Attingendo dai contenuti del libro “IMPERO!”, questa settimana parleremo
del filosofo hegeliano Alexandre Kojève che già nel 1945 previde la
rinascita economica della Germania e la riduzione della Francia, in quel
momento potenza vincitrice, a socio junior della superpotenza tedesca.
Per scongiurare questo pericolo Kojève suggeriva all’élite politica
della Francia di evitare l’abbraccio fatale con le nazioni
anglo-germaniche e di adoperarsi per costruire una comunità sia
economica che politica con le altre nazioni latine.
Abbiamo
concluso la nostra ultima riflessione con un pensiero del filosofo
sociale Zdzisław Krasnodębski, il quale faceva notare che il ruolo di
primo piano assunto gradualmente dalla Germania ha ridotto la Francia a
socio junior del “direttorato” comunitario. I tedeschi quanto ad
autostima si sa non scherzano; essi sono il popolo eletto, baciato sin
dagli anni della Riforma dallo
Zeitgeist (lo spirito del tempo) che ne
fa un riferimento per le altre nazioni. Ma i francesi non sono da meno. E
nel secondo dopoguerra, quando il ruolo guida delle nazioni passò agli
Stati Uniti e all’Unione Sovietica, i francesi continuarono a mantenere
quella che il generale De Gaulle chiamava “une certaine idée de la
France” e a perseguire un ruolo di primo piano nel consesso delle
nazioni non solo in ambito politico, ma anche nell’economia, nella
cultura e nella “puissance de frappe” dell’arma nucleare. Con le sue
dipendenze d’oltremare nel Pacifico, nei Caraibi e nell’Oceano Indiano,
la Francia vanta la seconda più grande zona economica esclusiva nel
mondo, dopo gli Stati Uniti, con 11 milioni di chilometri quadrati. I
domini d’oltremare costano ai contribuenti francesi quasi 3 miliardi di
euro ogni anno: non poco in era di
spending review. Eppure la politica
d’oltremare è uno dei pochi argomenti che di fatto non trova opposizione
in parlamento. L’
esprit de grandeur, che non fa spiccare per simpatia i
cugini transalpini, con il loro atteggiamento un po’ supponente, è
espressione di quell’autostima che auspica per la Francia un ritorno ai
suoi antichi fasti e che non farà loro accettare passivamente il ruolo
di socio junior del “direttorato” comunitario. Ecco perché, quando
Krasnodębski afferma che “alcuni Stati membri si daranno da fare per
rafforzare la loro sovranità e formare diversi blocchi all’interno
dell’Unione”, non può non avere in mente ovviamente i Paesi del Nord
scandinavo o dell’Est europeo, il cosiddetto Gruppo di Visegrád, ma il
suo pensiero va soprattutto alla Francia.
 |
| Alexandre Kojève |
Scongiurare la
riduzione della Francia a “hinterland militare ed economico, e quindi
politico, della Germania”, fu un problema che si pose il filosofo
hegeliano Alexandre Kojève già nel 1945 quando licenziò un suo scritto
dal titolo “Esquisse d’une doctrine de la politique française”. Nipote
del pittore Vasilij Kandinskij, Kojève era russo di nascita ma
naturalizzato francese. Fuggito dopo la Rivoluzione d’ottobre aveva
frequentato l’università di Heidelberg, in Germania, e completato gli
studi a Parigi presso l’École Pratique des Hautes Études. Qui egli pure
insegnò, e dal 1933 al 1939 vi tenne un seminario sulla
Fenomenologia
dello spirito, di Hegel, divenuto leggendario perché formò la filosofia
francese, e non solo, del secondo Novecento. Un bel momento, su invito
di Robert Marjolin, un suo ex allievo, egli si convertì dalla carriera
accademica a quella amministrativa. Divenne funzionario d’alto livello
della DREE (
Direction des Relations Économiques Extérieures ) e mise il
proprio sapere al servizio dello Stato. Si potrebbe dire: il filosofo
che presta la propria conoscenza al “tiranno”, il consigliere segreto
del principe, nella fattispecie il generale De Gaulle, allora capo del
governo provvisorio francese. Kojève partecipò ai negoziati per la
creazione del GATT, ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione della
CEE e contribuì in modo significativo alle scelte politiche ed
economiche della comunità europea ed extra-europea. Disse di lui Bernard
Clappier, che succedette a Marjolin nelle guida della DREE: “Era il
terrore delle altre delegazioni, e questo perché la sua immaginazione
era molto feconda, e non aveva alcuna remora a esprimere ogni sorta
d’argomentazione difficile da controbattere. Quando le altre delegazioni
vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare da
solo, era il panico. Era l’apoteosi della sua carriera amministrativa e
nello stesso tempo l’apoteosi della sua dialettica, poiché in quel
momento dominava completamente il suo gioco. Era veramente
un’intelligenza eccezionale”. Fu in questa veste che egli scrisse
l’
Esquisse d’une doctrine de la politique française. Destinato quindi
non alla pubblicazione ma come memorandum ad uso degli alti vertici
dello Stato. Qual era il contenuto di questo documento e perché lo
abbiamo incluso nel nostro discorso?
L’analisi di Kojève
abbracciava l’Europa e il mondo intero sino alla cosiddetta conclusione
della storia, ma la sua preoccupazione partiva dalla Francia, sua terra
d’adozione. Anzi, erano due le preoccupazioni che egli espose all’inizio
del suo scritto. La prima, più remota, riguardava lo scoppio di una
terza guerra mondiale in cui il suolo francese sarebbe potuto divenire,
come spesso era accaduto, campo di battaglia di potenze straniere.
Stavolta di russi e anglosassoni in guerra tra loro. L’altra
preoccupazione, più concreta e vicina, si riferiva alla crescita del
potenziale economico della Germania che si sarebbe tentato di rendere
democratica e pacifica, ma la cui integrazione all’interno del sistema
europeo avrebbe fatalmente ridotto la Francia al rango di potenza
secondaria. Consideriamo che il saggio fu scritto nell’agosto del 1945,
quando i russi erano ancora alleati degli anglo-americani e il Terzo
Reich era ridotto a un immane cumulo di macerie, per giunta spartito tra
le quattro potenze vincitrici. Eppure già allora Kojève prevedeva che
la Germania sarebbe presto ritornata ad essere la prima potenza
economica europea manifestando nuovamente una volontà egemonica che
avrebbe mortalmente schiacciato, anche sul piano politico, la Francia e
gli altri Paesi latini. Inoltre nel giro di dieci o quindici anni la
potenza economica e militare dell’URSS avrebbe richiesto e provocato “la
nascita di un contrappeso in Europa”; come dire la guerra fredda con la
contrapposizione di due blocchi, orientale e occidentale. E quando la
guerra fredda divenne una realtà, egli percepì che il vero asse del
conflitto era destinato a spostarsi dalla contrapposizione est-ovest a
quella nord-sud. È stupefacente quanto sia lucida l’analisi geopolitica
di Kojève, persino profetica, considerando ciò che stiamo vivendo in
questi anni e quanto diversi fossero gli scenari nei lontani giorni in
cui fu sviluppata. Tenendo conto di quest’acuta percezione del futuro,
sarebbero quindi da leggere con attenzione anche gli eventi previsti non
ancora accaduti e i rimedi da lui proposti.
Kojève parte dalla
constatazione che l’epoca degli Stati-nazione è giunta alla sua
conclusione. Essi hanno segnato la storia d’Europa soppiantando le
formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali. Hanno
rappresentato lo spartiacque tra il medio evo e l’età moderna. Ma oggi,
diremmo con de Benoist, lo Stato-nazione è diventata un’istanza di
mediazione inefficace tra le tendenze centrifughe di regionalismi e
irredentismi etnolinguistici dal basso e la pressione dei mercati
mondiali dall’altro. In realtà, afferma Kojève, lo Stato-nazione è
sempre stata un’entità inadeguata e gli ultimi cinque secoli di guerre e
tragedie europee lo dimostrano. Oggi però la sua inadeguatezza è
diventata pienamente evidente. Ne è prova lampante il crollo della
Germania nazista che ha tentato con uno sforzo supremo di estendere i
propri confini nella forma esclusiva di Stato-nazione. Esso infatti non
può integrare gli stranieri, non può aggregare popoli diversi, al
contempo però ha bisogno delle loro risorse in quanto un singolo popolo,
per quanto potente, non può permettersi i costi di una guerra moderna, e
allora non gli resta che trattarli politicamente come schiavi a
discapito della coesione di cui una compagine socio-politica necessita
per sussistere e perseguire obiettivi comuni.
Ma allora, se
adesso lo spirito del tempo abbandona gli stati nazionali su cosa tende a
posarsi? Basta già osservare – afferma Kojève – chi ha vinto la guerra
contro le forze dell’Asse, ovvero gli USA, il Commonwealth britannico e
l’URSS che sono tutte entità pluristatuali, per averne un’indicazione
significativa. Entità alleate contro il nazional-socialismo ma
ideologicamente e culturalmente tra loro antagoniste. Da un lato
l’imperial-socialismo dell’impero slavo-sovietico, e dall’altro le
liberal-democrazie del British Commonwealth, altra struttura imperiale
che si sarebbe ulteriormente coesa nel confronto est-ovest che presto
avrebbe avuto luogo. Ecco, il Weltgeist hegeliano, che ha abbandonato le
Nazioni, adesso soggiorna negli Imperi. Se si fatica a riconoscere
questa nuova realtà è a causa dei difetti visivi di cui sono affette le
due ideologie dominanti: il liberalismo borghese e l’internazionalismo
socialista. Il liberalismo soffre di miopia perché non concepisce entità
politiche sovranazionali. Affermando il primato della società di
individui, ritiene già soffocante l’autonomia politica dello
Stato-nazione; figuriamoci quella di un Impero. All’opposto,
l’internazionalismo umanitario sostenuto da Trockij teorizzava il
trasferimento della sovranità delle nazioni direttamente all’umanità. Il
socialismo era pertanto – secondo Kojève – ipermetrope, perché non
scorgeva entità politiche al di qua dell’umanità. Anche Kojève
preconizza la nascita del governo mondiale, ovvero dell’umanità
politica; ma vede questo punto d’arrivo come mediato da un passaggio
intermedio: quello degli imperi. Passaggio che il liberalismo e il
socialismo non riescono a scorgere perché, auspicando rispettivamente la
riduzione dello Stato a mera entità amministrativa o il passaggio dallo
Stato all’Umanità, non capiscono che “non è possibile saltare dalla
nazione all’umanità senza passare per l’impero”. Pragmaticamente,
tuttavia, nonostante le ideologie, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione
Sovietica hanno intuito tale cambiamento muovendosi verso la
costituzione degli imperi russo-slavo e anglosassone che, nonostante le
differenze ideologiche che li contrappongono, possiedono una
caratteristica che li accomuna e che rende appunto “imperiali” le due
compagini.
Ciò che caratterizza al suo interno un impero, questa
unità politica transnazionale, non sono le differenze – contrariamente a
ciò che si potrebbe pensare – ma gli elementi che accomunano. L’impero
non aggrega ciò che distingue ma ciò che tende a convergere. Una vera
unione “imperiale”, coesa ed efficace nella propria azione politica deve
associare nazioni imparentate. Kojève adopera qui il temine
“appartentées”, che nella traduzione italiana viene resa appunto con
“imparentate”, ma che si potrebbe altrettanto bene tradurre con
“simili”, “affini”. L’impero può aggregare solo nazioni simili per
lingua, civiltà, religione e mentalità. E presto o tardi tutti gli
Stati-nazione saranno assorbiti dagli imperi in formazione sulla base di
tale criterio. Infatti la Germania secondo lui finirà per aderire
all’impero anglosassone in virtù della comune fede e cultura
protestante. La cultura religiosa secondo Kojève è un importante
elemento di discrimine e di aggregazione. Persino l’impero
slavo-sovietico, ideologicamente ateo, trova utile cercare l’appoggio
della Chiesa ortodossa a fini identitari. Per non dire dell’impero
anglosassone dove la cultura protestante è così rilevante da stare alla
base del suo straordinario progresso economico. E qui è chiaro il
riferimento a Max Weber e alla sua opera “L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo”. Per quanto le nostre società secolarizzate
tendano a sottovalutarla, la religione rimane un imprescindibile
elemento di discrimine nella costituzione degli imperi. “Sembra dunque –
conclude Kojève – che le due formazioni imperiali moderne traggano
parte della loro coesione e dunque della loro potenza da un’associazione
più o meno ufficiale con le Chiese corrispondenti”.
A questo
punto si pone il problema di dove collocare la Francia e le altre
nazioni latine. A quale dei due imperi dovrebbero aderire? L’impero
slavo-sovietico è da escludere in partenza perché troppo distante da
ogni punto di vista: ideologico, etnico, culturale e religioso. Ma anche
quello anglosassone presenta poche affinità, persino meno di quel che a
prima vista potrebbe sembrare per la comune collocazione nell’Occidente
europeo. Una reale integrazione in quest’impero, tranne che perdendo
del tutto la loro identità, sarebbe impraticabile ed esse vi si
collocherebbero come un corpo più o meno estraneo, a malapena tollerato e
passivamente eterodiretto. Inoltre dovrebbero convivere con la potente
Germania: un rapporto impari e letale sia da un punto di vista economico
che politico. D’altra parte non è neppure pensabile che esse non si
aggreghino e restino nella condizione di Stati-nazione, con la
prospettiva ugualmente di perdere rilevanza e di finire schiacciate e
colonizzate dagli imperi.
E allora ecco la proposta di Kojève,
l’unica soluzione che consentirebbe alle nazioni latine di sedere con
pari dignità nel rinnovato consesso delle nazioni. La Francia dovrà
porsi alla testa di un progetto analogo a quello che ha portato alla
formazione dei due imperi anglo-americano e sovietico per dar vita ad un
terzo impero, quello “latino”. Per far ciò dovrà soprattutto
coinvolgere le altre due grandi nazioni latine che si affacciano sul
Mediterraneo, ovvero la Spagna e l’Italia. In seguito potranno
aggregarsi pure gli altri Paesi latini a cominciare dal Portogallo.
L’unione che verrebbe a crearsi sarà naturalmente anche economica e
finanziaria ma al contempo sarà ben lontana dal liberalistico primato
dell’economico sul politico. Anzi, uno dei suoi obiettivi dovrebbe
proprio essere quello di superare i limiti del liberalismo anglosassone e
dello statalismo sovietico che caratterizzano gli altri due imperi. Ma
l’unione economica, pur essendo imprescindibile, non sarà la ragion
d’essere dell’impero latino. Il fine ultimo di quest’unione sarà
politico e dovrà essere generata da un’ideologia specificamente politica
che deve mirare all’indipendenza e all’autonomia. A tal scopo l’impero
latino avrà un’unica politica estera e avrà un unico esercito: forte ma
limitato alla sola funzione difensiva. La potenza dei latini sebbene non
possa eguagliare quella degli altri imperi sarà comunque sufficiente
per imporre la sua neutralità e proteggere le proprie aree d’influenza, a
cominciare dal Mediterraneo che sarà nuovamente
Mare Nostrum. Solo
mettendosi alla testa di un tale impero la Francia potrebbe mantenere la
propria specificità politica e culturale.
Sulle macerie ancora
fumanti del Reich tedesco e dell’ideologia che lo aveva sostenuto,
Kojève ci tiene a precisare che l’affinità tra nazioni non ha nulla a
che vedere con le idee sulla razza ma è un “fattore politico
primordiale” che riguarda la lingua, la mentalità e la religione. Quanto
a questa, egli indica la comunità di intenti, l’isomorfismo
strutturale, che presentano gl’imperi in formazione e le Chiese
cristiane tra loro separate: gli uni perché trovano coesione nella
condivisione di una comune religione, le altre perché si riconoscono
inserite più adeguatamente in una cornice imperiale che è compagine
intermedia tra l’umanità e le nazioni. Nell’impero latino, ovviamente,
il patrocinio spirituale verrebbe acquisito dalla Chiesa cattolica.
Anzi, l’unità e la coesione di questa Chiesa (formatasi peraltro in un
contesto imperiale) non fanno che attualizzare il richiamo alla
fondazione di un impero cattolico il quale non può che essere latino.
Quanto alla mentalità che accomuna le nazioni latine e le caratterizza
da un punto di vista culturale, Kojève indica “quell’arte del tempo
libero che è l’origine dell’arte in generale” e darebbe specificità
all’Occidente latino unificato. Sarebbe un aspetto identitario omogeneo e
risalterebbe per eccellenza rispetto alla produzione degli altri due
imperi. È grazie a questa specificità antropologico-culturale, osserva
oggi il filosofo del diritto Danilo Zolo, che l’area mediterranea “vanta
la più grande concentrazione artistica del mondo”. Ma questo lavoro
produttivo e fecondo è strettamente connesso alla mentalità del “doceur
de vivre”, tipica dell’area latino-mediterranea, del “dolce far niente”
che altre culture hanno difficoltà a comprendere. Tale mentalità non
andrà compressa bensì indirizzata, ed anzi costituirà uno degli aspetti
caratterizzanti della transizione finale verso la fine del Tempo umano.
Proprio nell’impero latino Kojève intravede l’accelerazione verso la
fine della Storia. Tema su cui avremo occasione di tornare.
 |
| Giorgio Agamben |
Il
saggio scritto da questo maestro “occulto” del Novecento, è stato
ripreso recentemente dal filosofo italiano Giorgio Agamben. Il 15 marzo
2013
Repubblica pubblicò un suo articolo dove egli invitava a riflettere
sulle parole di Kojève. La sua previsione sull’egemonia economica della
Germania si era puntualmente realizzata, riducendo la Francia al rango
di una potenza secondaria all’interno dell’Europa continentale. Con la
globalizzazione gli stati-nazione mostrano tutta la loro inadeguatezza
ma l’Unione europea che si è formata ignorando le concrete parentele
culturali esistenti tra gli stati membri è paralizzata dalle sue
contraddizioni. Nel nome d’una pretesa unità si sono semmai accentuate
le sue differenze. “Un’Europa che pretende di esistere su una base
esclusivamente economica, lasciando da parte le parentele reali di forma
di vita, di cultura e di religione, mostra oggi tutta la sua fragilità,
proprio e innanzitutto sul piano economico.” Essa s’è ridotta a imporre
ad una maggioranza più povera gl’interessi di una minoranza più ricca
che coincidono spesso con quelli della sola Germania. È un percorso
insostenibile che, come molti segni lasciano prevedere, porterà alla
disgregazione dell’Europa. E allora perché non riflettere sulla proposta
di Kojève di riarticolare la costruzione europea tenendo conto delle
parentele culturali e dar vita a qualcosa di simile a ciò che egli
chiamava l’
Impero latino? Se non altro, visto che comunque adesso vi
sono coercizione e trasferimento di sovranità, anziché l’attuale
coacervo di istanze e interessi contrapposti, vi sarebbe una forza
consapevolmente unita.
La provocazione di Agamben ha suscitato
interesse e dibattito in Europa, soprattutto in Francia e in Germania.
La prima perché patria adottiva di Kojève e chiamata all’azione dal suo
progetto. La seconda perché – nonostante sia il motore economico
dell’Europa – viene clamorosamente esclusa da questo progetto. Al
Frankfurter Allgemeine Zeitung che lo ha intervistato, egli ha spiegato
che oggetto della sua critica non è la Germania ma il modo in cui
l’Unione europea è stata costruita; e se la Germania è stata chiamata in
causa è avvenuto perché essa, nonostante la sua posizione dominante,
appare incapace di fare proposte utili per uscire dall’empasse, di
concepire un’Europa fondata su qualcosa di più che l’euro e l’economia.
La proposta di Agamben è invece passata quasi inosservata in Italia,
quantunque essa viva questo problema d’integrazione e sia parte in causa
nel progetto d’Impero latino. Qualche perplessità è giunta dal mondo
accademico. L’epistemologo Michele Marsonet, ad esempio, dopo avere
ammesso che sotto certi aspetti il saggio di Kojève è un testo profetico
perché predice tutta una serie di eventi geopolitici che si sono
effettivamente realizzati, si chiede tuttavia come sia possibile la
nascita di un impero latino guidato dalla Francia. E si chiede come
Agamben, che può contestualizzare quella lontana proposta nella realtà
presente, possa ritenere attuabile un progetto di questo tipo. Il
patrimonio culturale comune tra le nazioni latine, certo esiste ma è
così forte da spingere all’unificazione? E la stessa Francia che
dovrebbe realizzare il progetto, si sentirebbe così tanto in sintonia
con i cugini latini? Essa che li ha sempre guardati dall’alto in basso, e
per varie ragioni – storiche, culturali e persino etniche – è una sorta
di Giano bifronte che guarda a Sud come a Nord, “direzione geopolitica
nella quale si sente altrettanto coinvolta”. E poi è così scontato che
gli altri “latini” guarderebbero con più condiscendenza ad un’egemonia
francese rispetto a quella tedesca? In qualche modo, tuttavia, Marsonet
si dà una risposta quando ricorda che l’appello di Kojève non era
genericamente rivolto alla Francia ma ad una persona, ovvero al generale
De Gaulle che il destino della Francia in quel momento storico teneva
in pugno. Kojève non dubitava che la sua proposta avrebbe incontrato
delle resistenze, persino incomprensione e disattenzione. La Francia
avrebbe faticato a riconoscere la “fine del periodo nazionale della
storia”, e sarebbe passata per un periodo di perdita della volontà
politica ed una conseguente decadenza sotto il piano sociale, economico e
culturale. Ma egli aveva anche descritto tra le qualità che distinguono
il vero leader (nel suo saggio
Notion de l’autorité) quella forma di
autorità già teorizzata da Aristotele che è la capacità di prevedere e
progettare l’avvenire. E di fronte a minacce esterne gravi e
destabilizzanti solo un grande leader avrebbe potuto coagulare attorno a
sé il necessario consenso per tradurre in realtà il progetto imperiale.
Come dire che non potrà esservi Impero latino senza un “imperatore” che
ne accompagni la gestazione, così come non ci sarebbero stati gli
imperi sovietico e anglo-americano senza il “genio politico” di Stalin e
Churchill.