Anticipando i contenuti del libro “IMPERO!”, questa settimana parleremo del calcolo errato degli statisti europei degli anni Novanta di voler anteporre l’unione monetaria a quella politica. Essi sapevano bene che un sistema solo monetario non avrebbe retto alla prova dei fatti ma erano convinti che l’inevitabile crisi avrebbe costretto anche i più recalcitranti ad accettare l’integrazione politica. “L’Europa si fa nelle crisi”, aveva affermato Jean Monnet, uno dei padri fondatori. Invece proprio l’unione solo economica e monetaria si è rivelata una formula estremamente divisiva tra gli stati membri e nei confronti della UE, e che ha profondamente modificato – secondo l’economista francese Jacques Sapir – le istituzioni in direzione antidemocratica, producendo l’austerità come figlia legittima e diletta dell’euro.
Beppe Severgnini, riguardo all’Europa, è un inguaribile ottimista. Non ignora i continui ostacoli che incontra l’integrazione del continente, con particolare riferimento alla crisi della moneta unica (per volerci limitare a questa). Ma egli afferma anche che “sono proprio le crisi – lo dimostra la storia – il carburante d’Europa”, evidentemente richiamandosi al pensiero di Jean Monnet (uno dei padri fondatori) secondo il quale “l’Europa si fa nelle crisi”. Analoga nel significato è un’altra espressione usata dal noto editorialista: “La costruzione europea procede per spaventi”. Questo lo sapevano benissimo gli statisti europei degli anni Novanta quando avviarono il progetto dell’Unione monetaria. Essi erano pienamente consapevoli che un sistema solo monetario è incompiuto e instabile, e che lasciato in questi termini esso non sarebbe stato sostenibile. Erano convinti che l’inevitabile crisi avrebbe generato una pressione politica verso una maggiore integrazione europea. Il cancelliere tedesco Helmut Kohl lo disse esplicitamente al Parlamento europeo: “L’Unione politica è la controparte essenziale dell’Unione monetaria”. Essi sapevano che tentare di anteporre all’Unione monetaria l’Unione politica, con una vera unione bancaria, una politica economica coordinata e una comune fiscalità avrebbe rinviato il progetto alle calende greche, e allora hanno scommesso sulla capacità degli europei di attuare i necessari provvedimenti quando le difficoltà si sarebbero fatte insostenibili. Ma hanno perso la scommessa. Allora, se essi sono partiti da due presupposti entrambi corretti, viene da chiedersi, come si spiega questo fallimento?
Probabilmente perché gli ostacoli, pur individuati,
non sono stati analizzati con la dovuta attenzione. Certo, è anche vero
che la situazione geopolitica nel frattempo è cambiata in forme
inattese, quanto meno nell’intensità o nell’accelerazione presa dagli
eventi: la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie, la
globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, la recessione. La
fine della contrapposizione con il blocco comunista ha fatto riemergere
altre antitesi, più antiche e profonde. In breve tempo il ruolo di
periferia è passato dall’Europa postcomunista al meridione europeo. La
Germania ha ritrovato una dignità e una consapevolezza fortemente
appannate dalla disfatta del regime hitleriano. E poi le varie tempeste
planetarie di natura economica e finanziaria che hanno soffiato con
violenza sul nostro continente e hanno reso evidenti tutte le
contraddizioni di un’unione limitata alla sola moneta e al libero
mercato. Ed è questo il punto: tutte queste sollecitazioni esterne
avrebbero fatto da catalizzatore e da cartina di tornasole, evidenziando
contraddizioni tutte interne all’Europa che è apparsa molto più
disunita di ciò che l’ideologia comunitaria voleva lasciare intendere.
Non solo: ma le stesse istituzioni comunitarie e i loro meccanismi hanno
mostrato una forte valenza disgregatrice nelle crisi. Le politiche per
creare un’unione monetaria hanno sortito l’effetto opposto a quello
sperato nel verso dell’integrazione politica. L’euro si è rivelato una
fonte di conflitti tra i Paesi che l’hanno adottato, aumentando il
divario tra il centro e le nuove periferie d’Europa. Ha reso evidenti le
differenti culture economiche dei partner e non ha favorito la
solidarietà. Inoltre si è rivelato strumento di deriva antidemocratica.
Già da prima le istituzioni europee soffrivano di un deficit democratico perché gli Stati nazionali hanno delegato solo una parte della loro sovranità all’Unione. E questo fatto di trovarsi sotto la tutela degli Stati nazionali espone l’Unione a forti condizionamenti non solo degli egoismi nazionali ma anche a quello esercitato dalla pressione delle lobby. I semplici cittadini avvertono questa scarsa attenzione per le loro reali esigenze e per contro si accumulano regolamenti invasivi che vietano di tutto: dal miele ogm, ai formaggi regionali o alle zuccheriere nei bar. Il controllo democratico su Bruxelles è molto, molto indiretto, e diluito in dosi infinitesimali, praticamente omeopatiche. L’architettura comunitaria non è concepita per esprimere la sintesi degli interessi di tutti, delle maggioranze e delle minoranze. Persino l’accresciuto potere del parlamento europeo, unico organo comunitario eletto direttamente dai cittadini, in questo contesto non offre sufficienti garanzie. In mancanza di una Costituzione europea e di pesi e contrappesi, il rischio è quello di produrre di volta in volta dittature della maggioranza. Sarebbe necessario quindi un completo ripensamento dell’architettura istituzionale europea. In caso contrario persino l’introduzione di una maggiore rappresentatività legittimata dal voto popolare si risolverebbe in una democrazia europea di stampo giacobino. Ammesso e non concesso che l’Unione tenga, è proprio questa l’alternativa che si prospetta: il rafforzamento dell’attuale Europa intergovernativa a guida tedesca, o la creazione di un mostro totalitario senza contrappesi ma legittimato dal voto popolare.
A questo contesto molto poco liberal-democratico, si aggiunge la deriva antidemocratica prodotta dall’euro. L’economista francese Jacques Sapir (che esprime forti critiche alla politica germanocentrica) riconosce nell’unione economica e monetaria la svolta decisiva che ha profondamente modificato le istituzioni in direzione antidemocratica e ha prodotto importanti cambiamenti nelle forme e nei metodi di governance politica. Il risultato di questo cambiamento istituzionale sarebbe ciò che oggi chiamiamo “austerità”. I paesi dell’Europa mediterranea che pensavano di poter tenere un atteggiamento al contempo “pro-euro” e anti-austerità, si sono dovuti ricredere, e sono stati costretti ad indossare la camicia di forza dell’austerità. Viene al massimo loro concesso di negoziarne alcune sfumature, come il peso delle catene e la durata della schiavitù. Solo così possono mantenere l’euro, altrimenti dovranno abbandonarlo. L’austerità è la figlia legittima e diletta dell’euro. Nessun’altra politica è possibile al suo interno. La moneta unica, oltre che strumento di finanziarizzazione, è un metodo di governo che agisce in autonomia con progressive conseguenze sul funzionamento politico dei Paesi. La privazione dei parlamenti nazionali delle loro prerogative sovrane si traduce in espropriazione della sovranità popolare e della democrazia. La stessa istituzione dell’UE, che è fortemente condizionata soprattutto dai governi dei suoi Paesi egemoni, ha subìto modifiche nella propria natura. Il destino della Grecia è un sintomo evidente di tale cambiamento. Essa ha cambiato status: è diventata un protettorato, gestito da istituzioni finanziarie e dalla Commissione. E questo palesemente contraddice i princìpi democratici dichiarati imprescindibili dall’Unione Europea. Tra gli altri lo ha sostenuto Jürgen Habermas, sul Guardian: “La retrocessione de facto di uno Stato membro allo status di protettorato, contraddice apertamente i principi democratici dell’Unione Europea”. L’Unione monetaria senza l’Unione politica ha istituito di fatto un regime tirannico. Quando la Louisiana ha difficoltà economiche mentre il Michigan se la passa meglio, le entrate fiscali di questo vengono in soccorso del bilancio di quella. E ciò Perché gli Stati Uniti sono uniti anche politicamente. I creditori dell’Eurogruppo possono invece dire alla Grecia: “O accetti le nostre condizioni o noi distruggiamo la vostra economia chiudendo le vostre banche”. “Non potrebbe mai accadere in una democrazia liberale, costituzionale”, osserva l’economista PierGiorgio Gawronski. È come “se la California fa default e la Fed in risposta fa fallire le sue banche! Impensabile!”. Sapir dice la stessa cosa: L’euro non funziona “perché ci si è rifiutati di passare a un bilancio realmente federale, che però avrebbe costretto i paesi ricchi dell’Ue a sostenere i più deboli, come accade fra regioni di uno stesso stato”. E allora, che fare? Sono solo due le scelte sensate: o decidersi rapidamente per l’unione politica, oppure svincolarsi dalla stretta mortale dell’euro. L’introduzione della moneta unica, implicitamente aveva questo scopo – lo abbiamo detto – quello di costringere, di fronte agli insostenibili paradossi prodotti da questa situazione incompiuta, a darsi una mossa. E invece gli europei oggi sembrano dei sonnambuli che camminano con lo sguardo perso nel nulla sul ciglio d’un burrone. L’unione politica generalizzata non la vogliono più (e forse non l’hanno mai realmente voluta) ma non vogliono ammetterlo, e al contempo non vogliono neppure lasciare l’euro perché temono gl’inevitabili contraccolpi: la reazione dei mercati e l’ineluttabile svalutazione, le politiche nefaste che alcuni paesi conoscono connesse alla corruzione, all’evasione, al clientelismo o anche solo all’incompetenza e senza più alcun controllo esterno. E così pensano che le politiche ancor più nefaste connesse alla dittatura dell’euro siano preferibili.
In realtà i meno forti stanno soccombendo: le loro economie vengono stritolate e le istituzioni democratiche vengono umiliate da diktat esterni (e complicità interne, talvolta anche solo ideologiche). Di questo passo, alla fine dovranno comunque svincolarsi da quest’abbraccio mortale. Più si aspetta e più le società saranno immiserite, sfaldate, sobillate dai populismi. Al divorzio si arriverà con una più forte carica di delusione, di amarezza, di rancore. Come popoli e come Stati, indisponibili ad accettare retrocessioni. “Nella nuova geografia politica la Germania è salita al potere ed è diventata il centro dell’Europa. L’Unione monetaria ha rafforzato la Germania unita. La Francia è diventata il socio junior del ‘direttorato’ ed è sempre più frustrata”, afferma il filosofo sociale Zdzisław Krasnodębski. “Tenendo conto di tutto questo, ci si può aspettare che in futuro le controversie politiche in Europa diventeranno più agguerrite. La polarizzazione politica diventerà più forte. Alcuni Stati membri si daranno da fare per rafforzare la loro sovranità e formare diversi blocchi all’interno dell’Unione”. Che poi, non è detto ci rimangano all’interno. Ne parleremo nella prossima riflessione.
Già da prima le istituzioni europee soffrivano di un deficit democratico perché gli Stati nazionali hanno delegato solo una parte della loro sovranità all’Unione. E questo fatto di trovarsi sotto la tutela degli Stati nazionali espone l’Unione a forti condizionamenti non solo degli egoismi nazionali ma anche a quello esercitato dalla pressione delle lobby. I semplici cittadini avvertono questa scarsa attenzione per le loro reali esigenze e per contro si accumulano regolamenti invasivi che vietano di tutto: dal miele ogm, ai formaggi regionali o alle zuccheriere nei bar. Il controllo democratico su Bruxelles è molto, molto indiretto, e diluito in dosi infinitesimali, praticamente omeopatiche. L’architettura comunitaria non è concepita per esprimere la sintesi degli interessi di tutti, delle maggioranze e delle minoranze. Persino l’accresciuto potere del parlamento europeo, unico organo comunitario eletto direttamente dai cittadini, in questo contesto non offre sufficienti garanzie. In mancanza di una Costituzione europea e di pesi e contrappesi, il rischio è quello di produrre di volta in volta dittature della maggioranza. Sarebbe necessario quindi un completo ripensamento dell’architettura istituzionale europea. In caso contrario persino l’introduzione di una maggiore rappresentatività legittimata dal voto popolare si risolverebbe in una democrazia europea di stampo giacobino. Ammesso e non concesso che l’Unione tenga, è proprio questa l’alternativa che si prospetta: il rafforzamento dell’attuale Europa intergovernativa a guida tedesca, o la creazione di un mostro totalitario senza contrappesi ma legittimato dal voto popolare.
A questo contesto molto poco liberal-democratico, si aggiunge la deriva antidemocratica prodotta dall’euro. L’economista francese Jacques Sapir (che esprime forti critiche alla politica germanocentrica) riconosce nell’unione economica e monetaria la svolta decisiva che ha profondamente modificato le istituzioni in direzione antidemocratica e ha prodotto importanti cambiamenti nelle forme e nei metodi di governance politica. Il risultato di questo cambiamento istituzionale sarebbe ciò che oggi chiamiamo “austerità”. I paesi dell’Europa mediterranea che pensavano di poter tenere un atteggiamento al contempo “pro-euro” e anti-austerità, si sono dovuti ricredere, e sono stati costretti ad indossare la camicia di forza dell’austerità. Viene al massimo loro concesso di negoziarne alcune sfumature, come il peso delle catene e la durata della schiavitù. Solo così possono mantenere l’euro, altrimenti dovranno abbandonarlo. L’austerità è la figlia legittima e diletta dell’euro. Nessun’altra politica è possibile al suo interno. La moneta unica, oltre che strumento di finanziarizzazione, è un metodo di governo che agisce in autonomia con progressive conseguenze sul funzionamento politico dei Paesi. La privazione dei parlamenti nazionali delle loro prerogative sovrane si traduce in espropriazione della sovranità popolare e della democrazia. La stessa istituzione dell’UE, che è fortemente condizionata soprattutto dai governi dei suoi Paesi egemoni, ha subìto modifiche nella propria natura. Il destino della Grecia è un sintomo evidente di tale cambiamento. Essa ha cambiato status: è diventata un protettorato, gestito da istituzioni finanziarie e dalla Commissione. E questo palesemente contraddice i princìpi democratici dichiarati imprescindibili dall’Unione Europea. Tra gli altri lo ha sostenuto Jürgen Habermas, sul Guardian: “La retrocessione de facto di uno Stato membro allo status di protettorato, contraddice apertamente i principi democratici dell’Unione Europea”. L’Unione monetaria senza l’Unione politica ha istituito di fatto un regime tirannico. Quando la Louisiana ha difficoltà economiche mentre il Michigan se la passa meglio, le entrate fiscali di questo vengono in soccorso del bilancio di quella. E ciò Perché gli Stati Uniti sono uniti anche politicamente. I creditori dell’Eurogruppo possono invece dire alla Grecia: “O accetti le nostre condizioni o noi distruggiamo la vostra economia chiudendo le vostre banche”. “Non potrebbe mai accadere in una democrazia liberale, costituzionale”, osserva l’economista PierGiorgio Gawronski. È come “se la California fa default e la Fed in risposta fa fallire le sue banche! Impensabile!”. Sapir dice la stessa cosa: L’euro non funziona “perché ci si è rifiutati di passare a un bilancio realmente federale, che però avrebbe costretto i paesi ricchi dell’Ue a sostenere i più deboli, come accade fra regioni di uno stesso stato”. E allora, che fare? Sono solo due le scelte sensate: o decidersi rapidamente per l’unione politica, oppure svincolarsi dalla stretta mortale dell’euro. L’introduzione della moneta unica, implicitamente aveva questo scopo – lo abbiamo detto – quello di costringere, di fronte agli insostenibili paradossi prodotti da questa situazione incompiuta, a darsi una mossa. E invece gli europei oggi sembrano dei sonnambuli che camminano con lo sguardo perso nel nulla sul ciglio d’un burrone. L’unione politica generalizzata non la vogliono più (e forse non l’hanno mai realmente voluta) ma non vogliono ammetterlo, e al contempo non vogliono neppure lasciare l’euro perché temono gl’inevitabili contraccolpi: la reazione dei mercati e l’ineluttabile svalutazione, le politiche nefaste che alcuni paesi conoscono connesse alla corruzione, all’evasione, al clientelismo o anche solo all’incompetenza e senza più alcun controllo esterno. E così pensano che le politiche ancor più nefaste connesse alla dittatura dell’euro siano preferibili.
In realtà i meno forti stanno soccombendo: le loro economie vengono stritolate e le istituzioni democratiche vengono umiliate da diktat esterni (e complicità interne, talvolta anche solo ideologiche). Di questo passo, alla fine dovranno comunque svincolarsi da quest’abbraccio mortale. Più si aspetta e più le società saranno immiserite, sfaldate, sobillate dai populismi. Al divorzio si arriverà con una più forte carica di delusione, di amarezza, di rancore. Come popoli e come Stati, indisponibili ad accettare retrocessioni. “Nella nuova geografia politica la Germania è salita al potere ed è diventata il centro dell’Europa. L’Unione monetaria ha rafforzato la Germania unita. La Francia è diventata il socio junior del ‘direttorato’ ed è sempre più frustrata”, afferma il filosofo sociale Zdzisław Krasnodębski. “Tenendo conto di tutto questo, ci si può aspettare che in futuro le controversie politiche in Europa diventeranno più agguerrite. La polarizzazione politica diventerà più forte. Alcuni Stati membri si daranno da fare per rafforzare la loro sovranità e formare diversi blocchi all’interno dell’Unione”. Che poi, non è detto ci rimangano all’interno. Ne parleremo nella prossima riflessione.



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