lunedì 31 ottobre 2016

Le stagioni della libertà


“Assistiamo a un revisionismo reazionario che apre la strada alla democrazia autoritaria, da noi e nel resto del mondo. Uno di quei cicli storici che dimostrano che anche la libertà ha le sue stagioni. [...] C'è stata una mutazione capitalistica, una rivoluzione tecnologica di effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati. È questa la ragione di fondo per cui la Resistenza e l’antifascismo democratico appaiono sempre più sgraditi, sempre più fastidiosi al nuovo potere. Padroni arroganti e impazienti non accettano più una legge uguale per tutti, la legge se la fabbricano ad personam con i loro parlamenti di yes-men” (Giorgio Bocca).

“La democrazia ha molti nemici in attesa tra le quinte, politici e movimenti per il momento costretti a giocare secondo le sue regole ma il cui intento reale è tutt’altro: populista, di manipolazione mediatica, intollerante e autoritario. Conquisteranno molto spazio, se non riformeremo rapidamente le nostre democrazie. E non c’è ambito in cui questa riforma sia più necessaria che in seno alla stessa Unione Europea” (Paul Ginsborg).

“Noi, il Popolo siamo i padroni legittimi sia del Congresso che dei tribunali, non per rovesciare la Costituzione, ma per rovesciare gli uomini che pervertono la Costituzione” (Abraham Lincoln).

“Democrazia è regime di popolo nelle mani di un popolo politicamente educato; nelle mani di un popolo impolitico e ineducato è cricca di circoli e rigurgito di tavolini da caffè” (W. Rathenau).

“Noi non abbiamo esempi, nei nostri annali, di una repubblica realmente democratica che abbia resistito più di qualche anno senza decomporsi e scomparire nella sconfitta o nella tirannia; giacché le nostre folle hanno, in politica, il naso del cane, che ama solo i cattivi odori. Esse non scelgono che i meno buoni, e il loro fiuto in questo è quasi infallibile” (Maurice Maeterlinck).

“Totalitarismo e democrazia sono due parole senza qualità. Avrebbero bisogno di molti aggettivi per l'appunto qualificativi. Un dispotismo può essere illuminato e una democrazia putrefatta e non è semplice districarsi tra queste antinomie” (Luigi Pintor).

“Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia” (Umberto Eco).

“La democrazia è sempre un esperimento non finito, che testa la capacità di ogni generazione di vivere nobilmente in libertà” (George Weigel).

“Molti amanti della democrazia col tempo scoprono che la democrazia non è fatta per loro” (Zarko Petan).

“La tendenza delle democrazie è, in ogni cosa, alla mediocrità” (James Fenimore Cooper).

“Nelle democrazie, i governanti raramente sono peggiori dei governati” (Roberto Gervaso).

“La democrazia bisogna guadagnarsela; la dittatura la si merita” (Roberto Gervaso).

“Il limite della democrazia: troppi coglioni alle urne” (Michele Serra).

“La democrazia è una cosa molto fragile. Devi prenderti cura della democrazia. Non appena si smette di essere responsabili verso di essa e si permettere che si trasformi in tattiche intimidatorie, non è più democrazia. Diventa qualcosa di diverso che si trova alla distanza di un centimetro dal totalitarismo” (Sam Shepard).

“Il mio ideale politico è l'ideale democratico. Ciascuno deve essere rispettato nella sua personalità e nessuno deve essere idolatrato. Per me l'elemento prezioso nell'ingranaggio dell'umanità non è lo Stato, ma è l'individuo creatore e sensibile, è insomma la personalità; è questa sola che crea il nobile e sublime, mentre la massa è stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti” (Albert Einstein).

“La democrazia, se non ha un orizzonte su cui fondarsi e non ha dei protagonisti che si riferiscano a dei parametri etici, perde di vista il bene comune” (Bruno Forte).

“Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato” (Gordon Gekko).

“Mentre la Società si secolarizza e la Chiesa perde il suo potere e la nuova religione imperante sta diventando il Capitalismo” (Carl William Brown).

“Le democrazie non possono fare a meno di essere ipocrite più di quanto i dittatori possano fare a meno di essere cinici” (Georges Bernanos).

“La democrazia è un ideale o concetto limite dell’organizzazione sociale, non una formula politica effettivamente esistente qui e adesso [...] Sia le democrazie popolari sia quelle occidentali del “mondo libero” distano enormemente da questo ideale, che proclamano e insieme pervertono” (F. Savater).

“Oggi la nuova resistenza consiste nel difendere le posizioni che abbiamo conquistato; difendere la Repubblica e la democrazia” (Sandro Pertini).

domenica 30 ottobre 2016

La sovranità assoluta degli Stati


Gli Stati indipendenti e sovrani in Europa furono voluti, per dirla con lo storico Ludwig Dehio, per “evitare l’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia di uno di loro”. Oggi però, che essi non sono più adeguati a sostenere le sfide della globalizzazione, da baluardo comunque imperfetto contro le pretese altrui, si pongono adesso come intralcio per costruire una nuova realtà politica di respiro transnazionale. Per rispondere a quest’Europa incontrollabile, ridotta a un’accozzaglia di discordie, che ci piace sempre meno, noi non troviamo nulla di meglio che invocare il ritorno agli Stati-nazione secondo la formula di sempre, miope, egoista e litigiosa. Non possiamo comprendere questo paradosso senza fermarci a riflettere su cosa sia l’entità stato-nazionale, com’è nata e cosa ha prodotto. Chi ci ha seguito nel post della scorsa settimana ricorderà che Alexandre Kojève parte dalla crisi dello Stato-nazione per teorizzare la rinascita dell’Impero latino. Lo Stato-nazione è dunque la chiave e il perno attorno a cui si sviluppa il suo ma anche il nostro discorso: che cos’è lo Stato-nazione, cosa c’era prima, cosa ci sarà dopo. Il passato può ritornare? Il capitalismo, l’imperialismo, il comunismo, i fascismi sono tutti esperimenti partoriti durante questa breve parentesi della lunga storia umana. Mai prima si era sperimentato tanto. Passerà tutto senza lasciare traccia? Oppure la storia delle nazioni che hanno conquistato gli stati peserà come una pesante ipoteca sugli inquietanti cambiamenti a cui già assistiamo ma che non si lasciano ancora delineare?

Il nodo dello Stato-nazione


Da italiano non posso evitarmi di associare il concetto di Stato-nazione alla nostra travagliata storia risorgimentale. Dall’impresa dei trecento posta in versi da Luigi Mercantini al “Tiremm innanz!”, pronunciato da Amatore Sciesa mentre veniva condotto a morte dal “gendarme austriaco”. E quanti comuni non hanno una strada o una piazza intitolata a Garibaldi, il protagonista dell’impresa dei Mille, l’episodio cruciale del Risorgimento? Tanto sangue fu versato perché la nazione italiana coincidesse con lo Stato, e da questo sacrificio viene la più sacra legittimazione all’entità stato-nazionale italiana. Per tale ragione alcuni vedono nello Stato-nazione la grande realtà politica prodotta nel XIX secolo quando avvengono le grandi unificazioni, in particolare quelle italiana e tedesca. Di quegli anni è anche l’affermazione del capitalismo che trovò nello Stato borghese ottocentesco la sua cornice ideale di sviluppo. Lo Stato-nazione moderno scaturisce dal romanticismo ma possiede anche un’anima materialista, profondamente intrecciata alla storia del capitalismo moderno che finì per coniugare il patriottismo con l’egoismo e l’aggressività nei rapporti internazionali. E sempre nel XIX secolo, ci ricorda Sartori, prende forma lo Stato che noi conosciamo in quanto complesso e vastissimo insieme di strutture di comando, di amministrazione e di legislazione sostenuto da una varietà d’apparati.

Nonostante questi importanti elementi costitutivi ottocenteschi dello Stato-nazione, i più ne individuano la vera nascita nel XVII secolo, e precisamente nel 1648, con il Trattato di Westfalia che pose fine alla Guerra dei Trent’anni. È da quel momento infatti che le pretese universalistiche del Sacro romano impero vengono definitivamente frustrate e si va delineando l’identità perfetta tra Stato, nazione e sovranità. Da allora queste entità al contempo politiche, territoriali e culturali decisero di riconoscersi l’un l’altra nella loro qualità di sovrani assoluti sui propri territori. Senza il consenso degli Stati dell’Impero riuniti in dieta nulla poteva essere deciso: né la pace né la guerra, né la riscossione delle tasse né la dislocazione degli eserciti. Persino la religione passava sotto il controllo degli Stati e non poteva più essere imposta dall’esterno. I privilegi di stampo feudale della Chiesa e il Diritto canonico, fino ad allora legge universale per gli Stati cattolici, cominciarono ad esser messi in discussione.

La Guerra dei Trent’anni nacque come confitto religioso tra cattolici e protestanti. La Pace di Westfalia che ne seguì spense i conflitti religiosi in seno all’Europa, ma con la nuova architettura internazionale che delineò mise al posto delle religioni le nazionalità. Dove stava il punto debole di questa nuova impostazione? Fino ad allora lo Stato aveva provveduto alla protezione giuridica di tutti gli abitanti del territorio a prescindere dalla nazionalità. La coscienza nazionale spinse invece a restringere tale funzione ai soli appartenenti alla comunità nazionale, a coloro, cioè, che condividevano suolo, sangue, fede e lingua. In tal modo lo Stato si trasformò da strumento del diritto in strumento della nazione. Con espressione suggestiva Hanna Arendt definì il nazionalismo come la conquista dello Stato da parte della nazione. E per rendere completa questa conquista si fece ricorso al richiamo della patria, concetto di origini antichissime dalle forti suggestioni emotive, il sommo bene verso cui indirizzare le più totalizzanti espressioni d’amore, devozione e fedeltà dei sudditi. In tal modo la Pace di Westfalia, mentre spegneva i conflitti religiosi, partoriva nuovi mostri: gli Stati Leviatani, con sovranità assolute e nazionalismi sempre più aggressivi. Adesso non si combatteva più in nome di Dio e della Chiesa bensì per difendere lo Stato sovrano e deificato la cui missione era quella di affermare e rafforzare se stesso. Da Westfalia al 1945 l’Europa continuò ad essere devastata dai conflitti scatenati dai nuovi mostri, con ferocia immutata, per l’egemonia sul continente.

Lo Stato-nazione fu l’espediente, l’unico a quei tempi concepibile, per contenere e domare la prepotenza e la riottosità feudale, le pretese imperiali e le intrusioni della Chiesa. A costo, però, di attribuirgli poteri assoluti che i nazionalismi rivestirono d’un alone sacro e incontestabile. E d’altra parte lo stesso nazionalismo si rivelò essere l’unico nesso efficace in particolare tra la società individualistica del XIX secolo e lo Stato centralizzato. Nulla più della comune origine poteva rappresentare la comunanza d’interessi per altri versi molto frammentati per classi sociali e per gruppi. Potremmo quindi definire lo Stato-nazione un male minore, ma pur sempre un male. L’IDOLO dell’Europa in guerra. Venerato ciecamente da ogni ideologia politica, dalla destra alla sinistra estreme, per creare uno stato autoritario o democratico, capitalista o socialista, non importa, comunque l’idolo con le sue liturgie, la sua escatologia e il suo tributo di vittime sacrificali che giustificava persino le ecatombi più efferate.

I due grandi conflitti del Novecento vengono talvolta considerati come un unicum (1914-1945) perché l’uno scaturì dall’altro, e tale unicum viene anche denominato la seconda Guerra dei Trent’anni per un richiamo con la prima, combattuta tre secoli prima, non solo per la durata (1618-1648) ma perché le si vede collegate: la prima come apertura e la seconda come chiusura di un ciclo. Il ciclo degli Stati-nazione elevati ad un’assoluta sovranità di cui fecero un pessimo uso.

Ciò significa che dopo il ’45 è tramontato il tempo degli Stati-nazione? Non esattamente, perché l’architettura internazionale continua a fondarsi sugli Stati nazionali. La stessa ragione per cui essi furono stabiliti continua a sussistere. Gli Stati indipendenti e sovrani furono voluti per consentire al sistema europeo di mantenersi in equilibrio tramite il rispetto – per dirla con lo storico Ludwig Dehio – di un unico imperativo fondamentale: “Evitare l’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia di uno di loro”. Ci hanno provato Napoleone e Hitler a violare questo patto ma gli altri Stati si sono coalizzati per ostacolare il loro tentativo. Finora questo imperativo ha sempre tenuto. Gli Stati-nazione europei sono realtà fortemente radicate e definite. Sono tanti e affastellati. Si contano in 42 escludendo la Russia, il 20% del totale mondiale, ma occupano appena il 4% delle terre emerse. Da nessuna parte v’è una concentrazione di Stati come nel “sub-continente” europeo, ma tutti ormai ben definiti (o quasi) per lingua e cultura. E qui sta il loro dramma. La loro contraddizione. Sono imprescindibili e al contempo insignificanti. Rappresentano solo il 7% della popolazione mondiale. Dall’ultimo dopoguerra le decisioni politiche si prendono altrove. Per non parlare di quelle economiche che, sia pur con i dovuti distinguo, vengono semplicemente subite.

Già nell’Ottocento si cominciò a riflettere su una nuova organizzazione internazionale che prevedesse il superamento più o meno radicale dello Stato-nazione e delle sue contraddizioni. Nel 1918, a cannoni ancora fumanti, Luigi Einaudi diede una lettura significativa della guerra mondiale che interpretò come manifestazione dell’esigenza di unità dell’Europa, “lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore” rispetto, appunto, agli Stati nazionali. La riflessione di Einaudi è molto interessante perché rappresenta l’elaborazione del pensiero europeista formatosi in Inghilterra tra l’Ottocento e il Novecento. Un pensiero profondo, limpido e per certi versi profetico, oltre che stupefacente per l’origine, in questi lunghi anni di euroscetticismo britannico culminato con la Brexit. Svilupperemo questo tema quando parleremo di Altiero Spinelli.


lunedì 24 ottobre 2016

L'ambiguità del nazionalismo


"Con il nazionalismo si corre sempre il rischio che la situazione perda il controllo. Il nazionalismo ha sempre in sé un elemento irrazionale. Le ideologie non stanno ferme: montano, crescono. Se il nazionalismo fosse solo un sentimento personale, lo si potrebbe vivere anche in un altro modo. Ma nel momento in cui si trasforma in ideologia diventa pericoloso". La considerazione è del Premio Nobel per la letteratura Herta Müller. È naturale che la parola “nazionalismo” susciti sensazioni d’inquietudine date le nefandezze a cui è inevitabile associarla. È persino arduo pensare che all’inizio essa non avesse connotazioni negative. Eppure è così. La elaborò il Romanticismo a cavallo tra il ‘700 e l’800 in contrapposizione al cosmopolitismo illuminista che, in nome della ragione, dichiarava uguali tutti gli uomini ma non teneva conto delle inevitabili differenze, sia pur solo culturali, che distinguono i singoli uomini e le comunità in cui essi vivono. Il Romanticismo rivendicava il diritto dei popoli a difendere la loro individualità, le loro tradizioni, gli usi e i costumi particolari. Di conseguenza introdusse sentimenti e ideali di libertà, indipendenza e insofferenza alla dominazione straniera. Il nazionalismo romantico avanzava queste rivendicazioni senza spirito di superiorità e disprezzo nei confronti degli altri popoli. Anzi, con senso di fratellanza auspicava e si batteva perché anche gli altri potessero affermare la loro individualità ed emanciparsi da ogni forma d’oppressione. La pensava così Garibaldi e lo dimostrò con il proprio agire. “Tutte le nazioni sono sorelle”, affermò l’Eroe dei due mondi. “Esse non hanno cupidigie, ambizioni liberticide; ciascuno vuole la sua parte di terra e di sole; ciascuna aiuterà le altre a ottenerla. È dovere dei popoli liberi, e che vogliono essere tali, di accorrere dovunque si combatte per i diritti delle nazioni, dovunque s’innalza la bandiera della libertà”. Oggi che le nazioni europee coincidono quasi del tutto con gli Stati sovrani, l’ottocentesco nazionalismo romantico potrebbe assimilarsi a quello che alcuni chiamano “nazionalismo civico”, quel senso d’identità che non si basa sulla forma dei crani o sul colore degli occhi, sul concetto di sangue e di comune discendenza che caratterizza invece il cosiddetto “etnonazionalismo”. Ma si basa sull’appartenenza ad una nazione come scelta libera, come volontà di aggregazione ad una comunità. E al contempo ben sapendo, per usare le parole di Goethe, che “al di sopra delle nazioni è l’umanità”. Questa forma di nazionalismo, basata sul rispetto della propria cultura e delle altrui culture quando non trascendono nell’intolleranza, è legittima ed è sbagliato svalutarla o, ancor peggio, demonizzarla.

Sappiamo però anche in cosa si trasformò il nazionalismo romantico quando i popoli europei poterono realizzare le loro aspirazioni di libertà: in imperialismo nazionale. La solidarietà tra i popoli e le nazioni in formazione nella seconda parte del XIX secolo andò rapidamente mutandosi in una corsa alla potenza, in aggressività e prevaricazione delle nazioni più forti sulle più deboli. L’unificazione di Italia e Germania coincise con l’avvio della seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da un imponente sviluppo della produzione manifatturiera e dall’affermazione del sistema capitalistico secondo il modello liberista. Questo sviluppo si bloccò nei primi anni 70 dell’800 a causa di una grave crisi da sovrapproduzione. Le industrie, cioè, producevano di più di quel che il mercato poteva assorbire. Ciò portò alla caduta dei prezzi, dei salari, a una diffusa disoccupazione e ad una ulteriore contrazione dei consumi. Si cercarono allora dei correttivi; ne parleremo più diffusamente nel libro. Qui ne citeremo due che videro chiamare direttamente in causa lo Stato: l’attivazione di commesse pubbliche dei prodotti nazionali, soprattutto nel comparto militare, e l’innalzamento di barriere doganali per favorire i prodotti interni. In tal modo la concorrenza dal mercato interno si trasferì a quello esterno, provocando una sfrenata concorrenzialità tra le nazioni. Vi fu anche una corsa al colonialismo, la conquista armata di territori extraeuropei per piazzare i propri manufatti e ricavare materie prime e manodopera a basso costo. In pochi decenni svanì come un sogno ogni proclamazione di nazionalismo romantico e del suo ideale corollario di un’umanità unita in una confederazione di nazioni solidali. Al contrario in quegli anni si gettarono le basi economiche ma anche ideologiche che portarono alla nascita dei nazionalismi più sfrenati, primo tra tutti il nazionalsocialismo tedesco, e si crearono le premesse per lo scoppio dei due terribili conflitti mondiali del nuovo secolo. Ecco così che la comparsa degli Stati-nazione anziché assicurare pace tra i popoli produsse la cattiva bestia del nazionalismo, d’un malinteso amore per la patria. Come osservò de Lévis, “se dal patriottismo della maggior parte degli uomini si togliessero l’odio e il disprezzo per le altre nazioni, ne rimarrebbe poca cosa”. Alla base di quanto abbiamo detto si pone lo Stato-nazione e “il mito – come lo definì Luigi Einaudi – della sovranità assoluta degli Stati”. Sarà questo l’oggetto della prossima riflessione.

venerdì 21 ottobre 2016


Attingendo dai contenuti del libro “IMPERO!”, questa settimana parleremo del filosofo hegeliano Alexandre Kojève che già nel 1945 previde la rinascita economica della Germania e la riduzione della Francia, in quel momento potenza vincitrice, a socio junior della superpotenza tedesca. Per scongiurare questo pericolo Kojève suggeriva all’élite politica della Francia di evitare l’abbraccio fatale con le nazioni anglo-germaniche e di adoperarsi per costruire una comunità sia economica che politica con le altre nazioni latine.



Abbiamo concluso la nostra ultima riflessione con un pensiero del filosofo sociale Zdzisław Krasnodębski, il quale faceva notare che il ruolo di primo piano assunto gradualmente dalla Germania ha ridotto la Francia a socio junior del “direttorato” comunitario. I tedeschi quanto ad autostima si sa non scherzano; essi sono il popolo eletto, baciato sin dagli anni della Riforma dallo Zeitgeist (lo spirito del tempo) che ne fa un riferimento per le altre nazioni. Ma i francesi non sono da meno. E nel secondo dopoguerra, quando il ruolo guida delle nazioni passò agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica, i francesi continuarono a mantenere quella che il generale De Gaulle chiamava “une certaine idée de la France” e a perseguire un ruolo di primo piano nel consesso delle nazioni non solo in ambito politico, ma anche nell’economia, nella cultura e nella “puissance de frappe” dell’arma nucleare. Con le sue dipendenze d’oltremare nel Pacifico, nei Caraibi e nell’Oceano Indiano, la Francia vanta la seconda più grande zona economica esclusiva nel mondo, dopo gli Stati Uniti, con 11 milioni di chilometri quadrati. I domini d’oltremare costano ai contribuenti francesi quasi 3 miliardi di euro ogni anno: non poco in era di spending review. Eppure la politica d’oltremare è uno dei pochi argomenti che di fatto non trova opposizione in parlamento. L’esprit de grandeur, che non fa spiccare per simpatia i cugini transalpini, con il loro atteggiamento un po’ supponente, è espressione di quell’autostima che auspica per la Francia un ritorno ai suoi antichi fasti e che non farà loro accettare passivamente il ruolo di socio junior del “direttorato” comunitario. Ecco perché, quando Krasnodębski afferma che “alcuni Stati membri si daranno da fare per rafforzare la loro sovranità e formare diversi blocchi all’interno dell’Unione”, non può non avere in mente ovviamente i Paesi del Nord scandinavo o dell’Est europeo, il cosiddetto Gruppo di Visegrád, ma il suo pensiero va soprattutto alla Francia.


Alexandre Kojève
Scongiurare la riduzione della Francia a “hinterland militare ed economico, e quindi politico, della Germania”, fu un problema che si pose il filosofo hegeliano Alexandre Kojève già nel 1945 quando licenziò un suo scritto dal titolo “Esquisse d’une doctrine de la politique française”. Nipote del pittore Vasilij Kandinskij, Kojève era russo di nascita ma naturalizzato francese. Fuggito dopo la Rivoluzione d’ottobre aveva frequentato l’università di Heidelberg, in Germania, e completato gli studi a Parigi presso l’École Pratique des Hautes Études. Qui egli pure insegnò, e dal 1933 al 1939 vi tenne un seminario sulla Fenomenologia dello spirito, di Hegel, divenuto leggendario perché formò la filosofia francese, e non solo, del secondo Novecento. Un bel momento, su invito di Robert Marjolin, un suo ex allievo, egli si convertì dalla carriera accademica a quella amministrativa. Divenne funzionario d’alto livello della DREE (Direction des Relations Économiques Extérieures ) e mise il proprio sapere al servizio dello Stato. Si potrebbe dire: il filosofo che presta la propria conoscenza al “tiranno”, il consigliere segreto del principe, nella fattispecie il generale De Gaulle, allora capo del governo provvisorio francese. Kojève partecipò ai negoziati per la creazione del GATT, ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione della CEE e contribuì in modo significativo alle scelte politiche ed economiche della comunità europea ed extra-europea. Disse di lui Bernard Clappier, che succedette a Marjolin nelle guida della DREE: “Era il terrore delle altre delegazioni, e questo perché la sua immaginazione era molto feconda, e non aveva alcuna remora a esprimere ogni sorta d’argomentazione difficile da controbattere. Quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare da solo, era il panico. Era l’apoteosi della sua carriera amministrativa e nello stesso tempo l’apoteosi della sua dialettica, poiché in quel momento dominava completamente il suo gioco. Era veramente un’intelligenza eccezionale”. Fu in questa veste che egli scrisse l’Esquisse d’une doctrine de la politique française. Destinato quindi non alla pubblicazione ma come memorandum ad uso degli alti vertici dello Stato. Qual era il contenuto di questo documento e perché lo abbiamo incluso nel nostro discorso?

L’analisi di Kojève abbracciava l’Europa e il mondo intero sino alla cosiddetta conclusione della storia, ma la sua preoccupazione partiva dalla Francia, sua terra d’adozione. Anzi, erano due le preoccupazioni che egli espose all’inizio del suo scritto. La prima, più remota, riguardava lo scoppio di una terza guerra mondiale in cui il suolo francese sarebbe potuto divenire, come spesso era accaduto, campo di battaglia di potenze straniere. Stavolta di russi e anglosassoni in guerra tra loro. L’altra preoccupazione, più concreta e vicina, si riferiva alla crescita del potenziale economico della Germania che si sarebbe tentato di rendere democratica e pacifica, ma la cui integrazione all’interno del sistema europeo avrebbe fatalmente ridotto la Francia al rango di potenza secondaria. Consideriamo che il saggio fu scritto nell’agosto del 1945, quando i russi erano ancora alleati degli anglo-americani e il Terzo Reich era ridotto a un immane cumulo di macerie, per giunta spartito tra le quattro potenze vincitrici. Eppure già allora Kojève prevedeva che la Germania sarebbe presto ritornata ad essere la prima potenza economica europea manifestando nuovamente una volontà egemonica che avrebbe mortalmente schiacciato, anche sul piano politico, la Francia e gli altri Paesi latini. Inoltre nel giro di dieci o quindici anni la potenza economica e militare dell’URSS avrebbe richiesto e provocato “la nascita di un contrappeso in Europa”; come dire la guerra fredda con la contrapposizione di due blocchi, orientale e occidentale. E quando la guerra fredda divenne una realtà, egli percepì che il vero asse del conflitto era destinato a spostarsi dalla contrapposizione est-ovest a quella nord-sud. È stupefacente quanto sia lucida l’analisi geopolitica di Kojève, persino profetica, considerando ciò che stiamo vivendo in questi anni e quanto diversi fossero gli scenari nei lontani giorni in cui fu sviluppata. Tenendo conto di quest’acuta percezione del futuro, sarebbero quindi da leggere con attenzione anche gli eventi previsti non ancora accaduti e i rimedi da lui proposti.

Kojève parte dalla constatazione che l’epoca degli Stati-nazione è giunta alla sua conclusione. Essi hanno segnato la storia d’Europa soppiantando le formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali. Hanno rappresentato lo spartiacque tra il medio evo e l’età moderna. Ma oggi, diremmo con de Benoist, lo Stato-nazione è diventata un’istanza di mediazione inefficace tra le tendenze centrifughe di regionalismi e irredentismi etnolinguistici dal basso e la pressione dei mercati mondiali dall’altro. In realtà, afferma Kojève, lo Stato-nazione è sempre stata un’entità inadeguata e gli ultimi cinque secoli di guerre e tragedie europee lo dimostrano. Oggi però la sua inadeguatezza è diventata pienamente evidente. Ne è prova lampante il crollo della Germania nazista che ha tentato con uno sforzo supremo di estendere i propri confini nella forma esclusiva di Stato-nazione. Esso infatti non può integrare gli stranieri, non può aggregare popoli diversi, al contempo però ha bisogno delle loro risorse in quanto un singolo popolo, per quanto potente, non può permettersi i costi di una guerra moderna, e allora non gli resta che trattarli politicamente come schiavi a discapito della coesione di cui una compagine socio-politica necessita per sussistere e perseguire obiettivi comuni.

Ma allora, se adesso lo spirito del tempo abbandona gli stati nazionali su cosa tende a posarsi? Basta già osservare – afferma Kojève – chi ha vinto la guerra contro le forze dell’Asse, ovvero gli USA, il Commonwealth britannico e l’URSS che sono tutte entità pluristatuali, per averne un’indicazione significativa. Entità alleate contro il nazional-socialismo ma ideologicamente e culturalmente tra loro antagoniste. Da un lato l’imperial-socialismo dell’impero slavo-sovietico, e dall’altro le liberal-democrazie del British Commonwealth, altra struttura imperiale che si sarebbe ulteriormente coesa nel confronto est-ovest che presto avrebbe avuto luogo. Ecco, il Weltgeist hegeliano, che ha abbandonato le Nazioni, adesso soggiorna negli Imperi. Se si fatica a riconoscere questa nuova realtà è a causa dei difetti visivi di cui sono affette le due ideologie dominanti: il liberalismo borghese e l’internazionalismo socialista. Il liberalismo soffre di miopia perché non concepisce entità politiche sovranazionali. Affermando il primato della società di individui, ritiene già soffocante l’autonomia politica dello Stato-nazione; figuriamoci quella di un Impero. All’opposto, l’internazionalismo umanitario sostenuto da Trockij teorizzava il trasferimento della sovranità delle nazioni direttamente all’umanità. Il socialismo era pertanto – secondo Kojève – ipermetrope, perché non scorgeva entità politiche al di qua dell’umanità. Anche Kojève preconizza la nascita del governo mondiale, ovvero dell’umanità politica; ma vede questo punto d’arrivo come mediato da un passaggio intermedio: quello degli imperi. Passaggio che il liberalismo e il socialismo non riescono a scorgere perché, auspicando rispettivamente la riduzione dello Stato a mera entità amministrativa o il passaggio dallo Stato all’Umanità, non capiscono che “non è possibile saltare dalla nazione all’umanità senza passare per l’impero”. Pragmaticamente, tuttavia, nonostante le ideologie, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica hanno intuito tale cambiamento muovendosi verso la costituzione degli imperi russo-slavo e anglosassone che, nonostante le differenze ideologiche che li contrappongono, possiedono una caratteristica che li accomuna e che rende appunto “imperiali” le due compagini.

Ciò che caratterizza al suo interno un impero, questa unità politica transnazionale, non sono le differenze – contrariamente a ciò che si potrebbe pensare – ma gli elementi che accomunano. L’impero non aggrega ciò che distingue ma ciò che tende a convergere. Una vera unione “imperiale”, coesa ed efficace nella propria azione politica deve associare nazioni imparentate. Kojève adopera qui il temine “appartentées”, che nella traduzione italiana viene resa appunto con “imparentate”, ma che si potrebbe altrettanto bene tradurre con “simili”, “affini”. L’impero può aggregare solo nazioni simili per lingua, civiltà, religione e mentalità. E presto o tardi tutti gli Stati-nazione saranno assorbiti dagli imperi in formazione sulla base di tale criterio. Infatti la Germania secondo lui finirà per aderire all’impero anglosassone in virtù della comune fede e cultura protestante. La cultura religiosa secondo Kojève è un importante elemento di discrimine e di aggregazione. Persino l’impero slavo-sovietico, ideologicamente ateo, trova utile cercare l’appoggio della Chiesa ortodossa a fini identitari. Per non dire dell’impero anglosassone dove la cultura protestante è così rilevante da stare alla base del suo straordinario progresso economico. E qui è chiaro il riferimento a Max Weber e alla sua opera “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Per quanto le nostre società secolarizzate tendano a sottovalutarla, la religione rimane un imprescindibile elemento di discrimine nella costituzione degli imperi. “Sembra dunque – conclude Kojève – che le due formazioni imperiali moderne traggano parte della loro coesione e dunque della loro potenza da un’associazione più o meno ufficiale con le Chiese corrispondenti”.

A questo punto si pone il problema di dove collocare la Francia e le altre nazioni latine. A quale dei due imperi dovrebbero aderire? L’impero slavo-sovietico è da escludere in partenza perché troppo distante da ogni punto di vista: ideologico, etnico, culturale e religioso. Ma anche quello anglosassone presenta poche affinità, persino meno di quel che a prima vista potrebbe sembrare per la comune collocazione nell’Occidente europeo. Una reale integrazione in quest’impero, tranne che perdendo del tutto la loro identità, sarebbe impraticabile ed esse vi si collocherebbero come un corpo più o meno estraneo, a malapena tollerato e passivamente eterodiretto. Inoltre dovrebbero convivere con la potente Germania: un rapporto impari e letale sia da un punto di vista economico che politico. D’altra parte non è neppure pensabile che esse non si aggreghino e restino nella condizione di Stati-nazione, con la prospettiva ugualmente di perdere rilevanza e di finire schiacciate e colonizzate dagli imperi.

E allora ecco la proposta di Kojève, l’unica soluzione che consentirebbe alle nazioni latine di sedere con pari dignità nel rinnovato consesso delle nazioni. La Francia dovrà porsi alla testa di un progetto analogo a quello che ha portato alla formazione dei due imperi anglo-americano e sovietico per dar vita ad un terzo impero, quello “latino”. Per far ciò dovrà soprattutto coinvolgere le altre due grandi nazioni latine che si affacciano sul Mediterraneo, ovvero la Spagna e l’Italia. In seguito potranno aggregarsi pure gli altri Paesi latini a cominciare dal Portogallo. L’unione che verrebbe a crearsi sarà naturalmente anche economica e finanziaria ma al contempo sarà ben lontana dal liberalistico primato dell’economico sul politico. Anzi, uno dei suoi obiettivi dovrebbe proprio essere quello di superare i limiti del liberalismo anglosassone e dello statalismo sovietico che caratterizzano gli altri due imperi. Ma l’unione economica, pur essendo imprescindibile, non sarà la ragion d’essere dell’impero latino. Il fine ultimo di quest’unione sarà politico e dovrà essere generata da un’ideologia specificamente politica che deve mirare all’indipendenza e all’autonomia. A tal scopo l’impero latino avrà un’unica politica estera e avrà un unico esercito: forte ma limitato alla sola funzione difensiva. La potenza dei latini sebbene non possa eguagliare quella degli altri imperi sarà comunque sufficiente per imporre la sua neutralità e proteggere le proprie aree d’influenza, a cominciare dal Mediterraneo che sarà nuovamente Mare Nostrum. Solo mettendosi alla testa di un tale impero la Francia potrebbe mantenere la propria specificità politica e culturale.

Sulle macerie ancora fumanti del Reich tedesco e dell’ideologia che lo aveva sostenuto, Kojève ci tiene a precisare che l’affinità tra nazioni non ha nulla a che vedere con le idee sulla razza ma è un “fattore politico primordiale” che riguarda la lingua, la mentalità e la religione. Quanto a questa, egli indica la comunità di intenti, l’isomorfismo strutturale, che presentano gl’imperi in formazione e le Chiese cristiane tra loro separate: gli uni perché trovano coesione nella condivisione di una comune religione, le altre perché si riconoscono inserite più adeguatamente in una cornice imperiale che è compagine intermedia tra l’umanità e le nazioni. Nell’impero latino, ovviamente, il patrocinio spirituale verrebbe acquisito dalla Chiesa cattolica. Anzi, l’unità e la coesione di questa Chiesa (formatasi peraltro in un contesto imperiale) non fanno che attualizzare il richiamo alla fondazione di un impero cattolico il quale non può che essere latino.

Quanto alla mentalità che accomuna le nazioni latine e le caratterizza da un punto di vista culturale, Kojève indica “quell’arte del tempo libero che è l’origine dell’arte in generale” e darebbe specificità all’Occidente latino unificato. Sarebbe un aspetto identitario omogeneo e risalterebbe per eccellenza rispetto alla produzione degli altri due imperi. È grazie a questa specificità antropologico-culturale, osserva oggi il filosofo del diritto Danilo Zolo, che l’area mediterranea “vanta la più grande concentrazione artistica del mondo”. Ma questo lavoro produttivo e fecondo è strettamente connesso alla mentalità del “doceur de vivre”, tipica dell’area latino-mediterranea, del “dolce far niente” che altre culture hanno difficoltà a comprendere. Tale mentalità non andrà compressa bensì indirizzata, ed anzi costituirà uno degli aspetti caratterizzanti della transizione finale verso la fine del Tempo umano. Proprio nell’impero latino Kojève intravede l’accelerazione verso la fine della Storia. Tema su cui avremo occasione di tornare.


Giorgio Agamben
Il saggio scritto da questo maestro “occulto” del Novecento, è stato ripreso recentemente dal filosofo italiano Giorgio Agamben. Il 15 marzo 2013 Repubblica pubblicò un suo articolo dove egli invitava a riflettere sulle parole di Kojève. La sua previsione sull’egemonia economica della Germania si era puntualmente realizzata, riducendo la Francia al rango di una potenza secondaria all’interno dell’Europa continentale. Con la globalizzazione gli stati-nazione mostrano tutta la loro inadeguatezza ma l’Unione europea che si è formata ignorando le concrete parentele culturali esistenti tra gli stati membri è paralizzata dalle sue contraddizioni. Nel nome d’una pretesa unità si sono semmai accentuate le sue differenze. “Un’Europa che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico.” Essa s’è ridotta a imporre ad una maggioranza più povera gl’interessi di una minoranza più ricca che coincidono spesso con quelli della sola Germania. È un percorso insostenibile che, come molti segni lasciano prevedere, porterà alla disgregazione dell’Europa. E allora perché non riflettere sulla proposta di Kojève di riarticolare la costruzione europea tenendo conto delle parentele culturali e dar vita a qualcosa di simile a ciò che egli chiamava l’Impero latino? Se non altro, visto che comunque adesso vi sono coercizione e trasferimento di sovranità, anziché l’attuale coacervo di istanze e interessi contrapposti, vi sarebbe una forza consapevolmente unita.

La provocazione di Agamben ha suscitato interesse e dibattito in Europa, soprattutto in Francia e in Germania. La prima perché patria adottiva di Kojève e chiamata all’azione dal suo progetto. La seconda perché – nonostante sia il motore economico dell’Europa – viene clamorosamente esclusa da questo progetto. Al Frankfurter Allgemeine Zeitung che lo ha intervistato, egli ha spiegato che oggetto della sua critica non è la Germania ma il modo in cui l’Unione europea è stata costruita; e se la Germania è stata chiamata in causa è avvenuto perché essa, nonostante la sua posizione dominante, appare incapace di fare proposte utili per uscire dall’empasse, di concepire un’Europa fondata su qualcosa di più che l’euro e l’economia. La proposta di Agamben è invece passata quasi inosservata in Italia, quantunque essa viva questo problema d’integrazione e sia parte in causa nel progetto d’Impero latino. Qualche perplessità è giunta dal mondo accademico. L’epistemologo Michele Marsonet, ad esempio, dopo avere ammesso che sotto certi aspetti il saggio di Kojève è un testo profetico perché predice tutta una serie di eventi geopolitici che si sono effettivamente realizzati, si chiede tuttavia come sia possibile la nascita di un impero latino guidato dalla Francia. E si chiede come Agamben, che può contestualizzare quella lontana proposta nella realtà presente, possa ritenere attuabile un progetto di questo tipo. Il patrimonio culturale comune tra le nazioni latine, certo esiste ma è così forte da spingere all’unificazione? E la stessa Francia che dovrebbe realizzare il progetto, si sentirebbe così tanto in sintonia con i cugini latini? Essa che li ha sempre guardati dall’alto in basso, e per varie ragioni – storiche, culturali e persino etniche – è una sorta di Giano bifronte che guarda a Sud come a Nord, “direzione geopolitica nella quale si sente altrettanto coinvolta”. E poi è così scontato che gli altri “latini” guarderebbero con più condiscendenza ad un’egemonia francese rispetto a quella tedesca? In qualche modo, tuttavia, Marsonet si dà una risposta quando ricorda che l’appello di Kojève non era genericamente rivolto alla Francia ma ad una persona, ovvero al generale De Gaulle che il destino della Francia in quel momento storico teneva in pugno. Kojève non dubitava che la sua proposta avrebbe incontrato delle resistenze, persino incomprensione e disattenzione. La Francia avrebbe faticato a riconoscere la “fine del periodo nazionale della storia”, e sarebbe passata per un periodo di perdita della volontà politica ed una conseguente decadenza sotto il piano sociale, economico e culturale. Ma egli aveva anche descritto tra le qualità che distinguono il vero leader (nel suo saggio Notion de l’autorité) quella forma di autorità già teorizzata da Aristotele che è la capacità di prevedere e progettare l’avvenire. E di fronte a minacce esterne gravi e destabilizzanti solo un grande leader avrebbe potuto coagulare attorno a sé il necessario consenso per tradurre in realtà il progetto imperiale. Come dire che non potrà esservi Impero latino senza un “imperatore” che ne accompagni la gestazione, così come non ci sarebbero stati gli imperi sovietico e anglo-americano senza il “genio politico” di Stalin e Churchill.


domenica 16 ottobre 2016

Affinità


Scriveva Piero Angela nel suo libro Ti amerò per sempre: “È assai difficile… che due persone destinate a passare insieme tutta la vita non abbiano certe affinità di base. Alcuni studi mostrano infatti che esiste una tendenza a unirsi a un partner ‘compatibile’ sotto molti aspetti: livello educativo, intelligenza, valori, ma anche visione della vita, senso dell’umorismo, religione, orientamento politico, interessi”. A maggior ragione l’affinità è una condizione fondamentale quando a decidere di stare insieme sono i popoli, dov’è improprio parlare d’amore. Nel migliore dei casi i fattori che li attraggono sono la stima, l’ammirazione, il rispetto reciproci. Il progetto di un’Europa unita nasce da esigenze per certi aspetti meno ideali. Non che essa non abbia avuto Padri Fondatori ma la spinta che l’ha messa in moto è stata dettata da necessità pratiche. Le sue genti si aggiravano annichilite sulle macerie morali, politiche e soprattutto economiche lasciate dalla guerra. Non solo la Germania, ma anche La Francia e la Gran Bretagna avevano ceduto il dominio del mondo agli imperi americano e sovietico. La crisi di Suez del 1956 aveva reso evidente l’irrilevanza politica e militare in cui erano precipitate le ormai ex potenze europee. L’unità europea nasce come progetto delle classi dirigenti francese e tedesca per contrastare il pericolo dell’avanzata comunista e imbrigliare i nazionalismi e i conseguenti atavici antagonismi. Al contempo consentiva alle economie capitalistiche europee di funzionare in modo coordinato e non conflittuale, inizialmente nel mercato del carbone e dell’acciaio, e poi in tutto il resto. Il successo della formula si è risolto in un’apertura a nuovi partner sempre più estensiva e però meno qualitativa. La caduta del Muro di Berlino ha spinto in questa duplice direzione perché ha consentito l’ingresso dei Paesi dell’Est Europeo, certamente europei ma più lontani culturalmente e più immaturi politicamente dei cugini atlantici. Inoltre la caduta del sistema di potere russo-sovietico ha fatto venir meno una delle ragioni fondanti della Comunità, che era la paura. Convenienza e timore erano infatti i due motivi per cui l’Europa aveva deciso di stringere questo patto d’interesse senza infatuazione. La globalizzazione e la crisi finanziaria, attizzando gli egoismi nazionali, hanno fatto il resto. La convivenza per interesse (nonostante le promesse e gli auspici) non si è mai trasformata in matrimonio, e men che mai potrà avvenire adesso. Perché? Perché i partner mancano di affinità. O, meglio, esistono delle affinità tra i popoli europei ma solo a livello regionale. Infatti diversi studiosi già da molti anni prevedono matrimoni (ovvero unioni politiche) in Europa sotto la spinta di necessità contingenti ma solo tra i Paesi che presentano affinità: anglosassoni, scandinavi, slavi e naturalmente latini. Secondo la regola che l’intensità avvicina ma è l’affinità che unisce. Sarà questo l’argomento della riflessione della prossima settimana.

venerdì 14 ottobre 2016

La controparte essenziale dell’Unione monetaria


Anticipando i contenuti del libro “IMPERO!”, questa settimana parleremo del calcolo errato degli statisti europei degli anni Novanta di voler anteporre l’unione monetaria a quella politica. Essi sapevano bene che un sistema solo monetario non avrebbe retto alla prova dei fatti ma erano convinti che l’inevitabile crisi avrebbe costretto anche i più recalcitranti ad accettare l’integrazione politica. “L’Europa si fa nelle crisi”, aveva affermato Jean Monnet, uno dei padri fondatori. Invece proprio l’unione solo economica e monetaria si è rivelata una formula estremamente divisiva tra gli stati membri e nei confronti della UE, e che ha profondamente modificato – secondo l’economista francese Jacques Sapir – le istituzioni in direzione antidemocratica, producendo l’austerità come figlia legittima e diletta dell’euro.



Beppe Severgnini, riguardo all’Europa, è un inguaribile ottimista. Non ignora i continui ostacoli che incontra l’integrazione del continente, con particolare riferimento alla crisi della moneta unica (per volerci limitare a questa). Ma egli afferma anche che “sono proprio le crisi – lo dimostra la storia – il carburante d’Europa”, evidentemente richiamandosi al pensiero di Jean Monnet (uno dei padri fondatori) secondo il quale “l’Europa si fa nelle crisi”. Analoga nel significato è un’altra espressione usata dal noto editorialista: “La costruzione europea procede per spaventi”. Questo lo sapevano benissimo gli statisti europei degli anni Novanta quando avviarono il progetto dell’Unione monetaria. Essi erano pienamente consapevoli che un sistema solo monetario è incompiuto e instabile, e che lasciato in questi termini esso non sarebbe stato sostenibile. Erano convinti che l’inevitabile crisi avrebbe generato una pressione politica verso una maggiore integrazione europea. Il cancelliere tedesco Helmut Kohl lo disse esplicitamente al Parlamento europeo: “L’Unione politica è la controparte essenziale dell’Unione monetaria”. Essi sapevano che tentare di anteporre all’Unione monetaria l’Unione politica, con una vera unione bancaria, una politica economica coordinata e una comune fiscalità avrebbe rinviato il progetto alle calende greche, e allora hanno scommesso sulla capacità degli europei di attuare i necessari provvedimenti quando le difficoltà si sarebbero fatte insostenibili. Ma hanno perso la scommessa. Allora, se essi sono partiti da due presupposti entrambi corretti, viene da chiedersi, come si spiega questo fallimento?

Probabilmente perché gli ostacoli, pur individuati, non sono stati analizzati con la dovuta attenzione. Certo, è anche vero che la situazione geopolitica nel frattempo è cambiata in forme inattese, quanto meno nell’intensità o nell’accelerazione presa dagli eventi: la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie, la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, la recessione. La fine della contrapposizione con il blocco comunista ha fatto riemergere altre antitesi, più antiche e profonde. In breve tempo il ruolo di periferia è passato dall’Europa postcomunista al meridione europeo. La Germania ha ritrovato una dignità e una consapevolezza fortemente appannate dalla disfatta del regime hitleriano. E poi le varie tempeste planetarie di natura economica e finanziaria che hanno soffiato con violenza sul nostro continente e hanno reso evidenti tutte le contraddizioni di un’unione limitata alla sola moneta e al libero mercato. Ed è questo il punto: tutte queste sollecitazioni esterne avrebbero fatto da catalizzatore e da cartina di tornasole, evidenziando contraddizioni tutte interne all’Europa che è apparsa molto più disunita di ciò che l’ideologia comunitaria voleva lasciare intendere. Non solo: ma le stesse istituzioni comunitarie e i loro meccanismi hanno mostrato una forte valenza disgregatrice nelle crisi. Le politiche per creare un’unione monetaria hanno sortito l’effetto opposto a quello sperato nel verso dell’integrazione politica. L’euro si è rivelato una fonte di conflitti tra i Paesi che l’hanno adottato, aumentando il divario tra il centro e le nuove periferie d’Europa. Ha reso evidenti le differenti culture economiche dei partner e non ha favorito la solidarietà. Inoltre si è rivelato strumento di deriva antidemocratica.

Già da prima le istituzioni europee soffrivano di un deficit democratico perché gli Stati nazionali hanno delegato solo una parte della loro sovranità all’Unione. E questo fatto di trovarsi sotto la tutela degli Stati nazionali espone l’Unione a forti condizionamenti non solo degli egoismi nazionali ma anche a quello esercitato dalla pressione delle lobby. I semplici cittadini avvertono questa scarsa attenzione per le loro reali esigenze e per contro si accumulano regolamenti invasivi che vietano di tutto: dal miele ogm, ai formaggi regionali o alle zuccheriere nei bar. Il controllo democratico su Bruxelles è molto, molto indiretto, e diluito in dosi infinitesimali, praticamente omeopatiche. L’architettura comunitaria non è concepita per esprimere la sintesi degli interessi di tutti, delle maggioranze e delle minoranze. Persino l’accresciuto potere del parlamento europeo, unico organo comunitario eletto direttamente dai cittadini, in questo contesto non offre sufficienti garanzie. In mancanza di una Costituzione europea e di pesi e contrappesi, il rischio è quello di produrre di volta in volta dittature della maggioranza. Sarebbe necessario quindi un completo ripensamento dell’architettura istituzionale europea. In caso contrario persino l’introduzione di una maggiore rappresentatività legittimata dal voto popolare si risolverebbe in una democrazia europea di stampo giacobino. Ammesso e non concesso che l’Unione tenga, è proprio questa l’alternativa che si prospetta: il rafforzamento dell’attuale Europa intergovernativa a guida tedesca, o la creazione di un mostro totalitario senza contrappesi ma legittimato dal voto popolare.

A questo contesto molto poco liberal-democratico, si aggiunge la deriva antidemocratica prodotta dall’euro. L’economista francese Jacques Sapir (che esprime forti critiche alla politica germanocentrica) riconosce nell’unione economica e monetaria la svolta decisiva che ha profondamente modificato le istituzioni in direzione antidemocratica e ha prodotto importanti cambiamenti nelle forme e nei metodi di governance politica. Il risultato di questo cambiamento istituzionale sarebbe ciò che oggi chiamiamo “austerità”. I paesi dell’Europa mediterranea che pensavano di poter tenere un atteggiamento al contempo “pro-euro” e anti-austerità, si sono dovuti ricredere, e sono stati costretti ad indossare la camicia di forza dell’austerità. Viene al massimo loro concesso di negoziarne alcune sfumature, come il peso delle catene e la durata della schiavitù. Solo così possono mantenere l’euro, altrimenti dovranno abbandonarlo. L’austerità è la figlia legittima e diletta dell’euro. Nessun’altra politica è possibile al suo interno. La moneta unica, oltre che strumento di finanziarizzazione, è un metodo di governo che agisce in autonomia con progressive conseguenze sul funzionamento politico dei Paesi. La privazione dei parlamenti nazionali delle loro prerogative sovrane si traduce in espropriazione della sovranità popolare e della democrazia. La stessa istituzione dell’UE, che è fortemente condizionata soprattutto dai governi dei suoi Paesi egemoni, ha subìto modifiche nella propria natura. Il destino della Grecia è un sintomo evidente di tale cambiamento. Essa ha cambiato status: è diventata un protettorato, gestito da istituzioni finanziarie e dalla Commissione. E questo palesemente contraddice i princìpi democratici dichiarati imprescindibili dall’Unione Europea. Tra gli altri lo ha sostenuto Jürgen Habermas, sul Guardian: “La retrocessione de facto di uno Stato membro allo status di protettorato, contraddice apertamente i principi democratici dell’Unione Europea”. L’Unione monetaria senza l’Unione politica ha istituito di fatto un regime tirannico. Quando la Louisiana ha difficoltà economiche mentre il Michigan se la passa meglio, le entrate fiscali di questo vengono in soccorso del bilancio di quella. E ciò Perché gli Stati Uniti sono uniti anche politicamente. I creditori dell’Eurogruppo possono invece dire alla Grecia: “O accetti le nostre condizioni o noi distruggiamo la vostra economia chiudendo le vostre banche”. “Non potrebbe mai accadere in una democrazia liberale, costituzionale”, osserva l’economista PierGiorgio Gawronski. È come “se la California fa default e la Fed in risposta fa fallire le sue banche! Impensabile!”. Sapir dice la stessa cosa: L’euro non funziona “perché ci si è rifiutati di passare a un bilancio realmente federale, che però avrebbe costretto i paesi ricchi dell’Ue a sostenere i più deboli, come accade fra regioni di uno stesso stato”. E allora, che fare? Sono solo due le scelte sensate: o decidersi rapidamente per l’unione politica, oppure svincolarsi dalla stretta mortale dell’euro. L’introduzione della moneta unica, implicitamente aveva questo scopo – lo abbiamo detto – quello di costringere, di fronte agli insostenibili paradossi prodotti da questa situazione incompiuta, a darsi una mossa. E invece gli europei oggi sembrano dei sonnambuli che camminano con lo sguardo perso nel nulla sul ciglio d’un burrone. L’unione politica generalizzata non la vogliono più (e forse non l’hanno mai realmente voluta) ma non vogliono ammetterlo, e al contempo non vogliono neppure lasciare l’euro perché temono gl’inevitabili contraccolpi: la reazione dei mercati e l’ineluttabile svalutazione, le politiche nefaste che alcuni paesi conoscono connesse alla corruzione, all’evasione, al clientelismo o anche solo all’incompetenza e senza più alcun controllo esterno. E così pensano che le politiche ancor più nefaste connesse alla dittatura dell’euro siano preferibili.

In realtà i meno forti stanno soccombendo: le loro economie vengono stritolate e le istituzioni democratiche vengono umiliate da diktat esterni (e complicità interne, talvolta anche solo ideologiche). Di questo passo, alla fine dovranno comunque svincolarsi da quest’abbraccio mortale. Più si aspetta e più le società saranno immiserite, sfaldate, sobillate dai populismi. Al divorzio si arriverà con una più forte carica di delusione, di amarezza, di rancore. Come popoli e come Stati, indisponibili ad accettare retrocessioni. “Nella nuova geografia politica la Germania è salita al potere ed è diventata il centro dell’Europa. L’Unione monetaria ha rafforzato la Germania unita. La Francia è diventata il socio junior del ‘direttorato’ ed è sempre più frustrata”, afferma il filosofo sociale Zdzisław Krasnodębski. “Tenendo conto di tutto questo, ci si può aspettare che in futuro le controversie politiche in Europa diventeranno più agguerrite. La polarizzazione politica diventerà più forte. Alcuni Stati membri si daranno da fare per rafforzare la loro sovranità e formare diversi blocchi all’interno dell’Unione”. Che poi, non è detto ci rimangano all’interno. Ne parleremo nella prossima riflessione.


giovedì 6 ottobre 2016

La linea di frattura religiosa nell’eurozona


Attingendo dai contenuti del libro “IMPERO!”, questa settimana parleremo della frattura culturale esistente tra gli europei del nord e quelli del sud, alla cui base ci sarebbe addirittura la religione. La BBC inglese ha parlato esplicitamente di “una linea di frattura religiosa nell’eurozona”. Importanti firme del nostro giornalismo ci hanno informato del dibattito sorto tra i popoli di cultura germanica. I titoli sono già eloquenti in sé. Camillo Langone intitola un suo articolo: “Angela, la luterana che vuol purificare gli straccioni latini”. Massimo Franco, dalle pagine del Corriere, gli fa eco con il suo: “Eurozona: Una nuova guerra di religione”.




Ricordate l’acronimo P.I.G.S. che stava per Portogallo, Italia, Grecia e Spagna? Ma che in inglese si legge “maiali”. La stampa nord-europea ha giocato sull’ambiguità di questo termine per sottolineare la situazione economica non virtuosa di questi paesi. Con porcine economy (economia suina) si è intesa un’economia, tipica dei paesi euro-mediterranei, caratterizzata da una precaria condizione dei conti pubblici e da una scarsa competitività dell’economia nazionale che rendono assai difficoltoso il ripianamento del debito pubblico. Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sarebbero pertanto i porci d’Europa. Eppure questo porcile economico, grazie alla tanto auspicata unione politica che arrecherà i trasferimenti del sistema fiscale federalista, e grazie alla dolcezza del clima e dei suoi paesaggi che attirerà i vacanzieri centro-europei, assumerà il volto delle “Vacation Lands” d’Europa: terre dove quei ricchi turisti acquisteranno la seconda casa per le vacanze, serviti e riveriti dagli aborigeni, grati per l’opportunità di poter far loro da camerieri, cuochi e giardinieri. Questo almeno secondo le
Niall Ferguson
previsioni dello storico Niall Ferguson di cui abbiamo detto la scorsa volta. Ma sarebbe poi vero che tale condizione di camerieri con il grugno darebbe grande soddisfazione a italiani e spagnoli solo perché riuscirebbero a sopravvivere economicamente conservando anche molti spazi per i loro imprescindibili ozi? Intervistato da Repubblica, Ferguson ammise che tale soddisfazione sarebbe stato un modo per accettare con filosofia un dato di fatto derivante dai propri limiti. Nello scenario da lui prefigurato, infatti, l’unione politica avverrà dopo una fuga generalizzata dall’Europa. Chi potrà se ne andrà. Gran Bretagna e Irlanda torneranno alla loro unione originaria e gli Stati scandinavi formeranno una lega per conto loro. Chi resterà celebrerà un matrimonio di sola convenienza perché l’euro sarà un legame difficilmente dissolubile. Sarebbe arduo tornare alle vecchie monete nazionali, a cominciare dai paesi economicamente più forti come Germania e Francia. Ma anche quelli dell’Europa meridionale chiederebbero di restare nell’euro (e in quest’Unione rafforzata) a qualunque condizione, perché l’alternativa per loro non esiste o sarebbe comunque peggiore.
Ma se da un lato – affermava Ferguson – la crisi dell’euro costringerà a maggiori vincoli di tipo politico, dall’altro ha fatto emergere con più chiarezza le diversità e le divisioni che sono sempre esistite all’interno della UE, di cui i comportamenti economici sono solo il sintomo di atteggiamenti culturali assai eterogenei. Incalzato dall’intervistatore sul ruolo dell’Italia, se davvero ritenesse che si sarebbe limitato a quello di “villaggio vacanze” dell’Europa, Ferguson rispose che per giocare un ruolo più importante essa dovrebbe risolvere problemi strutturali enormi, che servirebbe uno sforzo collettivo e colossale per cambiare molte cose. E “dov’è, secondo lei, la radice dei problemi italiani?”, continuò l’intervistatore. Risposta: “Ce n’è più d’una, ma una è che non sia stata coinvolta, perlomeno nelle regioni del nord, dalla riforma del protestantesimo, che avrebbe dato differenti valori etici alla nazione: Milano, con una dose di calvinismo, sarebbe potuta diventare una grande capitale europea”.


Camillo Langone
Quest’ultima risposta di Ferguson può sembrare eccentrica o riduttiva, ma chi ha seguito il dibattito sulla crisi economica del Continente così come l’hanno letta e interpretata gli analisti del centro e del nord Europa, sa che invece questo è considerato un argomento centrale. Persino il primo in ordine dì importanza riferendosi ai paesi mediterranei. Ed anche i maggiori quotidiani italiani ne hanno raccolto l’eco. Talvolta con tono ironico, come fece Camillo Langone sulle pagine di Libero in un gustoso articolo dal titolo: “Angela, la luterana che vuol purificare gli straccioni latini”. L’atteggiamento della Merkel nei confronti dell’Italia e delle altre nazioni euro-mediterranee affonda le sue radici nella religione e non, come si pensa, nell’economia. Spiegava il giornalista. Da un lato ci sono i luterani con il senso del bene comune e della responsabilità individuale e dall’altro i cattolici con un forte individualismo e (per dirla con don Milani) con la “congenita propensione a evadere ogni responsabilità individuale”. Anche i nomi delle terapie finanziarie somministrate ai latini tradiscono questa matrice religiosa, com’è il caso dell’European Redemption Pact, in teoria uno strumento finanziario dal nome inglese, nei fatti uno strumento di tortura di matrice teutonica, un programma di espiazione, per chi tende a non pagare il proprio debito (peraltro in tedesco sinonimo della parola “colpa”). Così i latini vedono nei tedeschi dei boriosi torturatori, e i tedeschi considerano i latini come disonesti profittatori. Come si può pretendere con tali premesse di procedere verso l’unione? L’unione di cosa?


Massimo Franco
Privo d’ironie è invece l’articolo di Massimo Franco apparso alcuni mesi più tardi sul Corriere della Sera. Titolo: “Eurozona: Una nuova guerra di religione”. Anche Franco poneva l’accento sul termine tedesco “Schuld” che significa al contempo debito e colpa. Le lingue neolatine hanno perso questa coincidenza di significati che (diciamo noi) invece è presente nel Vangelo. Ad esempio nel Padrenostro la richiesta di perdono viene tradotta indifferentemente con “rimettici i nostri debiti” o “rimettici le nostre colpe”. Alla base di questa perdita ci sarebbe la dottrina e la prassi cattolica delle indulgenze per il perdono dei peccati che dalla religione si sarebbe riverberata sullo stile di vita dei fedeli, e che di fatto si tradurrebbe in un’eccessiva tolleranza in materia di “peccati fiscali”. Il fatto è che persino i cattolici tedeschi, per ragioni storiche, hanno mantenuto uno spirito critico nei confronti della cultura latina delle indulgenze. Franco citava a proposito l’amarezza di papa (allora non ancora emerito) Benedetto XVI per l’ostilità della sua Baviera cattolica contro l’Italia. E citava l’opinione di Stephan Richter, direttore del Globalist, commentatore cattolico ma soprattutto tedesco, il quale teorizza che “un eccesso di cattolicesimo danneggia la salute fiscale delle nazioni, anche adesso nel XXI secolo”. La tesi di Stephan Richter è quella che se il riformatore Lutero fosse stato presente a Maastricht nel 1992, quando furono gettate le basi dell’unione monetaria, avrebbe bocciato l’adesione delle nazioni del Mediterraneo. “Nessun Paese cattolico che non ha vissuto la Riforma protestante deve entrare nell’euro”, egli s’immagina che avrebbe detto il Riformatore. Sarebbe questa la “legge di Lutero” che oggi il Nord Europa si rammarica non sia stata applicata; e la cui violazione sarebbe alla base di molti guai. Se invece le sue parole immaginarie fossero state interpretate a dovere, “l’euro sarebbe più compatto, e l’economia europea meno in difficoltà”. “Insomma – prosegue Massimo Franco – per analizzare l’idoneità di una nazione a far parte della moneta unica sarebbe bastato non passare al setaccio i suoi bilanci ma i suoi cromosomi religiosi: sarebbe stato tutto più facile”. Non è un caso se i disastrati PIGS sono quasi tutti Paesi di cultura cattolica, fa eccezione la Grecia che è ortodossa, ma si sa che l’affinità tra ortodossia e cattolicesimo è molto stretta. Finché era in corso la guerra fredda, l’asse Nord-Sud europeo prevaleva sulle altre disomogeneità. Oggi esse riemergono. La Bbc inglese ha parlato di “una linea di frattura religiosa nell’eurozona”, e sulla scia della crisi dei mercati finanziari, viene evocato il conflitto tra cattolici e luterani; l’asse europeo si torce da Sud a Est. E così oggi si dice che la Finlandia protestante è nel cuore dell’UE, mentre l’Italia (peraltro Paese fondatore) sarebbe in periferia. Le intese tra Francia, Spagna e Italia vengono vissute con sospetto e definite la “nuova alleanza latina”. Il timore è – conclude Massimo Franco – che sbandierati primati geoeconomici e georeligiosi minaccino di risvegliare i demoni degli anni più bui della Storia europea e iniettino veleni antichi nelle fibre stanche dell’Unione.


Richard Swartz
Richard Swartz, un giornalista svedese che vive da molti anni a Vienna, ha scritto parecchio sull’argomento ed è istruttivo ascoltarlo, perché egli assiste agli eventi da una posizione privilegiata e ci racconta direttamente e senza mediazioni la sua visuale che è quella del nord-europeo. In molti hanno invano tentato di unificare l’Europa – esordisce Swartz – da Attila a Hitler con in mezzo Carlo Magno, Carlo V d’Asburgo e Napoleone. Tutti vi hanno sbattuto il naso contro. L’ultimo tentativo è quello dell’Unione Europea, diverso dai precedenti perché ha utilizzato mezzi inoffensivi, come la comune volontà, le istituzioni comunitarie, leggi e regolamentazioni. Ma non va dimenticato che anche questo progetto nasce da violenze inaudite quali furono le due guerre mondiali (d’origine europea) e dall’auspicio che quelle esperienze non si ripetessero mai più, da un’emergenza, cioè, ormai avvertita come lontana. Sin dall’inizio l’accento è stato posto sull’economia, ma nella sostanza il progetto unificante era soprattutto politico. L’economia doveva essere uno strumento per produrre convergenze in altri ambiti, allo scopo di creare un insieme che assomigliasse agli Stati Uniti d’Europa. Con la crisi della politica e dello stato-nazione, è rimasta solo l’economia e il mezzo s’è fatto scopo. Il cambio di paradigma sul momento s’è poco avvertito in quanto la cooperazione economica era l’aspetto più esplicito della macchina comunitaria e l’indirizzo politico del progetto lavorava, per così dire, in background. La crisi dell’euro ha portato allo scoperto i limiti di questa cooperazione ormai solo economica che sono di ordine storico e culturale, in una regione modesta geograficamente ma al contempo la più complessa al mondo. “In uno spazio tutto sommato ristretto, 300 milioni di persone devono cercare di dar vita a un’unione, quando di fatto non occorre allontanarsi neanche troppo prima di non essere più in grado di capire ciò che dicono gli altri, di trovare chi mangia o beve cose di cui non abbiamo neanche una vaga idea, chi canta canzoni a noi sconosciute, chi celebra altri eroi, chi ha un rapporto completamente diverso con il tempo, ma anche sogni e demoni differenti.” Queste differenze ci sono sempre state, però vengono occultate dalla narrazione unionista con la sua ideologia, la sua propaganda e i suoi riti: la bandiera, Beethoven, Eurovision, e così via. In questa costruzione ottimistica tutti gli europei appaiono per natura uniti di fronte al resto del mondo, “mentre uno svedese ha indubbiamente più cose in comune con un canadese o con un neozelandese che con un ucraino o un greco. Se la storia d’Europa è costellata di ostilità e di atti di violenza, a iniziare dalle due guerre più spaventose che l’umanità abbia mai conosciuto… è probabile che dipenda proprio dalle nostre differenze culturali – e non da quelle politiche o economiche.” La crisi che stiamo vivendo rende evidente il divario che separa le chiacchiere buoniste dalla cruda realtà che ci circonda. “Con nostro grande stupore – afferma Swartz – la crisi ci ha fatto scoprire persone che non avevano mai pagato le tasse, che pensavano che fossero gli altri a dover saldare i loro debiti e che accusavano di dispotismo chi tendeva loro la mano. Ignoravamo l’esistenza di questi europei e non volevamo credere che esistessero.” Stesso discorso vale per il clientelismo che è fenomeno tutto mediterraneo. Bisogna prendere atto che gli europei sono molto diversi tra loro e la cooperazione economica non basta a creare il senso di una comune cittadinanza. Mangiare la pizza nel nord della Svezia e il salmone in Sicilia non bastano a dare agli svedesi o ai siciliani una vera identità europea. Il fatto poi che queste differenze non possano essere discusse, poiché sottoporle al filtro dell’analisi sarebbe politically incorrect, rischia di non farci uscire ed anzi di rafforzare i nostri storici pregiudizi. Così sui tabloid appaiono articoli dove gli italiani e gli spagnoli sono descritti come indolenti e poco affidabili e i greci sono furbi e ladri. Di contro tutti i tedeschi sono nazisti e criminali di guerra. E i pregiudizi tra i popoli non creano assonanze ma antagonismi, chiusure, demarcazioni che circoscrivono i particolarismi culturali, storici e mentali.


Maurizio Ferraris
Ferguson condivide con Swartz questa visione prospettica dei nord-europei che distingue il settentrione dal mezzogiorno d’Europa, storicamente separati da “una linea di frattura religiosa”. Al contempo, però, disegna uno scenario futuro dove l’unione tra latini e germanici addirittura si fa anche politica. È mai attendibile questa previsione? E lui ci crede davvero? Egli lo definisce “un divertissment, un pezzo satirico”, poi subito dopo però aggiunge che “la satira contiene anche una buona misura di verità”. L’ideale è sposarsi per amore, ma spesso lo si fa per convenienza. Persino per disperazione. Il filosofo torinese Maurizio Ferraris, teorico del New Realism, non vede alternativa. Egli auspica che i singoli Stati europei cedano gradualmente la propria sovranità per uniformarsi sotto un impero a guida germanica. “Mussolini, alle prese con gerarchi che rubavano e soldati che scappavano, aveva giustamente osservato che governare gli italiani è inutile”. Partendo da questa constatazione, dal fatto che gli italiani per ragioni storiche sono privi di senso dello Stato, che per il loro esasperato individualismo riescono a raggiungere l’eccellenza solo come imprenditori del crimine organizzato, insomma corrotti come sono, possono solo sperare che li governino gli stranieri. E che non siano altri latini, perché non sono in fondo così diversi. L’ideale sono proprio i tedeschi, ligi al senso dello Stato e che hanno prodotto statisti del calibro di Adenauer, Brandt, Schmidt, o persino la Merkel. È una visione analoga a quella di Ferguson, che prevede la risurrezione del Sacro romano impero a guida germanica (anche se chiamato Stati Uniti d’Europa) con capitale Vienna (al posto di Bruxelles) e presieduto da Carlo d’Asburgo, discendente della dinastia imperiale austriaca. Di fatto però guidato e quasi dominato dalla Germania.

La domanda di fondo, però, resta ancora senza risposta: persino ammettendo che per i latini qualunque condizione alternativa all’euro sarebbe comunque peggiore, rimane il fatto che la loro adesione ad una tale entità politica a guida tedesca sarebbe comunque viziata da un rapporto di disistima e di sospetto. Sarebbe una sorta di relazione sado-maso dove la parte maso toccherebbe agli inaffidabili europei di cultura cattolica. I PIGS si vedrebbero in qualche modo sorvegliati per contrastare la loro irriducibile tendenza a cedere all’evasione, alla corruzione, al clientelismo. Ma gli stessi partner centro-europei (che peraltro dalla moneta unica stanno traendo grossi vantaggi) si chiederebbero perché stringere una relazione così rischiosa e spossante con vicini di casa tanto diversi per ragioni culturali, storiche e mentali. Davvero non c’è alternativa al ritorno dell’Impero asburgico? Oltre al fatto che oggi questa non appare la tendenza verso cui si è diretti (ne parleremo nella prossima riflessione), esistono altre ipotesi che vanno comunque nel verso di un’ulteriore integrazione tra gli stati.