembre 2016

Il sogno federalista di Altiero Spinelli


Il tema che svilupperemo questa settimana verterà sul sogno federalista di Altiero Spinelli. Scopriremo – come egli stesso raccontò – che a ispirarlo non furono i nostri pensatori risorgimentali quali Cattaneo o Mazzini il cui europeismo egli trovò “fumoso, contorto, assai poco coerente”, bensì il “pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti inglesi” d’anteguerra. Sembra un paradosso, oggi, che i sudditi di Sua Maestà Britannica ripiegano su un provincialismo nostalgico dei tempi che furono.


Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati politici nell’isola di Ventotene, lessero un libro sull’Europa pubblicato oltre vent’anni prima da Luigi Einaudi. Era l’inverno 1940-1941 e il Continente sprofondava nella guerra. Rossi, che era stato allievo di Einaudi, chiese al celebre economista d’inviargli altro materiale sull’argomento e poco dopo si vide recapitare alcuni volumetti della letteratura federalista inglese. Dalla riflessione su questi documenti nacque sei mesi più tardi il celebre Manifesto di Ventotene, una sorta di Magna Charta dell’unità europea. Come più tardi avrebbe raccontato lo stesso Spinelli, il “pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi” fu per lui “una rivelazione”.

La rapacità e l’anarchismo degli Stati-nazione era sotto gli occhi di tutti. Affermava Eugenio Colorni nella prefazione al Manifesto di Ventotene: “Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”. Di conseguenza l’istituzione di un’Europa sovranazionale auspicata da Rossi e Spinelli prevedeva il superamento degli Stati nazionali. Questa è la ragione per cui essi si sentivano poco attratti dai pensatori risorgimentali come Cattaneo o Mazzini anch’essi europeisti, “pensatori politici originali e potenti”, tuttavia non coerentemente antinazionalisti.

In un suo libro, scritto sul finire degli anni Sessanta, Altiero Spinelli osservava: “Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non è stata attratta dal fumoso, contorto e assai poco coerente federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano che allignava in Francia o in Italia, ma dal pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti inglesi del decennio precedente la guerra, i quali proponevano di trapiantare in Europa la grande esperienza politica americana”. Solo un’organizzazione di tipo federale, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe permesso di garantire la pace in Europa perché sottraeva gli Stati alla sfera pre-giuridica dello stato di natura, alle loro innate tentazioni prevaricatrici, e li inseriva in un ordinamento giuridico supernazionale; li sottometteva a un’autorità e a una Costituzione, e avrebbe protetto i cittadini – a questo punto anche giuridicamente europei – dai ricorrenti disastri dei nazionalismi totalitari e dei pensieri unici. Ricorrenti e inevitabili. Perché – per usare le parole di Lucio Levi, che ha curato una postfazione del Manifesto – “lo Stato nazionale giunto alla fase più acuta della sua crisi, non è più in grado di mantenere il regime democratico e genera tirannidi di tipo nuovo il cui carattere totalitario era già latente nella sua struttura chiusa e accentrata”.

Così Spinelli constatò che nel “pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi”, l’unità del vecchio Continente “non si presentava come un’ideologia” bensì “come la sobria proposta di creare un potere democratico europeo”. Questa riorganizzazione istituzionale avrebbe definitivamente posto fine ad ogni forma di autarchia economica, fomentatrice di guerre dalle grandi unificazioni ottocentesche e, in particolare, avrebbe assicurato “la pacifica convivenza della Germania con gli altri Stati nazionali”, il problema di fondo che “tormentava l’Europa dal 1870”.

Spinelli non considerava utopistico il trapianto in Europa dell’esperienza americana. Al contrario di quel che si pensi, la costituzione degli Stati Uniti è stata tutt’altro che un prodotto spontaneo e naturale degli eventi storici americani. È stata invece un processo che ha incontrato forti resistenze. Le differenze tra uno Stato e l’altro erano notevoli e considerate insormontabili. Inoltre gli Stati americani erano decisi a non rinunziare alla loro personalità politica e costituzionale. Basta ascoltare i commenti dei testimoni contemporanei a quell’evento. Lois Guillaume Otto, incaricato di Francia in America, scriveva al suo governo: “Gli Stati si lasceranno spogliare di parte della loro sovranità?... La loro politica ispira loro reciprocamente avversione e gelosia”. Dello stesso tenore le parole dell’economista inglese Josiah Tucker: “Quanto alla futura grandezza dell’America e all’idea che essa possa mai diventare un possente impero sotto una testa, sia essa monarchica o repubblicana, questa è una delle utopie più folli e più visionarie che siano state mai immaginate da scrittori di romanzi. Le antipatie reciproche e gli interessi opposti degli americani, le loro differenze di governi, di abitudini e di costumi provano che non avranno alcun centro di unione o di interesse comune. Mai potranno essere uniti in un impero compatto sotto qualsiasi forma di governo: gente disunita fino alla fine dei tempi, piena di sospetti e diffidenze degli uni verso gli altri, saranno divisi e suddivisi in piccole comunità o principati, secondo le loro frontiere naturali, i grandi golfi ed i vasti fiumi, i laghi e le catene di montagne”. Ciononostante all’Unione ci si arrivò, sia pure per gradi. L’iniziale Confederazione non era un potere superiore agli Stati, e il Congresso si limitava a fare delle raccomandazioni agli Stati i quali conservavano il potere di decidere e di eseguire. Essi accettarono di cedere sovranità negoziando scrupolosamente le competenze da conservare e quelle da trasferire all’autorità federale, le forme di separazione dei poteri, l’organo di risoluzione delle controversie e il controllo ad ogni livello dei governati sui governanti. Il modello americano è portato ad esempio dai federalisti europei per la capacità dei suoi fondatori di tenere sempre presente, nel processo di costruzione del loro Stato, i due ordini di problemi compresenti: la costruzione di una forza e la determinazione dei suoi limiti.

Certamente i federalisti non ignorano che gli Stati americani – nonostante fossero gelosi della loro sovranità e le differenze che li distinguevano – erano comunque molto più giovani, più omogenei e meno differenziati rispetto a quelli europei dalle culture molto più sedimentate e caratterizzate. E inoltre l’Europa non ha alle spalle tradizioni sovranazionali forti. L’era degli imperi era tramortita già nel Seicento e l’architettura sovranista di Westfalia fu voluta proprio per porre una pietra tombale su ogni forma di potere sovranazionale. Ora è naturale che il percorso inverso dagli Stati-nazione allo Stato sovranazionale incontri resistenza. Ma è un percorso inevitabile. “Lo Stato nazionale è il fondamentale nemico della libertà e della democrazia”, ha instancabilmente ripetuto Spinelli lungo il corso di tutta la sua vita. Egli sperava che la rinascita democratica degli Stati europei dopo la guerra favorisse il tramonto degli Stati-nazione e il contemporaneo avvento dello Stato federale europeo. Ma così non avvenne. Sperò ancora che la Comunità politica europea potesse nascere per reazione e timore del comunismo staliniano. Ma anche questa speranza rimase delusa quando il parlamento francese nel 1954 bocciò la CED (Comunità europea di difesa), affossando di fatto la costruzione dell’Europa politica. Tentò con scarsi risultati di mobilitare l’europeismo diffuso in un’azione popolare (il Congresso del popolo europeo) contro la legittimità degli Stati nazionali. Criticò la costituzione della Comunità economica europea, che definì “una beffa”. Egli infatti considerava il Mercato comune del ’57 un misero ripiego, figlio del fallimento del ’54, perché vedeva come approdo di una comunità solo economica il libero mercato e non l’Europa politica. E criticò al contempo la svolta gradualista che accompagnò la nascita del Mercato comune (il cosiddetto metodo funzionalista) che trascura il disegno finale accontentandosi di coordinamenti in aree circoscritte. I funzionalisti infatti procedono per gradi con la convinzione che l’obiettivo dell’unione politica scaturisca per necessità da piccoli progressi successivi. Spinelli era invece convinto che l’Europa non può essere costruita solo gradualmente perché alcuni nodi si rivelerebbero indissolubili se non affrontati da una prospettiva complessiva. Come dargli torto osservando oggi l’impasse in cui s’è impantanato il progetto gradualista delle unioni bancaria, fiscale, economica e politica?

Tuttavia Spinelli, pur mantenendo intatta l’irremovibile tensione verso il traguardo di un’Europa federale, si adattò alle circostanze con molta flessibilità e più volte si posizionò su nuovi punti di partenza. Egli tenne conto dei cambiamenti storici in atto e non si limitò a declamare rigidamente le parole d’ordine del Manifesto di Ventotene. Convinto che l’Europa non si può costruire di nascosto, senza un grande dibattito, senza il coinvolgimento dei cittadini e la ricerca del loro consenso, egli si rivolse direttamente al Parlamento europeo affinché assumesse un ruolo costituente nel processo d’integrazione. Grazie al suo attivismo infaticabile il suo progetto di Trattato sull’Unione europea fu votato a larga maggioranza e rappresentò l’inizio del processo di costituzionalizzazione.

Che poi il sogno di questo entusiasta federalista si concretizzerà nei termini da lui sperati, è un altro discorso. Non tutti i cosiddetti europeisti posseggono la sua onestà intellettuale. Pensiamo alla sconcertante affermazione di Jean-Claude Juncker quando presiedeva il gruppo dei ministri delle finanze: “Prendiamo una decisione in una stanza, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede. Se non provoca proteste o rivolte, è perché la maggior parte delle persone non ha idea di ciò che è stato deciso; allora noi andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”. Ciò è un esempio di come si costruisce un’Europa di nascosto. Quale Europa, poi? Come stupirsi quando i referendum vanno a ramengo?

Che una qualche forma di unione si verificherà sarà inevitabile se non si vorrà soccombere. Ma sarà l’Europa dei cittadini? E gli Stati-nazione davvero spariranno, come auspicano i federalisti? Ma visto che il riferimento di questa riflessione è stato il federalismo inglese, proprio da loro ci giunge un monito che ci ricorda quanto l’Europa delle consorterie si sia allontanata da quella dei cittadini. I federalisti inglesi, distanti anni luce dall’Inghilterra della Thatcher, avevano ben chiaro che il superamento delle vecchie sovranità statali potrà avvenire soltanto se a sostituirle sarà una Comunità che sappia preservare la democrazia e la giustizia sociale. Sarà questo l’argomento del prossimo tema che svilupperemo.



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