"Con il nazionalismo si corre sempre il rischio che la situazione perda
il controllo. Il nazionalismo ha sempre in sé un elemento irrazionale.
Le ideologie non stanno ferme: montano, crescono. Se il nazionalismo
fosse solo un sentimento personale, lo si potrebbe vivere anche in un
altro modo. Ma nel momento in cui si trasforma in ideologia diventa
pericoloso". La considerazione è del Premio Nobel per la letteratura
Herta Müller. È naturale che la parola “nazionalismo” susciti sensazioni
d’inquietudine date le nefandezze a cui è inevitabile associarla. È
persino arduo pensare che all’inizio essa non avesse connotazioni
negative. Eppure è così. La elaborò il Romanticismo a cavallo tra il
‘700 e l’800 in contrapposizione al cosmopolitismo illuminista che, in
nome della ragione, dichiarava uguali tutti gli uomini ma non teneva
conto delle inevitabili differenze, sia pur solo culturali, che
distinguono i singoli uomini e le comunità in cui essi vivono. Il
Romanticismo rivendicava il diritto dei popoli a difendere la loro
individualità, le loro tradizioni, gli usi e i costumi particolari. Di
conseguenza introdusse sentimenti e ideali di libertà, indipendenza e
insofferenza alla dominazione straniera. Il nazionalismo romantico
avanzava queste rivendicazioni senza spirito di superiorità e disprezzo
nei confronti degli altri popoli. Anzi, con senso di fratellanza
auspicava e si batteva perché anche gli altri potessero affermare la
loro individualità ed emanciparsi da ogni forma d’oppressione. La
pensava così Garibaldi e lo dimostrò con il proprio agire. “Tutte le
nazioni sono sorelle”, affermò l’Eroe dei due mondi. “Esse non hanno
cupidigie, ambizioni liberticide; ciascuno vuole la sua parte di terra e
di sole; ciascuna aiuterà le altre a ottenerla. È dovere dei popoli
liberi, e che vogliono essere tali, di accorrere dovunque si combatte
per i diritti delle nazioni, dovunque s’innalza la bandiera della
libertà”. Oggi che le nazioni europee coincidono quasi del tutto con gli
Stati sovrani, l’ottocentesco nazionalismo romantico potrebbe
assimilarsi a quello che alcuni chiamano “nazionalismo civico”, quel
senso d’identità che non si basa sulla forma dei crani o sul colore
degli occhi, sul concetto di sangue e di comune discendenza che
caratterizza invece il cosiddetto “etnonazionalismo”. Ma si basa
sull’appartenenza ad una nazione come scelta libera, come volontà di
aggregazione ad una comunità. E al contempo ben sapendo, per usare le
parole di Goethe, che “al di sopra delle nazioni è l’umanità”. Questa
forma di nazionalismo, basata sul rispetto della propria cultura e delle
altrui culture quando non trascendono nell’intolleranza, è legittima ed
è sbagliato svalutarla o, ancor peggio, demonizzarla.
Sappiamo però anche in cosa si trasformò il nazionalismo romantico quando i popoli europei poterono realizzare le loro aspirazioni di libertà: in imperialismo nazionale. La solidarietà tra i popoli e le nazioni in formazione nella seconda parte del XIX secolo andò rapidamente mutandosi in una corsa alla potenza, in aggressività e prevaricazione delle nazioni più forti sulle più deboli. L’unificazione di Italia e Germania coincise con l’avvio della seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da un imponente sviluppo della produzione manifatturiera e dall’affermazione del sistema capitalistico secondo il modello liberista. Questo sviluppo si bloccò nei primi anni 70 dell’800 a causa di una grave crisi da sovrapproduzione. Le industrie, cioè, producevano di più di quel che il mercato poteva assorbire. Ciò portò alla caduta dei prezzi, dei salari, a una diffusa disoccupazione e ad una ulteriore contrazione dei consumi. Si cercarono allora dei correttivi; ne parleremo più diffusamente nel libro. Qui ne citeremo due che videro chiamare direttamente in causa lo Stato: l’attivazione di commesse pubbliche dei prodotti nazionali, soprattutto nel comparto militare, e l’innalzamento di barriere doganali per favorire i prodotti interni. In tal modo la concorrenza dal mercato interno si trasferì a quello esterno, provocando una sfrenata concorrenzialità tra le nazioni. Vi fu anche una corsa al colonialismo, la conquista armata di territori extraeuropei per piazzare i propri manufatti e ricavare materie prime e manodopera a basso costo. In pochi decenni svanì come un sogno ogni proclamazione di nazionalismo romantico e del suo ideale corollario di un’umanità unita in una confederazione di nazioni solidali. Al contrario in quegli anni si gettarono le basi economiche ma anche ideologiche che portarono alla nascita dei nazionalismi più sfrenati, primo tra tutti il nazionalsocialismo tedesco, e si crearono le premesse per lo scoppio dei due terribili conflitti mondiali del nuovo secolo. Ecco così che la comparsa degli Stati-nazione anziché assicurare pace tra i popoli produsse la cattiva bestia del nazionalismo, d’un malinteso amore per la patria. Come osservò de Lévis, “se dal patriottismo della maggior parte degli uomini si togliessero l’odio e il disprezzo per le altre nazioni, ne rimarrebbe poca cosa”. Alla base di quanto abbiamo detto si pone lo Stato-nazione e “il mito – come lo definì Luigi Einaudi – della sovranità assoluta degli Stati”. Sarà questo l’oggetto della prossima riflessione.
Sappiamo però anche in cosa si trasformò il nazionalismo romantico quando i popoli europei poterono realizzare le loro aspirazioni di libertà: in imperialismo nazionale. La solidarietà tra i popoli e le nazioni in formazione nella seconda parte del XIX secolo andò rapidamente mutandosi in una corsa alla potenza, in aggressività e prevaricazione delle nazioni più forti sulle più deboli. L’unificazione di Italia e Germania coincise con l’avvio della seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da un imponente sviluppo della produzione manifatturiera e dall’affermazione del sistema capitalistico secondo il modello liberista. Questo sviluppo si bloccò nei primi anni 70 dell’800 a causa di una grave crisi da sovrapproduzione. Le industrie, cioè, producevano di più di quel che il mercato poteva assorbire. Ciò portò alla caduta dei prezzi, dei salari, a una diffusa disoccupazione e ad una ulteriore contrazione dei consumi. Si cercarono allora dei correttivi; ne parleremo più diffusamente nel libro. Qui ne citeremo due che videro chiamare direttamente in causa lo Stato: l’attivazione di commesse pubbliche dei prodotti nazionali, soprattutto nel comparto militare, e l’innalzamento di barriere doganali per favorire i prodotti interni. In tal modo la concorrenza dal mercato interno si trasferì a quello esterno, provocando una sfrenata concorrenzialità tra le nazioni. Vi fu anche una corsa al colonialismo, la conquista armata di territori extraeuropei per piazzare i propri manufatti e ricavare materie prime e manodopera a basso costo. In pochi decenni svanì come un sogno ogni proclamazione di nazionalismo romantico e del suo ideale corollario di un’umanità unita in una confederazione di nazioni solidali. Al contrario in quegli anni si gettarono le basi economiche ma anche ideologiche che portarono alla nascita dei nazionalismi più sfrenati, primo tra tutti il nazionalsocialismo tedesco, e si crearono le premesse per lo scoppio dei due terribili conflitti mondiali del nuovo secolo. Ecco così che la comparsa degli Stati-nazione anziché assicurare pace tra i popoli produsse la cattiva bestia del nazionalismo, d’un malinteso amore per la patria. Come osservò de Lévis, “se dal patriottismo della maggior parte degli uomini si togliessero l’odio e il disprezzo per le altre nazioni, ne rimarrebbe poca cosa”. Alla base di quanto abbiamo detto si pone lo Stato-nazione e “il mito – come lo definì Luigi Einaudi – della sovranità assoluta degli Stati”. Sarà questo l’oggetto della prossima riflessione.

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