Da italiano non posso evitarmi di associare il concetto di Stato-nazione alla nostra travagliata storia risorgimentale. Dall’impresa dei trecento posta in versi da Luigi Mercantini al “Tiremm innanz!”, pronunciato da Amatore Sciesa mentre veniva condotto a morte dal “gendarme austriaco”. E quanti comuni non hanno una strada o una piazza intitolata a Garibaldi, il protagonista dell’impresa dei Mille, l’episodio cruciale del Risorgimento? Tanto sangue fu versato perché la nazione italiana coincidesse con lo Stato, e da questo sacrificio viene la più sacra legittimazione all’entità stato-nazionale italiana. Per tale ragione alcuni vedono nello Stato-nazione la grande realtà politica prodotta nel XIX secolo quando avvengono le grandi unificazioni, in particolare quelle italiana e tedesca. Di quegli anni è anche l’affermazione del capitalismo che trovò nello Stato borghese ottocentesco la sua cornice ideale di sviluppo. Lo Stato-nazione moderno scaturisce dal romanticismo ma possiede anche un’anima materialista, profondamente intrecciata alla storia del capitalismo moderno che finì per coniugare il patriottismo con l’egoismo e l’aggressività nei rapporti internazionali. E sempre nel XIX secolo, ci ricorda Sartori, prende forma lo Stato che noi conosciamo in quanto complesso e vastissimo insieme di strutture di comando, di amministrazione e di legislazione sostenuto da una varietà d’apparati.
Nonostante questi importanti elementi costitutivi ottocenteschi dello Stato-nazione, i più ne individuano la vera nascita nel XVII secolo, e precisamente nel 1648, con il Trattato di Westfalia che pose fine alla Guerra dei Trent’anni. È da quel momento infatti che le pretese universalistiche del Sacro romano impero vengono definitivamente frustrate e si va delineando l’identità perfetta tra Stato, nazione e sovranità. Da allora queste entità al contempo politiche, territoriali e culturali decisero di riconoscersi l’un l’altra nella loro qualità di sovrani assoluti sui propri territori. Senza il consenso degli Stati dell’Impero riuniti in dieta nulla poteva essere deciso: né la pace né la guerra, né la riscossione delle tasse né la dislocazione degli eserciti. Persino la religione passava sotto il controllo degli Stati e non poteva più essere imposta dall’esterno. I privilegi di stampo feudale della Chiesa e il Diritto canonico, fino ad allora legge universale per gli Stati cattolici, cominciarono ad esser messi in discussione.
La Guerra dei Trent’anni nacque come confitto religioso tra cattolici e protestanti. La Pace di Westfalia che ne seguì spense i conflitti religiosi in seno all’Europa, ma con la nuova architettura internazionale che delineò mise al posto delle religioni le nazionalità. Dove stava il punto debole di questa nuova impostazione? Fino ad allora lo Stato aveva provveduto alla protezione giuridica di tutti gli abitanti del territorio a prescindere dalla nazionalità. La coscienza nazionale spinse invece a restringere tale funzione ai soli appartenenti alla comunità nazionale, a coloro, cioè, che condividevano suolo, sangue, fede e lingua. In tal modo lo Stato si trasformò da strumento del diritto in strumento della nazione. Con espressione suggestiva Hanna Arendt definì il nazionalismo come la conquista dello Stato da parte della nazione. E per rendere completa questa conquista si fece ricorso al richiamo della patria, concetto di origini antichissime dalle forti suggestioni emotive, il sommo bene verso cui indirizzare le più totalizzanti espressioni d’amore, devozione e fedeltà dei sudditi. In tal modo la Pace di Westfalia, mentre spegneva i conflitti religiosi, partoriva nuovi mostri: gli Stati Leviatani, con sovranità assolute e nazionalismi sempre più aggressivi. Adesso non si combatteva più in nome di Dio e della Chiesa bensì per difendere lo Stato sovrano e deificato la cui missione era quella di affermare e rafforzare se stesso. Da Westfalia al 1945 l’Europa continuò ad essere devastata dai conflitti scatenati dai nuovi mostri, con ferocia immutata, per l’egemonia sul continente.
Lo Stato-nazione fu l’espediente, l’unico a quei tempi concepibile, per contenere e domare la prepotenza e la riottosità feudale, le pretese imperiali e le intrusioni della Chiesa. A costo, però, di attribuirgli poteri assoluti che i nazionalismi rivestirono d’un alone sacro e incontestabile. E d’altra parte lo stesso nazionalismo si rivelò essere l’unico nesso efficace in particolare tra la società individualistica del XIX secolo e lo Stato centralizzato. Nulla più della comune origine poteva rappresentare la comunanza d’interessi per altri versi molto frammentati per classi sociali e per gruppi. Potremmo quindi definire lo Stato-nazione un male minore, ma pur sempre un male. L’IDOLO dell’Europa in guerra. Venerato ciecamente da ogni ideologia politica, dalla destra alla sinistra estreme, per creare uno stato autoritario o democratico, capitalista o socialista, non importa, comunque l’idolo con le sue liturgie, la sua escatologia e il suo tributo di vittime sacrificali che giustificava persino le ecatombi più efferate.
I due grandi conflitti del Novecento vengono talvolta considerati come un unicum (1914-1945) perché l’uno scaturì dall’altro, e tale unicum viene anche denominato la seconda Guerra dei Trent’anni per un richiamo con la prima, combattuta tre secoli prima, non solo per la durata (1618-1648) ma perché le si vede collegate: la prima come apertura e la seconda come chiusura di un ciclo. Il ciclo degli Stati-nazione elevati ad un’assoluta sovranità di cui fecero un pessimo uso.
Ciò significa che dopo il ’45 è tramontato il tempo degli Stati-nazione? Non esattamente, perché l’architettura internazionale continua a fondarsi sugli Stati nazionali. La stessa ragione per cui essi furono stabiliti continua a sussistere. Gli Stati indipendenti e sovrani furono voluti per consentire al sistema europeo di mantenersi in equilibrio tramite il rispetto – per dirla con lo storico Ludwig Dehio – di un unico imperativo fondamentale: “Evitare l’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia di uno di loro”. Ci hanno provato Napoleone e Hitler a violare questo patto ma gli altri Stati si sono coalizzati per ostacolare il loro tentativo. Finora questo imperativo ha sempre tenuto. Gli Stati-nazione europei sono realtà fortemente radicate e definite. Sono tanti e affastellati. Si contano in 42 escludendo la Russia, il 20% del totale mondiale, ma occupano appena il 4% delle terre emerse. Da nessuna parte v’è una concentrazione di Stati come nel “sub-continente” europeo, ma tutti ormai ben definiti (o quasi) per lingua e cultura. E qui sta il loro dramma. La loro contraddizione. Sono imprescindibili e al contempo insignificanti. Rappresentano solo il 7% della popolazione mondiale. Dall’ultimo dopoguerra le decisioni politiche si prendono altrove. Per non parlare di quelle economiche che, sia pur con i dovuti distinguo, vengono semplicemente subite.
Già nell’Ottocento si cominciò a riflettere su una nuova organizzazione internazionale che prevedesse il superamento più o meno radicale dello Stato-nazione e delle sue contraddizioni. Nel 1918, a cannoni ancora fumanti, Luigi Einaudi diede una lettura significativa della guerra mondiale che interpretò come manifestazione dell’esigenza di unità dell’Europa, “lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore” rispetto, appunto, agli Stati nazionali. La riflessione di Einaudi è molto interessante perché rappresenta l’elaborazione del pensiero europeista formatosi in Inghilterra tra l’Ottocento e il Novecento. Un pensiero profondo, limpido e per certi versi profetico, oltre che stupefacente per l’origine, in questi lunghi anni di euroscetticismo britannico culminato con la Brexit. Svilupperemo questo tema quando parleremo di Altiero Spinelli.


Nessun commento:
Posta un commento