sabato 31 dicembre 2016

Il futuro del liberalismo



L’Economist, rivista d’ispirazione liberale, dedica il suo numero del 24 dicembre alla crisi del liberalismo resasi particolarmente evidente proprio quest’anno. Il 2016 è stato infatti un annus horribilis per questa dottrina politica ed economica, che nasce e affianca l’azione della borghesia, come strumento ideologico nella sua lotta contro l’assolutismo delle monarchie e i privilegi dell’aristocrazia. L’Economist prende atto di questa situazione di crisi e di difficoltà in cui i liberali si trovano. Fa un’analisi abbastanza obiettiva delle ragioni che hanno causato questo stato di cose, ma non si perde d’animo e si augura che alla fine i liberali, grazie alla loro capacità di reinventarsi, non si arrendano ma sappiano cogliere la sfida e superare questo momento difficile. Riportiamo di seguito l’editoriale introduttivo di questo numero per comodità di coloro che non leggono l’inglese o che hanno difficoltà a reperirlo. Nel prossimo post lo commenteremo.

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IL FUTURO DEL LIBERALISMO - COME DARE UN SENSO AL 2016

Per un certo tipo di liberali il 2016 è stato uno schiaffo durissimo. Se si crede, come l’Economist, nelle economie aperte, nelle società aperte, dove la libera circolazione di beni, capitali, persone e idee è incoraggiata e dove le libertà universali sono protette dagli abusi dello Stato grazie allo stato di diritto, allora quest’anno è stato un anno di duri contraccolpi. Non solo per la Brexit e per l’elezione di Donald Trump, ma anche per la tragedia della Siria, abbandonata alle sue sofferenze, e il sostegno crescente – in Ungheria, Polonia e oltre – alla “democrazia illiberale”. Mentre la globalizzazione vacilla, il nazionalismo e l’autoritarismo fioriscono. In Turchia il sollievo per il fallito colpo di stato è stato sostituito da una rappresaglia brutale e purtroppo popolare. Nelle Filippine gli elettori hanno scelto un presidente che non solo usa squadroni della morte ma si vanta di uccidere personalmente. Tutto questo avviene mentre la Russia, che accede illecitamente ai database delle democrazie occidentali, e la Cina, che la scorsa settimana ha provocato l’America sequestrando i suoi droni subacquei, insistono che il liberalismo è semplicemente una copertura per l’espansionismo dell’Occidente.

Di fronte a questa litania molti liberali, propugnatori del libero mercato, hanno perso i nervi. Alcuni hanno già scritto l’epitaffio dell’ordine liberale e lanciato avvertimenti sulla minaccia che pesa sulla democrazia. Altri sostengono che con una stretta all’immigrazione e con qualche tariffa doganale in più si potrà tornare alla normalità. Ma in realtà non è così. L’amaro raccolto del 2016 non ha distrutto all’improvviso la capacità del liberalismo di essere il miglior modo per conferire dignità e portare prosperità e uguaglianza. Invece di rinunciare alla battaglia delle idee, i liberali dovrebbero reagire e combattere questa battaglia.

Nell’ultimo quarto di secolo per il liberalismo le cose sono state troppo facili. Il suo dominio dopo il collasso del comunismo sovietico si è trasformato in pigrizia e compiacenza. Malgrado l’aumento delle disuguaglianze, i vincitori si sono detti che vivevano in meritocrazia e che dunque il loro successo era meritato. Gli esperti reclutati per contribuire a gestire l’economia si sono concentrati soprattutto su quanto fossero brillanti le loro idee, ma la gente normale spesso ha visto la ricchezza come un privilegio di pochi e le competenze come interesse egoistico.

In questo contesto i liberali avrebbero dovuto attendersi una reazione forte e negativa. Il liberalismo in fondo era emerso all’inizio del diciannovesimo secolo per opporsi sia al dispotismo della monarchia assoluta sia al terrore della rivoluzione, e in quanto tale il liberalismo dovrebbe essere cosciente che il potere ininterrotto corrompe. Il privilegio tende ad auto perpetuarsi. Il consenso limita la creatività e l’iniziativa. In un mondo che cambia sempre di più le dispute non sono solo inevitabili, devono essere benvenute perché portano al rinnovamento.

Cosa più importante, i liberali hanno qualcosa da offrire alle società che faticano ad affrontare il cambiamento. Nel diciannovesimo secolo, come oggi, le vecchie modalità erano messe in discussione dalle forze tecnologiche, economiche, sociali e politiche. La gente chiedeva ordine. La soluzione illiberale era di collocare qualcuno con sufficiente potere da dettare cosa fosse meglio per tutti, rallentando il cambiamento se conservatore o usando l’autoritarismo se rivoluzionario. Oggi ci sono echi di tutto questo con appelli a riprendere il controllo, o ancora, nella rabbia nazionalista, gli autocrati che promettono di fermare l’onda cosmopolita.

I liberali all’epoca fornirono una risposta diversa, rispetto a quella proposta dagli illiberali. Invece di essere concentrato, il potere doveva essere disperso usando lo stato di diritto, i partiti politici e i mercati in concorrenza tra loro. Invece di mettere i cittadini al servizio di un sovrano, per proteggere lo Stato, il liberalismo considerava gli individui come unici in grado di scegliere ciò che è meglio per loro. Invece di governare il mondo con le guerre, i paesi dovevano sostenere il commercio e i trattati.

Queste idee alla fine si sono radicate in Occidente. E malgrado il flirt di Trump con il protezionismo, probabilmente dureranno a lungo. Ma solo se il liberalismo riuscirà ad affrontare il suo altro problema: la perdita di fiducia della gente nel progresso. I liberali credono che il cambiamento sia benvenuto perché in complesso è sempre per il meglio. Possono sottolineare con un certo grado di certezza che la povertà globale è scesa, le aspettative di vita sono cresciute, così come le opportunità e la pace, malgrado tutti i problemi in Medio Oriente. Gran parte degli abitanti di questa Terra insomma non sono mai stati meglio di così.

Ma una parte importante dell’Occidente, tuttavia, non vede le cose in questo modo. Il progresso vale principalmente per gli altri, la ricchezza non è distribuita, le nuove tecnologie distruggono posti di lavoro, le classi subalterne vivono al di là d’ogni possibilità d’aiuto o di redenzione, altre culture costituiscono una minaccia, spesso violenta.

Se vuole prosperare, il liberalismo deve avere una risposta anche per i pessimisti. Durante questi anni al potere, le soluzioni liberali sono state deludenti. Nel diciannovesimo secolo i riformatori liberali erano riusciti a intercettare le necessità di cambiamento e rispondervi con l’educazione universale, con vasti programmi di lavori pubblici e con l’attenzione ai diritti dei lavoratori. È stato esteso il diritto di voto, alle cure sanitarie e alla sicurezza sociale. Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno costruito un ordine liberale usando istituzioni come le Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale per dare forma alla loro visione.

Oggi l’Occidente non riesce a costruire neppure la metà di così ambizioso. Tutto questo deve cambiare. I liberali devono esplorare le prospettive offerte dalla tecnologia e aprirsi ai bisogni che esprime la società. Il potere deve essere devoluto dallo Stato centrale ai Comuni che possono agire come laboratori per nuove politiche. La politica deve uscire dallo sterile scontro partigiano usando nuove forme di democrazia locale. Il labirinto della tassazione e della regolamentazione dovrebbe essere ricostruito in modo più razionale. La società potrebbe rivedere l’istruzione e il lavoro in modo che la scuola possa favorire la riconversione e la flessibilità professionale nei settori in trasformazione. Insomma, c’è ancora una marea di possibilità tuttora inesplorate, ma un sistema liberale, nel quale la creatività individuale, le preferenze e l’impresa hanno piena espressione, ha più possibilità d’ogni altro sistema di cogliere le occasioni del cambiamento.

Ma qual è la domanda centrale? È se dopo il 2016 questo sogno della ragione liberale sia ancora possibile. Occorre mettere le cose in prospettiva. Questo giornale ritiene che la Brexit e la presidenza Trump alla fine si dimostreranno costose e dannose. Siamo preoccupati dal mix di nazionalismo, corporativismo e scontento popolare di oggi. Ma il 2016 rappresenta anche una domanda di cambiamento e non va dimenticata la capacità dei liberali di reinventarsi. Non va sottovalutata la capacità della gente, inclusa un’amministrazione Trump o un Regno Unito post Brexit, a innovare per uscire dai guai. Il compito è cogliere la sfida, difendendo la tolleranza e la mentalità aperta che sono le fondamenta di un mondo decoroso e liberale.

The Economist
del 24 dicembre 2016

L'anno prossimo a Roma



Si sa che dicembre è il mese che si presta a fare bilanci dell’anno che si chiude. Così usano anche i giornali che dedicano molto spazio ad analizzare ciò che è avvenuto nei mesi precedenti e ad azzardare previsioni per quelli che seguiranno. Arnaud Leparmentier, editorialista di Le Monde, in un articolo pubblicato in questi giorni dal titolo ‘L’anno prossimo a Roma’, fa un bilancio del 2016 sull’Unione europea dai toni piuttosto preoccupati. Lo riportiamo di seguito e poi lo commenteremo brevemente.

“Ci sono anniversari dal sapore amaro. Il prossimo 25 marzo l’Europa celebrerà i 60 anni del Trattato di Roma che nel suo preambolo messianico aspirava a creare ‘un’unione sempre più stretta tra i popoli europei’. Un’Europa forte d’una promessa di pace e di prosperità di cui oggi non si osa quasi parlare tanto sembra essere contestata da ogni parte. L’anno 2016 è stato segnato da un doppio sisma: la pronuncia per la Brexit e subito a seguire l’elezione di Donald Trump. Queste due rivoluzioni anglosassoni ci ricordano due catastrofi avvenute tra le due guerre mondiali. La prima fu politica: il ritiro degli Americani dall’Europa dopo la Prima guerra mondiale e la mancata ratifica del Trattato di Versailles (1919) che aveva creato la Società delle nazioni. La seconda fu economica: la svalutazione della sterlina nel 1931, due anni dopo la crisi del 1929, che mandò all’aria l’ordine economico internazionale, accelerando l’affermazione dei nazionalismi. L’Europa oggi si trova di nuovo orfana degli Stati Uniti e del Regno Unito, e il presagio non è buono, soprattutto quando si è accerchiati da neodittature (Putin in Russia, Erdogan in Turchia) e attacchi perpetrati dall’organizzazione dello Stato Islamico. I paragoni con gli anni Trenta sono spesso irritanti, ma non devono impedire di aprire gli occhi: dalla grande crisi finanziaria del 2008, il parallelo è tragico. Le due crisi, economica e politica, si nutrono a vicenda. La prima, iniziata con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008, è stata almeno in parte risolta perché è stata gestita da apparati tecnocratici e dai responsabili politici che, forti del ricordo del 1929, hanno fatto di tutto per evitare il ripetersi della tragica storia. Ma la seconda crisi, identitaria e politica, è molto più difficile da controllare; e la collera dei popoli che cresce inesorabilmente contro le élite, la globalizzazione e il multiculturalismo ha conquistato gli Stati Uniti e minaccia di rivoluzionare l’ordine del vecchio Continente che nel 2017 sarà segnato da quadruple elezioni: Olanda, Francia, Italia e Germania. L’Unione europea non è la fonte prima di questa crisi (lo dimostra Trump negli Stati Uniti) ma l’economia sociale di mercato e la democrazia tranquilla che l’Unione europea incarna potrebbero essere spazzate via se i populisti arrivassero al potere in un grande Paese dell’Europa occidentale. Se si vuole essere ottimisti si può sostenere che il 2016 si conclude meglio del 2015. Un anno fa l’Europa era minacciata da due crisi esistenziali: quella dell’Euro e quella di Schengen. Il fallimento della Grecia, sull’onda dell’arrivo al governo di Alexis Tsipras all’inizio del 2015, minacciava di far crollare la moneta unica. La crisi dei migranti dell’autunno stava per distruggere lo spazio di libera circolazione di Schengen. Se queste due crisi non sono del tutto risolte almeno sono state contenute. L’integrità della zona Euro per ora non è rimessa in discussione mentre i flussi di migranti sono diminuiti grazie ad un accordo con la Turchia, poco edificante ma che ha il pregio dell’efficacia. In fondo l’Europa dei tecnici ha funzionato. Il compito era quasi impossibile: si trattava di riparare in volo un aereo in fiamme. Ma l’Unione europea ha saputo evitare il peggio. Eppure, dal punto di vista politico, non funziona. Perché la volontà di vivere insieme, l’affectio societatis europea, si dissolve. E questa crisi identitaria è quella più distruttiva. Questo rigetto di vivere insieme si fonda su conflitti di valori. Per esempio, rifiutando di accogliere dei migranti gli europei dell’est hanno doppiamente rigettato ciò che si credeva fondativo dell’Europa: l’accoglienza dei perseguitati e la solidarietà tra alleati europei. Le elezioni del 2017 diranno se gli elettori occidentali seguiranno la via illiberale delle società chiuse. In quel caso le cerimonie del Trattato di Roma saranno accompagnate da un lungo requiem europeo. L’Unione europea tecnocratica funziona, quel che non funziona più è il vivere insieme.”

L’analisi di Leparmentier è interessante ed anche condivisibile, a nostro avviso, almeno in parte. Qui come altrove ci si richiama al parallelismo tra la crisi degli anni Trenta e l’attuale. Può non piacere ma è così. È vero che la storia non si ripete mai in modo identico ma è anche vero che gli uomini ripetono sempre gli stessi errori proprio perché non sanno apprendere dal passato. Nel caso specifico, oggi come allora, le crisi sono due e vanno appaiate: una politica e l’altra economica. Allora fu un disastro, ma anche adesso la prospettiva è quella. E guarda caso anche oggi vi sono implicati gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Allora come oggi la crisi economica partì dagli Stati Uniti e il colpo di grazia politico rischia di giungere sempre da lì con il programma minacciato da Trump. L’America si sta sempre più isolando sul versante atlantico. Le strategie disastrose di Obama lasciano un mondo islamico in fiamme, una Russia e una Turchia ringalluzzite dai loro rispettivi uomini forti e una Cina determinata ad affermarsi come prima potenza mondiale sia economica che militare. Trump afferma di essere preoccupato solo da quest’ultimo problema e afferma di volersi disimpegnare dall’Europa. Il fatto è che anche gli Europei sentono montare una grande voglia di disimpegnarsi tra di loro e questa crisi identitaria – paventa giustamente Leparmentier – è la più distruttiva. Quando l’affectio societatis europea si dissolve allora s’innescano le dinamiche conflittuali che in passato sono sempre culminate in conflitti armati. Ciò che non condividiamo nell’analisi del giornalista francese è l’affermazione che l’Unione europea ha nonostante tutto mostrato di funzionare. E qui noi chiediamo: in cosa? Per limitarci ai suoi esempi: la gestione dei migranti può davvero essere considerata un successo sia pur solo limitato all’indispensabile? Gli sbarchi sulle coste italiane sono forse diminuiti? E in che senso l’accordo con Erdogan, sia pur “poco edificante”, può essere davvero considerato un successo? O non è stato semmai proprio quest’accordo che ha consentito al despota turco di alzare la cresta e di usare i profughi come arma di ricatto per zittire gl’imbelli governanti europei? E la crisi dell’euro è stata davvero contenuta a livelli rassicuranti? Le politiche economiche e finanziarie di Bruxelles contrasterebbero in modo rassicurante l’avanzata montante dei partiti populisti solo perché Tsipras è stato costretto ad abbassare la cresta? Come vedremo nella prossima riflessione, è proprio il modello liberale di cui l’establishment europeo va così fiero che è in crisi, ed è questo il tallone d’Achille che rischia di trasformare in una beffa imbarazzante le cerimonie del Trattato di Roma.

Migranti o invasori?



Sappiamo che questo è un tema delicato che si presta a molteplici letture ed anche a strumentalizzazioni. Da un lato le organizzazioni umanitarie più o meno confessionali, ma anche politiche, internazionaliste di sinistra o liberiste e globaliste padronali ben contente di poter sfruttare manodopera a basso costo. Dall’altro i partiti e i movimenti populisti e nazionalisti che cercano consenso a buon mercato strumentalizzando i legittimi timori della gente. D’altra parte l’argomento è troppo importante per essere accantonato, se non altro per il peso che produrrà nei futuri equilibri politici interni e nell’assetto istituzionale del continente europeo.

Infatti la materia è dibattuta tra gli studiosi. Storici, politologi, sociologi, demografi: tutti prendono posizione e avanzano le loro teorie. Tra le nostre prime riflessioni avevamo citato lo storico scozzese Niall Ferguson perché anni fa aveva previsto il referendum sulla Brexit ed anche l’esito; così come aveva previsto l’affermarsi della schiacciante supremazia tedesca sulle deboli economie dell’Europa mediterranea. Stavolta torniamo a citarlo per il parallelo che ha richiamato tra la caduta dell’Impero romano e quella prossima dell’Occidente contemporaneo. Ferguson parla di due vulnerabilità che hanno colpito l’Occidente, in particolare europeo. Innanzi tutto la globalizzazione che, se da un lato ha ridotto la povertà complessiva della terra, dall’altro ha visto seriamente impoverirsi le economie occidentali al punto che in questo processo sono da considerarsi la parte sconfitta. La seconda vulnerabilità riguarda la politica estera dell’Europa di cui il problema dei migranti è una delle conseguenze più appariscenti.

“Il Vecchio continente – afferma Ferguson – ha scelto una politica estera non interventista e ossessionata dai precedenti storici, come la guerra americana in Iraq. Risultato? Oggi il mancato intervento militare in Siria sta causando un numero maggiore di morti e conseguenze peggiori in termini di spostamento forzato di milioni di persone di quanto non abbia fatto la guerra in Iraq. Dopodiché la stessa Europa ha rifiutato ogni ipotesi di stabilizzazione dei regimi a essa confinanti, ha lasciato che il Nordafrica e il medio oriente andassero in malora, salvo poi dirsi pronta ad accogliere tutti quelli che fossero fuggiti, senza che per loro ci fosse nemmeno la garanzia di un lavoro e di una vera integrazione. E senza curarsi di un piccolo precedente storico: la mancata assimilazione di numeri molto inferiori di immigrati e rifugiati che erano arrivati negli anni 90. Insomma, l’èra Merkel sarà ricordata come un terribile disastro da questo punto di vista”.

L’Europa ha saputo fare persino peggio della politica esitante e imbelle di Obama. Come dare torto a Ferguson? Aver lasciato che l’area mediorientale si destabilizzasse non solo renderà molto più costoso e pericoloso ogni intervento futuro in quei territori, a un tiro di schioppo da casa nostra, ma ha causato a milioni l’esodo della popolazione siriana che comprensibilmente cerca di fuggire da quell’inferno. E come definire l’intervento di Sarkozy e Cameron in Libia che, per sottrarre i contratti petroliferi all’Italia, sono andati a bombardare allegramente quel Paese senza poi preoccuparsi di stabilizzarlo? Possiamo dire tutto di Gheddafi tranne che non sapesse tenere sotto controllo la galassia etnicamente e ideologicamente polverizzata della sua gente. E così si è aperto il flusso incontrollato della popolazione subsahariana verso l’Italia. E il colmo è adesso che la Francia ha chiuso le sue frontiere per fermare da noi quell’esodo proprio da lei causato. Adesso l’Europa già divisa su tutto si trova a litigare sulla questione delle quote di migranti da distribuire che si preannuncia ulteriormente destabilizzante sulla coesione dell’Unione.

Altrettanto delicato è il discorso sull’integrazione di queste persone. Gli italiani sono combattuti tra il desiderio di accogliere questi migranti che, occorre ricordare, sono in gran parte economici e solo in piccola parte fuggono da situazioni di conflitto, e il desiderio di proteggersi da una situazione che rischia di farsi socialmente destabilizzante. Teoricamente tutto il continente africano potrebbe riversarsi in Italia, data la situazione di miseria che lì esiste anche per colpa degli occidentali che hanno sfruttato quelle terre e quelle popolazioni. Il timore non è teorico. Se non siamo in grado di integrare socialmente i nostri giovani come possiamo consentirci d’integrare un flusso sempre più imponente d’immigrati? Non solo i clandestini ma anche coloro che sono in regola con i documenti. Basta visitare i servizi sociali delle nostre grandi città per osservare quanti stranieri vi si recano per chiedere l’assistenza economica erogata dai comuni agl’indigenti. Sono ormai ben più degli italiani. Questi sussidi, occorre ricordare, si ricavano dai tributi che pesano sulla popolazione locale. Per non parlare di tutti coloro che non trovando sbocchi accettano di delinquere quando non giungono da noi deliberatamente con questo fine. Poi non bisogna stupirsi quando le forze populiste cavalcano lo sgomento che coglie i telespettatori nell’ascoltare quei fatti efferati di cronaca, che colpiscono spesso i più deboli (anziani, disabili, donne sole), soprattutto nei piccoli centri.

Ma Ferguson fa notare un altro elemento che viene spesso sottovalutato nel nome di un malinteso multiculturalismo. Egli porta innanzi tutto l’esempio del proprio Paese, il Regno Unito, dove in passato si era aperto al flusso di immigranti senza stipulare con loro “una sorta di patto per l’assimilazione ad alcuni valori fondanti delle nostre democrazie”. Ma il discorso vale per tutta l’Europa. E qui egli porta l’esempio del crollo dell’Impero romano che avvenne “nel giro di una generazione appena”, quando un gran numero di popolazioni straniere poterono entrare in un territorio confuso e inerme non sempre con l’intento di integrarsi con le popolazioni locali. “Quello che sta distruggendo l’Europa – prosegue Ferguson – è un processo simile, sebbene pochi di noi siano pronti a riconoscerlo. Come l’Impero romano all’inizio del V secolo, l’Europa ha permesso alle sue difese di crollare. Mentre il benessere cresceva, la capacità militare diminuiva, insieme alla consapevolezza di sé. Nello stesso tempo, l’Impero aprì le porte agli stranieri, che ambivano alla ricchezza senza voler abbandonare le proprie credenze ancestrali”.

Oggi come allora non tutti gli stranieri sono impermeabili all’assimilazione. Non parliamo degli europei, come i rumeni, ma persino i cinesi, che risaputamente costituiscono un gruppo chiuso, tendono col tempo a integrarsi. Sono sempre più gl’immigrati cinesi che ai loro figli danno nomi italiani. Questo non avviene invece con i musulmani. “Non c’è dubbio”, continua Ferguson, “che la maggior parte dei musulmani in Europa non siano violenti. Ma è altrettanto vero che la maggioranza di loro mantiene un punto di vista sul mondo che non è facilmente riconducibile ai principi delle nostre democrazie liberali, incluse le nostre convinzioni sulla parità di genere e sulla tolleranza”. La loro religione fa loro credere che un giorno essi ci conquisteranno e c’imporranno la loro fede, le loro leggi e i loro costumi. Oggi non va più di moda l’espressione “conflitto di civiltà” ma il discorso sulla tolleranza rimane immutato. Quando i loro estremisti compiono attentati tra noi spesso raccolgono più o meno esplicitamente l’approvazione delle popolazioni musulmane. Al contempo i cristiani che vivono in quelle terre da duemila anni sono ancor più di prima oggetto di discriminazione, quando non proprio di persecuzione, al punto da ridursi a percentuali al di sotto dello zero virgola. I musulmani che agiscono così, cioè la maggioranza, sono gli stessi che giungono da noi, ben intenzionati a partecipare al nostro maggior benessere e altrettanto fermamente decisi a non contaminarsi con la nostra cultura. E allora occorre prudenza e buon senso. Continuiamo ad essere accoglienti, non cediamo all’egoismo, ma facciamolo con intelligenza. Governiamo i flussi perché non si trasformino in un’invasione e pretendiamo da chi desidera vivere in mezzo a noi di accettare le nostre regole, e quanto meno di fondere la loro cultura con la nostra. Sempre che non desideriamo si avveri ancora una volta la profezia dello storico Ferguson che in passato, dobbiamo ammetterlo, ci ha spesso azzeccato.

la caduta dell'Impero



“Come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali interni.”
– Indro Montanelli

“La prima di tutte le calamità interne dell’Impero fu il peso delle tasse. Finché i Romani ebbero nuove provincie da conquistare, gli eserciti furono mantenuti dai vinti, e l’erario abbondò di risorse.”
– David Winspeare

“Nessuna civiltà viene distrutta dall’esterno senza essere prima caduta essa stessa, nessun impero viene conquistato dall’esterno se non si è prima suicidato. E una società, una civiltà, non si distrugge con le sue mani se non quando ha cessato di comprendere la sua ragion d’essere, quando l’idea dominante attorno a cui essa fu in origine organizzata gli diviene come estranea. Tale fu il caso del mondo antico.”
- René Grousset

“Prima della caduta di Roma, i Romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre senza sostanziali mutamenti. Si sbagliavano. Noi saremmo saggi a non imitare la loro sicumera.”
- Bryan Ward-Perkins

“La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l’Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell’Impero romano d’Occidente non è un puro esercizio intellettuale.”
- Massimo Introvigne

martedì 13 dicembre 2016

Un misterioso liberismo in salsa teutonica



Concludendo la riflessione sull’egemonia riluttante della Germania, citavamo un noto quotidiano tedesco che criticava il proprio governo perché scambierebbe la propria posizione di leadership in Europa con la proiezione e la piena realizzazione delle “proprie idee di ordine”. Quest’espressione merita la nostra attenzione. A quale “ordine” si riferiva il noto quotidiano? È naturale per noi associare alla mentalità tedesca l’idea di ordine, ma qui il giornale si riferiva a un concetto assai specifico sebbene poco conosciuto nel resto d’Europa e che ciò nonostante è all’origine di molte sofferenze (i greci ne sanno qualcosa più degli altri), e di un paradosso attorno a cui l’Unione si sta avvitando senza prospettive (così restando le cose) di soluzione.

Il concetto porta il nome di “Ordoliberalismo” o “Ordoliberismo” (preferibile in italiano che distingue tra liberalismo e liberismo). La sua gestazione avviene negli anni ’30 in Germania durante la crisi della Repubblica di Weimar. Teorico fondatore ne fu Walter Eucken, professore di economia politica a Friburgo dal 1927, dove conosce Husserl (di cui si dichiara debitore nella formazione della sua teoria economica) e fonda nel 1936 la rivista “Ordo”. L’ordoliberismo è una variante del liberismo originario, come questo infatti esso rifiuta l’idea che lo Stato influenzi il gioco del mercato. Al contrario di questo, però, esso non crede in una “mano invisibile” che rimedierebbe in automatico alle distorsioni del mercato, e relegherebbe l’intervento pubblico solo a un ruolo marginale. Infatti anzitutto l’ordoliberismo nasce come reazione al “laissez-faire” del liberalismo classico, ritenuto responsabile della Grande Depressione del 1929. Al contempo però esso si contrappone a quelle che considera le cattive risposte alla crisi del capitalismo internazionale che si manifestò in tutta la sua gravità dopo la Prima Guerra Mondiale. Le cattive risposte al “laissez-faire” liberista sarebbero le economie pianificate dei regimi totalitari di allora, ovvero principalmente quello nazista e quello sovietico, ma anche le misure di tipo keynesiano adottate in Europa e negli USA con il New Deal. Quest’accostamento che l’ordoliberismo fa tra le politiche reattive dei regimi totalitari e quelle del mondo libero appare curioso ma in realtà ha una sua logica. Perché la distinzione che esso opera non è quella tra regimi totalitari e regimi liberal-democratici ma tra sistemi che adottano politiche liberali e quelli ad economia pianificata. Dicevamo infatti che l’ordoliberismo rifiuta solo in parte le logiche liberali e come il liberismo esso non ammette che lo Stato s’intrometta direttamente nel gioco del mercato. Anzi esso teorizza che le economie protette, pianificate, assistenziali e keynesiane siano così connesse tra loro che quando lo Stato interviene con uno di questi aspetti finirà per sviluppare pure gli altri. Allora, se tutte le risposte che vennero date per correggere le distorsioni create dal “laissez-faire” liberista furono sbagliate, in che modo l’ordoliberismo pensava di porre rimedio alla crisi del capitalismo?

Dicevamo che l’ordoliberismo non crede nella capacità del mercato di regolarsi da sé, il cosiddetto “laissez-faire”, dove la legge del più forte alla fine si tradurrebbe non solo nel successo degli imprenditori più capaci e spregiudicati ma anche in un vantaggio per l’intera collettività. Per l’ordoliberismo, al contrario del liberismo classico e del neoliberismo, il conflitto sociale non è fisiologico, ma patologico, perché esso inceppa, blocca, sregola, provoca disintegrazione dell’ordine sociale, e non va pertanto lasciato a se stesso. Al contempo però lo Stato non deve intromettersi nel gioco del mercato. E allora in cosa deve intromettersi lo Stato per impedire che il conflitto capitale-lavoro, il cosiddetto “nemico interno”, degeneri? Esso deve stabilire le regole di questo gioco e deve vigilare perché esse siano rispettate. Come nel football c’è un organo che stabilisce le regole e un arbitro che le fa rispettare ma che dovrebbe guardarsi bene dall’influenzare il gioco, così nel capitalismo lo Stato deve organizzare la libera concorrenza, deve costruire il quadro giuridico, tecnico, sociale, morale e culturale del mercato. Perché ciò avvenga è necessario che il mercato non sia stabilizzato per via politica, ma per via giuridica e amministrativa, in modo che esso produca benessere secondo giustizia senza che interessi di parte o contingenti influenzino il gioco. Spiegato così, l’ordoliberismo sembra una teoria perfetta, ispirata dal senso dell’ordine e della giustizia. Ma, come vedremo, le cose non stanno propriamente così.

Troppo liberale per il regime nazista, i suoi sostenitori dovettero scegliere la via dell’esilio o restare in patria tenendo un basso profilo. Eventualmente partecipando ai circoli di riflessione economica del regime ma rinunciando a esporre interamente il proprio pensiero. Tra questi ultimi bisogna menzionare Ludwig Erhard, membro di un’organizzazione padronale che durante la guerra aveva abbracciato l’ordoliberismo. Non appena caduto il nazismo, Erhard divenne direttore dell’amministrazione economica della zona occupata dagli anglo-americani; in seguito ministro dell’economia nel governo Adenauer (1949-1963) e infine cancelliere dal 1963 al 1966. Fu sotto quest’economista, circondatosi di consiglieri ordoliberisti, che fu varata gran parte delle riforme strutturali tedesche associate al “miracolo economico”, in particolare la liberalizzazione dei prezzi e la creazione del deutsche Mark. La ricostruzione in Germania avvenne all’insegna dell’apertura al libero scambio e delle privatizzazioni, ovvero su basi liberiste. A differenza di quanto accadde in Francia, nel Regno Unito o persino in Italia, dove si realizzò su basi socialdemocratiche. Non poteva andare diversamente. Gli Stati Uniti infatti, potenza occupante più influente, impedirono le nazionalizzazioni dei beni e servizi di pubblica utilità così come avrebbe voluto la maggioranza in analogia alle altre nazioni europee. In cambio gli USA dimezzarono il debito estero della Germania e posero il nuovo alleato sotto il proprio ombrello protettivo consentendole di non distrarre una parte importante delle proprie risorse per le spese militari. Inoltre essi facilitarono la transizione verso un’economia aperta agli scambi con l’estero per aprire il mercato tedesco alle esportazioni americane. I tedeschi seppero fare di necessità virtù, e nonostante le limitazioni loro imposte diedero vita al miracolo economico della ricostruzione postbellica, il cosiddetto Wirtschaftswunder.

E riguardo al Welfare State, quel complesso di politiche concepite per ridurre le disuguaglianze sociali, come si conciliò con l’ordoliberismo? Si conciliò piuttosto male. Pensiamo che in Germania fino al 2015 non è esistito un salario minimo garantito, cosa che non è avvenuta neppure negli Stati Uniti dove fu introdotto nel 1938. E comunque la norma è facilmente aggirabile. Prima del 2015 un operaio poteva essere pagato anche a meno di 2 euro l’ora. Certo concessioni furono inevitabili perché non si sarebbe potuto imporre l’ordoliberismo alla società tedesca allo stato bruto. Il sistema minimo di protezione sociale introdotto da Bismarck alla fine del XIX secolo non fu abolito. Così come l’imposta sul reddito e i programmi di edilizia popolare. Inoltre nel 1951 Erhard dovette accettare l’introduzione della cogestione nell’industria, richiesta a gran voce dai sindacati e imposta dal cancelliere Adenauer, a compensazione della stagnazione salariale. Questo addolcimento dell’ordoliberismo teorico venne chiamato “economia sociale di mercato” (Sozial Marktwirtschaft). Dove il “sociale” significa semplicemente che la società viene adattata al mercato. Secondo la visione dell’ordoliberista Müller-Armarck, che coniò l’espressione, l’economia di mercato viene definita “sociale” quando la pressione sulle imprese e sui salariati si risolve in una migliore qualità del prodotto e in un abbassamento del prezzo. La fonte di progresso sociale starebbe quindi nella concorrenza. Tutto ciò che aumenta la libera competizione è buono per il progresso sociale. “Il benessere di ognuno e il benessere della concorrenza sono sinonimi”. O, se vogliamo usare un’espressione di Erhard: “Sostenere l’economia concorrenziale è un dovere sociale”. Il benessere può quindi offrirlo solo un’economia di mercato e vigilando sulla concorrenza, qualunque sia il prezzo immediato da pagare. Pertanto a livello concettuale l’economia sociale di mercato si pone agli antipodi del Welfare State dove il benessere si produce con politiche redistributive e universalistiche.

Non poteva essere diversamente perché l’ordoliberismo nasce come “rivolta delle élite”, in risposta alla “rivolta delle masse”. Esso non è egualitarista e risponde a logiche paternaliste. Scriveva l’ordoliberale Rüstow che il principio della gradualità è stato sostituito “con l’ideale, falso ed erroneo, dell’eguaglianza, e con l’ideale, parziale e insufficiente, della fraternità; ma in effetti, nelle piccole famiglie come nelle gradi, più importante del rapporto tra fratelli è il rapporto fra genitori e figli, che assicura la successione delle generazioni e il passaggio della tradizione culturale”. Ai lavoratori si potrà restituire la dignità perduta, più che con l’esercizio della democrazia, reintegrandoli in comunità naturali pre-democratiche (quali la famiglia, il comune, la Chiesa) ed eliminando l’egualitarismo, così gli faceva eco l’ordoliberale Röpke. Abbiamo già detto che l’ordoliberismo non discerne tra totalitarismo e democrazia. Il fatto che nel dopoguerra si sia affermato in un contesto democratico si deve solo a ragioni d’opportunità, al fatto che la Germania si ritrovò nel blocco atlantico e al fine di garantirsi il sostegno economico statunitense. Semmai, sia nella teoria che nella prassi, l’ordoliberismo si è mosso nel doppio binario di riforma delle libertà economiche e compressione delle libertà politiche. Come già analizzato da Michel Foucault, il pensiero ordoliberista ha accompagnato l’ascesa del regime hitleriano in una sorta di complicità complessa. La pianificazione dell’economia attuata dal nazismo li rendeva incompatibili ma per altri versi le due dottrine convergevano, soprattutto nel fatto che giustificavano la necessità di uno Stato forte che dettasse le regole del gioco economico e sanzionasse con grande severità i trasgressori. L’istituto del fallimento nel diritto tedesco viene ancora sanzionato con molto più rigore rispetto ad altre economie occidentali. Altro punto di contatto con il nazismo è la determinazione a non lasciare che il confronto tra capitale e lavoro sfociasse in conflitto ma promuovendo la collaborazione. Nazismo e fascismo avevano fondato l’istituto delle corporazioni. Analogamente la legge sulla cogestione del 1951 o la pratica della codeterminazione praticata da alcune importanti industrie risponde alla medesima logica. Quanto alla compressione delle libertà politiche, l’ordoliberismo ha orrore degli approcci congiunturali quando, ad esempio, privilegiano l’obiettivo della piena occupazione a discapito della stabilità monetaria e dei prezzi. Nel 1957 Erhard fece votare due leggi decisive per l’attuazione dell’ordopolitica. Una contro le limitazioni della concorrenza e la formazione dei cartelli e di questo tema abbiamo già parlato. L’altra sull’indipendenza della Bundesbank, per garantire la stabilità monetaria sino al punto di sottrarla al normale dibattito democratico. Torneremo su quest’aspetto rigido e antidemocratico dell’ordoliberismo perché da esso sono scaturiti molti dolori per l’Europa.

La somministrazione delle ricette ordoliberiste al popolo tedesco in forma graduale, e con alcuni correttivi per rendere meno amara la pillola, finì per essere accettata da tutti. La prima ad allinearsi all’ordoliberismo, oltre all’FDP (partito liberale tedesco), fu la democrazia cristiana, nel 1949. Dieci anni più tardi fu la volta dei socialdemocratici, al congresso di Bad-Godesberg, dove la formula dell’economia sociale di mercato prevalse sulla visione socialdemocratica della “democrazia economica”, e la cogestione nelle decisioni produttive sul welfare sociale. L’abbandono del marxismo a favore di un nuovo programma chiamato “socialismo liberale” permise alla SPD di vincere le elezioni per la prima volta dopo vent’anni di dominio della CDU di Adenauer. La caduta di Erhard, nel 1966, aprì la strada ad una coalizione CDU-SPD e nel 1969 fu la volta di Willy Brandt che in coalizione con i liberali, pur non rinnegando l’economia sociale di mercato, aggiunse dei correttivi in senso keynesiano (pianificazione a medio termine, aumento dei salari, investimenti nell’educazione e nella salute). Si trattò però di una parentesi. Nel 1982 il cristiano-democratico Helmut Kohl restituì priorità all’equilibrio di bilancio quantunque i costi dell’unificazione tedesca ritardassero un pieno ritorno ai fondamentali ordoliberisti. Fu il socialdemocratico Gerhard Schröder, diventato cancelliere nel 1998, a ripristinare l’ordine degli anni ‘50 con la massiccia deregolamentazione del diritto del lavoro e l’indebolimento della protezione sociale. Questo smantellamento del Welfare State (che a quanto pare viene consentito solo agli esecutivi di sinistra, o che per sinistra si fanno passare), motivato con il fine di razionalizzare la spesa pubblica e ridurre la disoccupazione, produsse elevati costi sociali che si riversarono soprattutto sulle fasce meno abbienti. Infatti tali misure costarono a Schröder la rielezione. Angela Merkel, che gli successe nel 2005, confermò la ricetta ordoliberista. Nel 2014 affermò che “l’economia sociale di mercato è molto di più di un ordinamento economico e sociale. I suoi principi sono atemporali”. E infatti, col tempo, la formula ordoliberista finì per essere accettata da tutti e non più messa in discussione, di fatto con un atteggiamento fideistico parareligioso. Il governo è ordoliberista. L’opposizione è ordoliberista. Le università insegnano economia ordoliberista. Non si può evitare di riconoscere che questo sistema non ha impedito né la disoccupazione di massa, né lo spreco delle risorse e non ha prodotto neppure di riflesso l’uguaglianza sociale, ma non si attribuisce la colpa alla dottrina in sé bensì alla sua imperfetta applicazione. Tutti affermano che i loro avversari usano male la tradizione ordo e l’interpretazione dell’economia sociale di mercato, insistendo gli uni sull’aggettivo “sociale” e gli altri sul sostantivo “mercato”. Perfino i verdi si definiscono ordoliberisti, ovviamente di sinistra. Finanche i sindacati ne fanno professione di fede. Mentre una parte della sinistra tedesca vede nell’ordoliberismo una forma di interventismo da opporre al neoliberismo, il padronato l’associa a un’economia di mercato strettamente liberista. Osserva il giurista Luciano Barra Caracciolo che l’ordoliberismo “è un capolavoro di strategia perché è riuscito a invertire il senso del conflitto sociale, avendo dalla sua la cooperazione di coloro che ne sono maggiormente danneggiati.”

Ovviamente quei cittadini che sono meno avvantaggiati dalle politiche ordoliberiste non le tollerano per ottusità o masochismo ma nella convinzione di averne nonostante tutto un beneficio. Un recente sondaggio ha rivelato che molti tedeschi associano al termine economia di mercato un “buon approvvigionamento di merci” oppure “benessere”, ma anche “avidità” ed “egoismo”. Joachim Gauck, l’attuale capo dello Stato tedesco, ha ammesso che molti dei suoi concittadini considerano ingiusta l’economia di mercato ma ne riconoscono l’efficienza. E l’unica economia di mercato ammissibile in terra teutonica è indubbiamente, almeno a parole, quella ordoliberista. Allora, se le regole ordoliberiste estese per volere dei tedeschi all’intera eurozona, nonostante questa non fosse pronta ad adottarle a maggior ragione in una fase di recessione, stanno comunque producendo un vantaggio competitivo per la Germania perché dovrebbero essere allentate? Tanto più che i Paesi finiti nella morsa del meccanismo infernale che li sta triturando chiedono deroghe proprio su quel rigore di bilancio che costituisce uno dei pilastri della dottrina ordoliberista e che è stato addirittura sottratto al dibattito democratico da molti anni in Germania! In realtà le cose non stanno proprio così perché, quando è stato necessario per il loro vantaggio, i tedeschi hanno saputo derogare da questa regola. Non solo, ma anche solo guardando al presente, il surplus commerciale della Germania supera abbondantemente quel 6% che la Commissione Ue ha stabilito non poter essere sforato per tre anni di fila, con l’obbligo di adottare misure correttive. Allora è facile per i Paesi in sofferenza accusare la Germania di doppiopesismo, di essere rigida solo in ciò che le fa comodo e di seguire una politica egoista e miope. D’altra parte per i tedeschi è anche semanticamente facile (in tedesco la parola Schuld ha il duplice significato di “debito” e di “colpa”) definire i Paesi mediterranei incoscienti e chiamarli con disprezzo “club med”. Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, è la personificazione di questo atteggiamento e di lui ebbe a dire il suo ex collega greco Varoufakis: “Per lui le regole hanno un carattere divino”. È di questa incomprensione di fondo, e dei rischi che per essa sta correndo l’intera Unione Europea, che parleremo in una prossima riflessione.

domenica 11 dicembre 2016

La Germania è veramente vostra amica


A Gino Boccasile, considerato il più bravo cartellonista della Repubblica Sociale, venne commissionato un manifesto che mettesse in buona luce i nazisti presso la popolazione civile. Nacque così il nazi sorridente, con la mano tesa e il titolo: “La Germania è veramente vostra amica”. Stampato a cura della Wehrmacht e distribuito dal Nucleo Propaganda della R.S.I. nell’ambito della “guerra psicologica”, la forza espressiva di questo messaggio dimostra tutta l’abilità creativa di Boccasile e la sua cura nel rappresentare i particolari. Il soldato tedesco sembra veramente uscire dal manifesto per venire incontro a chi guarda.

Certo, nell’Italia di quei giorni, tra rastrellamenti, requisizioni e fucilazioni, si può immaginare quanti passanti fossero disposti a dar credito a quei manifesti! Testimoni raccontano che poco dopo la prima pennellata di colla sui muri, i manifesti repubblichini venivano strappati e gettati per terra. Doppiamente puniti: per quel che rappresentavano e per la menzogna che raccontavano. Carlo Chevallard, che in quegli anni tenne un diario, scrisse in proposito: “8 maggio 1944. A Torino sono comparsi tra i tanti, dei manifesti raffiguranti un sorridente viso di soldato tedesco in atto di tendere una mano leale verso il passante, colla scritta ‘La Germania è veramente vostra amica!’. Curiosa questa amicizia che, per esser dimostrata ricorra a manifesti murali”.

L’immagine risultava involontariamente umoristica per la radicale incoerenza tra il messaggio positivo che proponeva e l’evidenza dell’amara realtà. C’è chi ha fatto notare l’analogia tra la comicità involontaria del manifesto repubblichino e le parole di Angela Merkel quando si recò in visita ad Atene dopo la cura prescritta dalla Troika. Allora aveva esordito nella conferenza stampa congiunta con il premier greco dicendo: “Sono qui come alleata e amica…”, mentre in strada i greci, martoriati dalle barbare politiche di austerità, indossavano divise naziste e bruciavano bandiere con la svastica. Evidentemente frau Merkel per effettuare quella visita così imbarazzante doveva essere convinta della giustezza della propria posizione, come del resto lo sono gran parte dei tedeschi. Ci sono dei motivi che spiegano quel loro convincimento e presto ne parleremo. Ciò non toglie che soprattutto nei Paesi mediterranei cresce l’insofferenza e gli antichi ricordi certo non aiutano. Ha scritto Barbara su un social: “La Germania inizia le guerre, distrugge nazioni e vite, e poi però le perde. Ora è in guerra contro l’Europa. Poteva avere una posizione di guida ed invece ha preferito lo scontro. Ottusi e testardi, i tedeschi come al solito manifestano la loro solita natura. Non ci resta che attendere la fine della guerra e la loro resa”.

sabato 10 dicembre 2016

La riforma dell'uomo forte


Il libro, nel capitolo che paventa il sorgere all’orizzonte del Principe, parla di riforme costituzionali. Afferma che gran parte dei tentativi di modificare la Costituzione hanno finora avuto come effetto quello di peggiorarla. Anni fa si parlava d’introdurre in Italia un semipresidenzialismo alla francese. La prospettiva inquietava molti e il dibattito si fece acceso. Il costituzionalista Michele Ainis affermava: “Non è detto che l’abito francese calzi a puntino indosso agli italiani. Loro hanno fatto la Rivoluzione del 1789, noi la Controriforma. E negli anni Venti abbiamo consegnato il potere a un dittatore. Queste cose contano. Significa che in Italia c’è urgenza di governi forti ma anche di controlli, d’anticorpi per difendere la democrazia”. Il rischio, contro il quale l’Italia invero ha pochi anticorpi, è quello di affidare il potere al “principe”, all’uomo forte, libero di muoversi senza efficaci garanzie e contrappesi istituzionali. Perché come afferma il politologo Michele Sorice: “La trasformazione della forma repubblicana non è questione di ‘manutenzione’ della Costituzione bensì cambiamento radicale dell’architettura istituzionale”. Come potrebbe realizzarla la nostra attuale classe politica ricattabile e moralmente disorientata?

Pure il tentativo di riforma voluto fortemente dal premier Matteo Renzi ha suscitato non poche resistenze. Ha avuto anche parecchi consensi, molti dei quali legittimamente motivati dalla necessità di semplificare l’iter legislativo, di ridurre il numero dei parlamentari e la spesa che essi comportano, di rendere gli esecutivi più stabili e più in grado di assumersi le proprie responsabilità, di risolvere molti dei conflitti di competenza che sorgono tra Stato e regioni (problema peraltro introdotto dalla riforma costituzionale del 2001). I sostenitori del no al referendum confermativo hanno fatto a loro volta notare che la riforma approvata dal Parlamento su proposta dell’esecutivo rispondeva in modo insufficiente e maldestro a questa legittima domanda di aggiornamento della Costituzione, per la qualità dei proponenti e per il fatto che essa non era il risultato di un serio dibattito parlamentare. Inquietava inoltre il fatto che l’appoggio a questa riforma veniva non solo da chi voleva legittimamente migliorare la Costituzione ma anche, compattamente, dagli esponenti dei poteri forti: da Confindustria, Confcommercio, dalle banche, da Piazza Affari, dai ricchi insomma, da coloro che condizionano pesantemente le istituzioni e che cercano di limitare i poteri degli elettori, e spaventati all’idea che la gente esasperata da anni di politiche deregolamentate consegni il potere a incontrollabili forze anti-establishment.

Non a caso l’endorsement alla riforma è venuto pure dagli analoghi poteri internazionali, dalla finanza della JP Morgan, da Marchionne, dall’agenzia di rating Fitch, dalle istituzioni europee ossessionate e disciplinate dell’ordoliberismo tedesco di cui parleremo a breve. Per questo ha stupito la presa di posizione in senso contrario assunta a maggioranza dal settimanale “The Economist” con un redazionale uscito il 24 novembre scorso con l’esplicito titolo “Why Italy should vote no in its referendum” di cui riportiamo la parte finale:

“Anche se ci fossero dei benefici dalla riforma costituzionale questi benefici verrebbero superati dai rischi e soprattutto da uno: che cercando di porre fine all’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945 ad oggi la riforma alla fine possa creare un regime dell’uomo forte. Questo è il Paese che in fondo ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi e che in modo preoccupante è particolarmente vulnerabile al populismo. Così com’è il sistema italiano del bicameralismo perfetto nel quale ciascuna camera ha esattamente gli stessi poteri dell’altra è una ricetta per lo stallo, le leggi possono passare da una camera all’altra per decenni. La riforma di Renzi ridurrebbe le dimensioni del Senato, il suo potere, relegandolo a dare pareri consultivi sulla maggior parte delle leggi come accade per esempio per le camere alte in Germania, Spagna o Regno Unito. In sé tutto questo appare giusto ma i dettagli della riforma costituzionale vanno contro i principi democratici. Per iniziare il Senato non sarebbe eletto. Gran parte dei suoi membri sarebbero scelti tra i consiglieri regionali e i sindaci, le regioni e i comuni sono i più corrotti tra le istituzioni italiane e i senatori beneficerebbero dell’immunità: questo potrebbe rendere il Senato un magnete per il peggio della politica italiana. Allo stesso tempo Renzi ha fatto approvare una legge elettorale per la Camera che dà immensi poteri al partito che arriva in testa. Usando vari trucchetti il più grande partito avrà il 54 per cento dei seggi; il prossimo presidente del consiglio avrebbe quindi un mandato di cinque anni senza contropoteri, contrappesi. Anche questo potrebbe avere senso salvo il fatto che approvare leggi non è il più grande problema che ha l’Italia; misure importanti come la legge elettorale sono state votate in pochi giorni, il Parlamento italiano approva tante leggi quante quelle di altri Paesi europei. Se la risposta all’incapacità di riformare fosse di dare più poteri all’esecutivo, la Francia oggi sarebbe il Paese più fortunato del mondo e invece, malgrado il suo sistema presidenziale, come l’Italia la Francia è perennemente resistente, ostile alle riforme. Il rischio dello schema di Renzi è che il principale beneficiario alla fine sarebbe Beppe Grillo e la sua sconclusionata coalizione chiamata Movimento 5 Stelle che vuole un referendum per lasciare l’euro. Il Movimento 5 Stelle nei sondaggi è pochi punti dietro al Partito Democratico ed ha appena conquistato i comuni di Roma e Torino. Lo spettro di Grillo come primo ministro, eletto da una minoranza ma con i poteri assoluti grazie alla riforma costituzionale di Renzi, è una prospettiva che molti italiani e gran parte d’Europa trovano inquietante. Si può rispondere che un “no” nel referendum rafforzerebbe l’impressione che l’Italia manchi della capacità di risolvere i suoi problemi ma è stato lo stesso Renzi che ha creato questa potenziale crisi facendo in modo che il referendum fosse più sul suo governo che sulla riforma costituzionale. Renzi avrebbe fatto meglio a sostenere più riforme strutturali, da quella sulla Giustizia a quella del miglioramento del sistema scolastico e invece ha perso due anni a giocherellare con la Costituzione. Prima l’Italia tornerà alle vere riforme, meglio sarà per l’Europa. E invece come rispondere alla prospettiva di un disastro in caso della vittoria dei no nel referendum? Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono, l’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto più volte in passato, ma se il fallimento del referendum dovesse davvero avviare il collasso dell’euro, beh, allora sarebbe la dimostrazione che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione è solo questione di tempo”.

Quest’articolo dell’Economist non solo stupisce per la sua presa di posizione controcorrente ma ha il pregio di dire le cose in modo così chiaro e asciutto come neppure molti sostenitori del no in Italia erano riusciti. Gli italiani comunque hanno dimostrato che, nonostante la campagna mediatica della carta stampata e di una televisione addomesticata, hanno espresso un voto libero e ragionato. La Costituzione per il momento è salva. Il famigerato ricordo dell’uomo forte ha fatto da deterrente, afferma la BBC. In realtà in questo voto la componente di protesta è stata molto alta. Il fatto che gli over 65 siano stati meno compatti a votare no dimostra che il ricordo della dittatura non è stato così determinante. Molti con questo voto hanno raccolto l’invito dei partiti d’opposizione a esprimersi per mandare a casa l’attuale premier. Renzi non solo ha commesso l’errore di personalizzare la campagna referendaria ma si è mosso sottovalutando l’intelligenza dei suoi connazionali: le regalie, l’occupazione grossolana della televisione pubblica, le relazioni fin troppo scoperte con i poteri forti, oltre al suo linguaggio arrogante e all’atteggiamento da bulletto di paese, lo hanno reso indisponente. In breve, se l’è cercata. Le sue dimissioni tuttavia non risolvono il problema della politica italiana. La reputazione della nostra classe politica è ai minimi storici. La pur necessaria riforma costituzionale chi la farà: l’eterogenea opposizione divisa su tutto? Ma soprattutto il rischio dell’uomo forte è tutt’altro che scongiurato. Renzi era inviso a gran parte degli italiani, ma quando si presenterà l’uomo con le giuste qualità relazionali, quello che all’inizio “sorride e saluta tutti affabile, e nega d’essere tiranno, e fa grandi promesse in pubblico e in privato, e libera dai debiti e distribuisce terra al popolo e ai suoi seguaci, e finge con tutti di essere benigno e mite”, come ci si difenderà da lui? Così Platone descrive l’avvento del tiranno. Gli italiani, che hanno l’animo ribelle ma la postura supina, non sanno difendersi dall’uomo forte con le qualità appropriate, e non sanno dirgli di no quando egli chiede sempre più potere. Un demagogo, quello espresso dalle élite, sembra aver fallito l’attuazione del suo progetto. Ma i potenziali demagoghi sono molti e non mancano mai d’accorrere al capezzale delle democrazie morenti.

Cavallo di Troika


“Povera Europa, che credeva di costruire la sua unità sul denaro, quando non c’è cosa che divida più del denaro gli animi umani. Un’Europa che crede di costruire la sua unità su valori puramente formali e non vede che sta costruendosi sul niente” (Giacomo Biffi).

venerdì 18 novembre 2016

Ahi serva Italia... nave senza nocchiere


Dopo decenni di “euroforia”, con sottofondo di inno alla gioia, eurovisione e giochi senza frontiere, stiamo prendendo atto che questa Europa non è quella dei cittadini che ci si voleva far credere ma quella delle lobby e dei comitati d’affari. Non è quella delle libertà ma quella dei Paesi più forti che dettano le regole ai Paesi più deboli. Non quella della solidarietà bensì quella degli egoismi e delle discordie. È l’Europa della troika che infligge supplizi non agli Onassis, ai Niarchos, ai Melissanidis ma ai poveri salariati e ai pensionati, e mai paga inasprisce viepiù la dose. Ora, è vero – come affermava George Orwell – che “un popolo che elegge corrotti, impostori, ladri e traditori, non è vittima, è complice”, ma è anche vero che di norma un potere superiore interviene per porre rimedio a gravi irregolarità messe in atto dai poteri subordinati, fino a commissariare le cariche elettive (sindaci, governatori) in fin dei conti a protezione della cittadinanza. L’Unione Europea non ha questo potere (grazie al Cielo, date le premesse) ma ha quello di infliggere sanzioni insopportabili e controproducenti di fatto direttamente ai cittadini di uno Stato membro, a protezione dei trattati comunitari, firmati peraltro all’insaputa degli stessi cittadini.

Il filo del nostro discorso ci vede costretti a fare alcune riflessioni critiche nei confronti delle istituzioni europee e della Germania che ne è, quasi con riluttanza, al timone. Ma per chiarire subito ogni equivoco non siamo animati da spirito antieuropeo, semmai siamo amareggiati da questa situazione che richiama stormi d’avvoltoi populisti sul cadavere in decomposizione del Continente. E sarebbe anche troppo comodo accusare i tedeschi di tutti i mali che affliggono l’Europa. La Germania come tutti gli stati membri si sta semplicemente, con qualche miopia, facendo gli affari suoi. Se occupa la posizione che occupa lo si deve semmai ad atteggiamenti più virtuosi rispetto ad altri. È troppo facile recriminare contro i “cattivi” tedeschi, che comunque meglio di noi hanno fatto, visto che sono gl’italiani a cercar lavoro in Germania e non i tedeschi a cercare impiego nelle fabbriche o nei resort italiani. La nostra riflessione critica è un prendere atto del modo sbagliato in cui s’è cercato di costruire l’Europa, della superficialità con cui non s’è tenuto conto delle disomogeneità che dividono le varie culture: quelle nordiche da quelle mediterranee e da quelle slavo-balcaniche. Questo porta a gravi incomprensioni che in questi anni stanno emergendo in tutta la loro gravità. Unite agli egoismi nazionali, ecco approntata la formula esplosiva. La Germania, come tutti gli altri, non è stata in grado di uscire da questa palude, ed essendo la sua azione più gravida di conseguenze è anche quella che più sta contribuendo ad affossare il progetto europeo. A detta di autorevoli studiosi, anche tedeschi, la miopia dovuta all’egoismo e alle differenze culturali, porterà al dissolvimento dell’attuale unione. Certo si costruiranno in seguito nuove aggregazioni, stavolta tenendo conto delle affinità che legano i popoli europei, perché in un mondo dove spadroneggiano entità sovranazionali sarà inevitabile aggregarsi.

E un’ultima parola sui governanti di casa nostra, sempre pronti ad apparire nelle foto di gruppo, e a vantare meriti inesistenti su un’adesione all’Europa costruita malissimo e pedissequamente. Che al contrario degli statisti tedeschi non hanno saputo perseguire gl’interessi nazionali. Mentre la Germania si riunificava con i nostri soldi e risanava le sue banche con il beneplacito di tutti, noi apportavamo modifiche alla nostra costituzione secondo i criteri di Berlino e accettavamo in silenzio il bail-in che ha gettato sul lastrico, e nella disperazione fino al suicidio, i nostri piccoli risparmiatori. Solo adesso ci si inquieta sui pericoli derivanti da una germanizzazione della governance europea, dopo quasi un ventennio che quel Paese impone, elemento dopo elemento, la sua visione di politica economica senza che nessuno dei nostri osasse eccepire o tutelarsi pretendendo clausole di salvaguardia. E come avrebbero potuto? Mentre in Francia si succedevano due soli presidenti e in Germania due soli cancellieri, in Italia si susseguivano 17 presidenti del consiglio, tutti concentrati sui loro giochini di potere, e assolutamente inconsapevoli e non in grado di capire cosa effettivamente si stava decidendo a Parigi e a Berlino. D’altra parte, forse ha ragione Orwell: ognuno ha i governanti che si merita. E così uomini incapaci di amministrare un condominio ci vengono spacciati per grandi statisti e salvatori della patria. Nel frattempo sono entrate nel nostro vocabolario espressioni come “olgettine”, “esodati” e “stai sereno”. “Ahi serva Italia… nave senza nocchiere…”. Parole sempre attuali del sommo Vate. Gli fa eco il Petrarca quando si chiede: “Che s’aspetti non so, né che s’agogni Italia, che suoi guai non par che senta: Vecchia, oziosa e lenta, dormirà sempre, e non fia chi la svegli?” (Rime, 53, 10-13). Il nostro è un problema antico e ben sedimentato.

giovedì 17 novembre 2016

L'egemone riluttante


Nell’analisi di questa settimana ascoltiamo Jürgen Habermas, il più autorevole filosofo e sociologo tedesco vivente, nelle critiche che muove al suo Governo riguardo alle politiche europee. Habermas ritiene la Germania di questi anni, ancor più della Francia, il maggiore ostacolo al processo di unificazione europea e causa di disaffezione dei cittadini europei per le istituzioni comunitarie. Egli definisce il proprio Paese un “egemone riluttante”, nel senso che esercita la propria leadership europea con insensibilità e miopia, nel solo proprio interesse immediato piuttosto che nell’interesse comune, attuale e futuro. Tutta acqua al mulino dei populismi euroscettici.



All’indomani del referendum che ha deciso per la Brexit, il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier stava per convocare i colleghi dei sei Stati fondatori per riflettere insieme sull’accaduto. Questo gesto del ministro socialdemocratico si sarebbe potuto leggere come il desiderio di voler ricostruire l’Europa su quelle basi politiche di cui era impregnata la sua fondazione. L’iniziativa non piacque alla cancelliera Merkel, proprio per questa valenza che ormai la Germania non persegue più. Giustappunto quella Germania, che dall’Unione ha tratto i maggiori benefici, sta facendo marcia indietro nel sia pur lentissimo percorso di maggiore integrazione politica e istituzionale. Persino il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, considerato il più federalista tra i politici tedeschi, ha ormai abbandonato l’idea di un’Europa a due velocità, la cosiddetta Europa del nucleo (Kerneuropa) che di fatto avrebbe dovuto coincidere con i Paesi dell’unione monetaria. Ebbene adesso Schäuble ha annunciato una svolta che va in tutt’altra direzione, ovvero nel rafforzamento delle relazioni intergovernative. Egli non esclude in futuro un’Europa che avanzi nel suo processo d’integrazione ma ciò che importa adesso è impedire che si rafforzino le istituzioni europee (il Parlamento e la Commissione) per lasciare le mani libere ai governi che si riconosceranno nell’iniziativa. Il che implica un’Europa dove i governi e i parlamenti dei Paesi più forti dominano quelli dei Paesi più deboli o, ancora più esplicitamente, una Germania che domini su tutti, che detti la sua agenda, le sue priorità, le sue ricette di politica economica. Lo sta già facendo in realtà, ma i recenti attriti tra Schäuble e Juncker – il presidente della Commissione europea – rendono ancora più evidente l’insofferenza della Germania per le istituzioni europee che pur recependo le sue “direttive” non le fanno applicare con la dovuta celerità e intransigenza. “Non è il momento giusto per le grandi visioni. La situazione è così grave – afferma  Schäuble – che è necessario smettere di giocare ai soliti giochi dell’Europa e di Bruxelles”. Ormai è chiaro che i tedeschi non accetteranno mai di consegnare a Bruxelles i poteri dell’unione fiscale. L’idealismo di Adenauer e Kohl è acqua passata, l’appetito vien mangiando, e l’idea di Europa che ormai hanno i tedeschi è quella di una grande Germania che annette gli altri Stati che fanno fino in fondo i compiti a casa, che lei stessa ha assegnato. “Una buona ricetta per la disintegrazione”, è il commento di Sergio Fabbrini del Sole 24 Ore.

Jürgen Habermas, l’autorevole filosofo sociale e politologo tedesco, afferma che l’unico tragitto percorribile d’integrazione europea è quello previsto dai federalisti: ovvero una cooperazione approfondita e vincolante decisa dagli Stati motivati a risolvere in modo serio e solidale tutti i problemi man mano che si presentano, a cominciare da quelli sociali ed economici. Il Welfare e la democrazia sono inscindibili dal processo di integrazione europea perché senza di essi è impossibile creare consenso presso la cittadinanza. La costruzione europea invece negli ultimi anni ha trascurato questi due pilastri portanti, e infatti il loro sbriciolarsi sta mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Habermas attribuisce gran parte di questo disastro proprio alla Germania. Molto più che alla Gran Bretagna e alla Francia. I britannici hanno sempre visto l’Europa comunitaria come area di libero scambio, sono entrati tardi e adesso ne stanno uscendo. Se hanno potuto far danno è perché gli altri glielo hanno consentito. Discorso diverso è per i francesi e i tedeschi che sono i due azionisti di maggioranza dell’Unione. È per impedire che si facessero nuovamente guerra che hanno deciso di avviare questo processo di integrazione. Le motivazioni iniziali erano chiare e potenti quanto evidente era il disastro causato dalla guerra appena conclusa. Inizialmente fu la Francia ad evidenziare un atteggiamento contraddittorio con la sua resistenza a fare rinunce in tema di sovranità, già nel 1954, quando affossò la Comunità europea di difesa. E questa riluttanza non l’ha mai del tutto abbandonata. Le resistenze della Germania risalgono invece a dopo l’unificazione con la DDR e, soprattutto, in concomitanza con la grande crisi economica del 2008. Rapidamente essa è diventata il maggiore ostacolo al processo di unificazione europea e causa di disaffezione dei cittadini europei per le istituzioni comunitarie. Habermas definisce il proprio Paese un “egemone riluttante”, nel senso che esercita la propria leadership europea con insensibilità e miopia, nel solo proprio interesse immediato piuttosto che nell’interesse comune, attuale e futuro. Questo esercizio di miopia ed egoismo scambia leadership (che dovrebbe comportare responsabilità) con proiezione e piena realizzazione delle “proprie idee di ordine”, per dirla con la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 29 giugno 2016. Il governo di coalizione presieduto da Angela Merkel dà di se stesso di fronte alla propria opinione pubblica l’immagine di difensore autentico dell’idea di Europa quando invece le sta scavando la fossa. Esso approfitta abbondantemente di questa posizione di dominio per dettare la propria linea e trarne vantaggi; al contempo rifiuta le corrispondenti responsabilità che la leadership internazionale richiede, e questo crea serie difficoltà nei Paesi più fragili. Crea risentimenti. “Come devono sentirsi uno spagnolo, un portoghese o un greco che hanno perso il posto di lavoro in seguito alla politica di risparmio decisa dal Consiglio Europeo?”, fa notare Habermas. Politica imposta proprio dalla Germania, senza al contempo che essa si assuma la co-responsabilità per le conseguenze sociali disastrose che tali politiche producono. Adesso la Germania non potrà neppure nascondersi dietro la foglia di fico delle istituzioni europee, che essa sta esautorando attraverso l’intergovernamentalismo invocato da Schäuble, per prendere in mano direttamente le redini del potere comunitario. Ormai chi comanda davvero è venuto allo scoperto, e non si potrà più raccontare ai cittadini vessati che “lo vuole l’Europa”. Lo vuole la Germania, fautrice di una disastrosa politica “che utilizza e al contempo nega il disturbato equilibrio del potere europeo”, con l’evidente scopo di godere dei vantaggi del dominio senza volersene assumere le responsabilità. L’intergovernamentalista Schäuble afferma che la concertazione diretta tra i governi produce risultati concreti, e porta l’esempio della fruizione dei contenuti digitali senza barriere all’interno dell’Unione o l’attenzione sulla politica dei rifugiati, con la proposta di fondare un diritto d’asilo europeo. Argomenti cioè che, guarda caso, interessano ai tedeschi. Il tema scottante, invece, della drammatica disoccupazione giovanile nei paesi del sud viene da lui semplicemente ignorato. Allora, voler dettare l’agenda con le priorità decise da Berlino non è politica europea, è politica tedesca e questo alla lunga non è sostenibile e già adesso non può che far nascere risentimenti.


martedì 15 novembre 2016

Donald Trump sull'Europa


Adesso che l’elezione di Donald Trump è un dato di fatto, le sue affermazioni sull’Europa acquistano un nuovo peso. Prendiamo ad esempio ciò che dichiarò in un’intervista durante la sua visita in Scozia nel mese di Giugno. All’indomani del voto sulla Brexit, egli aveva affermato che in Occidente è in corso una rivoluzione epocale provocata da emigrazione e crisi economica che negli Stati Uniti si sarebbe tradotta nel suo ingresso alla Casa Bianca; in Europa tale crisi sta causando lo sgretolamento delle istituzioni comunitarie. La Brexit è solo il primo esempio, a cui presto sarebbero seguite altre uscite, a cominciare da quelle di Italia e Francia. È un fatto positivo – affermava – che i singoli Paesi possano tornare a governarsi autonomamente e a determinare il proprio destino. “Lo sgretolamento dell’Europa invece è un dato di fatto, non una mia opinione. Dipende dagli errori commessi dalle sue leadership inadeguate”. Riguardo alla Merkel, ha definito “sciagurata” la decisione di accogliere i rifugiati. “Così ha trasformato la Germania in un Paese da cui i suoi abitanti vogliono scappare”. A una settimana dalla sua elezione ha avuto colloqui telefonici con Putin e con i leader populisti europei come Farage e Le Pen, mentre ha snobbato Junker che, insieme al presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, gli aveva inviato una lettera per invitarlo presto ad un vertice Usa-Ue. “The Donald” ha fatto capire che nella nuova Casa Bianca si parlerà poco di Unione Europea e molto di rapporti bilaterali con i singoli Stati del Vecchio Continente.

domenica 13 novembre 2016

Elezione di Trump, crisi del modello democratico?


“Mi dispiace dover essere ambasciatore di cattive notizie… Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente. Presidente Trump. Forza, pronunciate queste parole perché le ripeterete per i prossimi quattro anni: ‘PRESIDENTE TRUMP’. In vita mia non ho mai desiderato così tanto essere smentito”. Scriveva così a luglio Michael Moore, il noto regista di “Bowling a Columbine” ed altri fortunati documentari che denunciano alcune distorsioni nel sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti. “Purtroppo, state vivendo in una campana di vetro dotata di camera dell’eco, dove voi e i vostri amici siete convinti che gli Americani non eleggeranno mai un idiota come presidente”, proseguiva Moore. “Dovete uscire da quella campana, adesso. Cercate di consolarvi con la logica: le persone non voteranno per un buffone o contro i loro interessi”. E quindi spiegava i cinque motivi per cui egli era sicuro della vittoria del tycoon newyorkese. Allora gli analisti ignorarono quest’articolo di Moore ed altri lo derisero. Ma c’era poco da ridere perché la sua analisi si è dimostrata corretta, al contrario di quella dominante tra i professionisti dell’informazione, della politica, delle università, degli istituti di sondaggio, dei templi della finanza. Come si spiega questo colossale abbaglio?

Come è potuto diventare presidente degli Stati Uniti “un candidato così mediocre, violento, xenofobo e con posizioni tanto protezioniste e improntate a un liberismo sfrenato”? Se lo chiede Fausto Durante, responsabile delle politiche europee e internazionali della Cgil. A suo avviso è una domanda che “bisogna porsi un po’ tutti”, poiché è un segnale inequivocabile di un “fenomeno epocale e grave”. È un segnale della crisi del modello democratico nei paesi occidentali. La diffidenza nei confronti del sistema democratico ha toccato i massimi livelli dopo la crisi economica del 2008. Come dire che la crisi e i suoi postumi hanno smascherato i limiti della democrazia. Ciò che ha colpito molti cittadini in quel periodo è stata l’impotenza dei loro leader democraticamente eletti di fronte al caos finanziario. Se non, ancora peggio, la loro connivenza con le oligarchie finanziarie ed economiche. I cittadini cominciano a scoprire, come sostengono i teorici delle élite, che la stessa democrazia è sostanzialmente un’oligarchia. Certo, è la scoperta dell’acqua calda. Lo affermava già Platone nel Menesseno: “La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse”. È inevitabile che le società umane si dividano tra una minoranza che governa ed una maggioranza che è governata, ed è inevitabile che la suddetta minoranza si ponga come principale obiettivo quello di salvaguardare i propri privilegi. Ma l’illusione è durata finché la base elettorale si è sentita in qualche modo rappresentata dall’élite per cui ha votato. Poi però con la crisi economica sono arrivate le politiche di austerità: i governi hanno detto agli elettori che avrebbero tagliato la spesa per le scuole, gli ospedali, le pensioni. I posti di lavoro non sono più stati tutelati, i salari sono stati ridotti, molte famiglie hanno perso la casa. I programmi dei partiti progressisti si sono fatti sempre più simili a quelli dei partiti conservatori, e dal momento che la politica non riesce più a distinguersi tra Sinistra e Destra, le società occidentali finiscono per dividersi tra Alto e Basso, tra Privilegiati e Subalterni.

E allora chi ha votato Trump? Lo hanno votato le periferie, delle città come delle zone rurali. I più colpiti dalla globalizzazione, le vittime delle delocalizzazioni, i licenziati e coloro che hanno visto diminuire costantemente i loro salari reali, mentre le grandi multinazionali si accaparravano sotto forma di profitti una fetta del reddito prodotto mai così grande dal secondo dopoguerra. I 30 milioni di sfrattati che hanno perso la casa di proprietà, senza alcuna tutela, anzi con la truffa dei robo-signing messa in atto dalle stesse banche che avevano innescato la crisi con l’immissione sul mercato di titoli tossici. Quelle stesse banche che poi sono state salvate con enormi quantità di denaro pubblico. È stato un calcolo sbagliato – afferma la politologa Nadia Urbinati – confidare nel fatto che la classe lavoratrice avrebbe seguito i Democratici, comunque, anche nella condizione di grandissima sofferenza in cui si trova, così come aveva fatto con Obama. Su questo si sono illusi sia Hillary Clinton e il suo staff, che lo stesso Partito Democratico. Quella che fu la Middle Class – metteva in guardia Michael Moore – è arrabbiata e amareggiata dall’effetto a cascata delle politiche reaganiane, ma si sente ingannata e abbandonata anche dai Democratici che predicano ancora bene in campagna elettorale ma che non vedono l’ora di flirtare anch’essi con i lobbisti della Goldman Sachs pronti a staccare assegni milionari. L’elezione di Trump – afferma il leader del Labour, Jeremy Corbyn – “è uno choc comprensibile, un rigetto implacabile dell’establishment politico e del sistema economico”.  

Se i beneficiati dalla globalizzazione avessero messo il naso fuori dalla loro bolla avrebbero capito che candidare e sostenere Hillary Clinton sarebbe stato un errore; perché la Clinton rappresenta proprio ciò che gli esclusi e i puniti detestano. Essa è una donna che vive di potere, che si è arricchita con la politica e che rappresenta proprio quei poteri forti che hanno impoverito il Paese. Se il Partito Democratico non fosse ormai ridotto a un’oligarchia inaccessibile e corrotta rinchiusa dentro le istituzioni non avrebbe trescato per fermare Bernie Sanders che era invece sintonizzato sui problemi della gente e aveva intercettato il voto dei giovani. E adesso – scrive Flavia Perina – “è stupidamente consolatoria la reazione di chi, a sinistra o comunque nell’area progressista, si affida ancora una volta alle parole ‘populismo’, ‘ignoranza’, ‘manipolazione propagandistica’. Si prenda atto dell’esistenza di un conflitto sociale e politico su larga scala. Si prenda atto di uno scontro di classe in corso a livello planetario. Si accetti l’idea che la globalizzazione e il suo portato sono rifiutati da larga parte degli elettorati occidentali, e chi si schiera da quella parte perde. Si metabolizzi il pensiero che Trump non ha vinto solo nella sfida finale con Hillary Clinton, ma che ha macinato uno dopo l’altro tutti i suoi concorrenti più moderati e filo-establishment della scena repubblicana”.

Per Trump xenofobo, sessista, evasore fiscale, ultramiliardario e ultraliberista, hanno votato non solo i bianchi non scolarizzati, razzisti e maschilisti, ma anche gli operai, le donne e persino parte delle minoranze etniche che egli aveva disprezzato. Come possono questi ultimi sentirsi rappresentati da lui?  Eppure lo hanno votato, nonostante i media e gli intellettuali avessero cercato in tutti i modi di stigmatizzarli e intimidirli. Anzi, ottenendo il risultato opposto a quello sperato. È stato solo un voto di pancia, non ragionato, sedotto dalle parole dell’insolente pifferaio? Non proprio.

L’outsider Trump è riuscito a convincere il popolo dei delusi e degli arrabbiati che questa è la loro occasione! L’occasione per opporsi a tutti coloro che hanno distrutto il Sogno Americano. Il loro sogno. Ed è per questo che essi lo hanno votato, per la rabbia che essi sentono verso un sistema politico corrotto. “Per stravolgere un po’ le cose”. Non necessariamente sono d’accordo con tutto ciò che dice, non necessariamente egli piace loro, possono persino disprezzarne il fanatismo e l’ego. Tutti gli scheletri nell’armadio che la stampa schierata gli ha lanciato contro, li ha lasciati indifferenti. Perché egli – per usare le parole di Moore – è la loro “Molotov personale da lanciare ai bastardi che hanno fatto loro questo!” Se essi per l’establishment non contano nulla, almeno il loro voto conta quanto quello di tutti gli altri. Essi hanno mandato un messaggio e Trump è il loro messaggero! Il loro è un voto “contro”, espresso anche a rischio del loro futuro perché esasperati dal proprio presente.


Ma Trump non è un docile petardo di cui servirsi per scuotere il sistema. È un’incognita, un imprevedibile, non sappiamo neppure se avrà la voglia e la forza di riportare le fabbriche di automobili e smartphone negli USA per la gioia degli operai che lo hanno votato. Ha promesso che abolirà l’Obamacare, la riforma sanitaria voluta da Obama. La sua ammirazione per l’autoritario Putin inquieta, non avendo egli fatto mistero del suo disprezzo per le regole. È dubbio che con Trump il mondo sarà un luogo più sicuro e, soprattutto, la vera incognita per gli americani – afferma Nadia Urbinati – saranno i diritti civili. La tolleranza negli USA è garantita da emendamenti che possono sempre essere revocati. Il Ku Klux Klan ha esultato per l’elezione di Trump. L’America è la patria del linciaggio e del maccartismo che negli anni ’50 vide affermarsi un clima di persecuzione con liste di proscrizione e censura della stampa. Sorprende comunque che sia la democrazia americana la prima ad aprire le porte alla tumultuosa rivolta contro le èlite. Le oligarchie europee si sentono spiazzate, temono il contagio ed hanno tutti i motivi per inquietarsi.


giovedì 10 novembre 2016

Stato sociale e federalismo


Questa settimana la nostra analisi ha per oggetto il pensiero di William Beveridge, conosciuto come il padre del Welfare State, quel complesso di politiche volute per ridurre le disuguaglianze sociali. Pochi sanno però che Beveridge, oltre ad essere un riformatore sociale, era anche un europeista convinto. Anzi, forse in nessun altro i due aspetti erano così intrecciati tra loro. Infatti lo stato sociale era per lui il modo più efficace per controllare le pulsioni distruttive del mercato, creare consenso attorno ai regimi democratici e contrastare i nazionalismi fomentatori di guerre.



Chi studia politiche sociali non può non imbattersi in William Beveridge, universalmente riconosciuto come il padre del Welfare State. Economista e sociologo, Beveridge era un liberale, anche se egli amava poco le etichette e le ideologie. Fu molto amico dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, fondatori del socialismo fabiano. Alla fine si definì un liberale dal programma radicale. Del socialismo temeva la prassi, perché a suo dire, la sua applicazione avrebbe provocato l’ingiusta attribuzione di vantaggi ai non meritevoli. Ma al contempo credeva nel ruolo attivo dello Stato e nella necessità della solidarietà tra classi diverse come unico modo per far progredire il corpo sociale. Dal 1919 al 1937 diresse la prestigiosa London School of Economics and Political Science. Nel 1941 fu chiamato dal ministro della Ricostruzione Arthur Greenwood a dirigere una Commissione Interministeriale con il compito di effettuare una “indagine sui vigenti sistemi di assicurazione sociale e servizi sociali affini”. Ciò che chiedeva il Ministro era solo un’indagine che fotografasse la complessiva area delle retribuzioni e delle assicurazioni sociali, al fine di offrire degli elementi conoscitivi alla Commissione dei problemi di ricostruzione – da lui presieduta – come base di discussione in vista di una futura riforma. Ma Beveridge fece molto di più, egli stese un dettagliato progetto di Protezione Sociale con il dichiarato obiettivo di sconfiggere i “cinque giganti che tengono schiava l’umanità: la miseria, la malattia, l’ignoranza, la disoccupazione e il degrado abitativo”. Alla ricerca di un non facile compromesso tra i meriti dell’individualismo liberale e l’esigenza di proteggere gli individui dalle conseguenze negative dell’economia di mercato, esso proponeva una impostazione insieme universalistica e assicurativa del welfare. Ossia un sistema fondato sulla corrispondenza tra il dovere di contribuzione e il diritto alle prestazioni ma al contempo che garantisse a tutti i cittadini un livello minimo di sussistenza. Per individuare le modalità di finanziamento del progetto egli si avvalse delle indicazioni che gli suggerì l’amico Maynard Keynes, anch’egli liberale e sostenitore di politiche interventiste da parte dello Stato.

Il Rapporto Beveridge fu presentato alla stampa il primo dicembre 1942 e il giorno seguente messo in vendita nelle principali librerie del Regno Unito suscitando un grande interesse: ne verranno vendute 645.000 copie. I tempi erano favorevoli. La guerra contro l’aggressore nazista aveva compattato la società britannica e reso accettabili le politiche solidali. I conflitti sociali sembravano dimenticati. Si spiega così l’incredibile entusiasmo con cui il Rapporto Beveridge venne accolto dall’opinione pubblica e dalla stampa. Molto più fredda fu invece la sua ricezione da parte degli ambienti governativi, in particolare del Premier, il conservatore Wiston Churchill che ufficialmente, per ragioni d’immagine, sia pur senza entusiasmo appoggiò il Rapporto ma in privato definì Beveridge “un venditore di fumo e un sognatore”. Non tutti i conservatori però furono ostili: ad esempio i deputati guidati da Quintin Hogg appoggiarono il piano e accusarono Churchill di essere unconstructive and unimaginative. Teniamo presente inoltre che questo era un governo di coalizione e buona parte dei ministri laburisti, a cominciare da Clement Attlee e dallo stesso Greenwood, che aveva commissionato l’indagine, furono favorevoli. Questa minore attenzione alle riforme sociali (e in genere alla politica interna) pesò non poco sulla sconfitta di Churchill nelle elezioni del 1947. Solo allora il nuovo esecutivo laburista, presieduto da Attlee, quasi a furor di popolo diede attuazione al progetto di Beveridge, ovvero alle politiche di welfare: la costruzione di nuove case, le cure sanitarie gratuite per tutti, il diritto allo studio, la lotta alla disoccupazione e la protezione delle categorie svantaggiate. Dopo aver vinto la guerra adesso occorreva vincere la pace, scongiurando una crisi simile a quella che aveva sconvolto il mondo nel 1929; allora i conservatori avevano adottato politiche del credito restrittive con il risultato di accrescere la disoccupazione e deprimere i consumi.

Ma il Report viaggiò pure fuori dal suolo britannico. Fu distribuito alle truppe dell’esercito inglese in versione tascabile per rinsaldare l’amor patrio. Circolò pure tra le truppe degli altri eserciti europei a fini di propaganda per esaltare i valori della democrazia. Fu anche pubblicizzato dalle frequenze di Radio Londra, suscitando interesse tra le popolazioni dell’Asse. Ovviamente i regimi fascista e nazista, che ne riconobbero il potenziale rivoluzionario, lo attaccarono pesantemente. Suoi riferimenti furono persino trovati nel bunker di Berlino. Cessata la guerra esso divenne il progetto di riferimento per la riformulazione dei programmi assistenziali e previdenziali di tutti i nuovi esecutivi europei. Il che non significò che venisse adottato tale e quale con semplici adattamenti alle realtà locali. In Italia si susseguirono diverse commissioni, già a partire dal governo Badoglio, che ne valutarono la fattibilità in termini di sostenibilità economica e culturale. L’unica componente politica che vi si riconobbe senza troppi distinguo fu la corrente dossettiana, che è stata definita la sinistra “culturale” della Democrazia Cristiana, in particolare Amintore Fanfani e Giorgio La Pira. Il resto della DC, espressione dei poteri forti della finanza, delle élites e di quegli interessi di settore determinati a non perdere i loro privilegi, oppose resistenza a una radicale riforma del sistema socio-previdenziale. Ma anche le sinistre si rivelarono confuse nel prendere posizione a favore di un sistema con connotati universalistici. In linea teorica auspicavano una riforma profonda e complessiva ma al contempo trovavano inaccettabile dover riservare analogo trattamento, come diritto di cittadinanza, “ad Agnelli e ai suoi operai”. Quando nel 1948 Fanfani fu nominato Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel governo De Gasperi, sembrò che le cose potessero cambiare. Egli chiamò La Pira (ammiratore di Beveridge e di Keynes) a fargli da sottosegretario, e nominò Ludovico d’Aragona a presiedere la costituenda Commissione per la riforma della previdenza sociale. La scelta non fu casuale. D’Aragona era stato membro della Commissione Rava del 1917-1920 che aveva prodotto una proposta di riforma di tipo universalistico. L’Italia usciva prostrata dalla I Guerra mondiale e una parte dei liberali democratici e dei socialisti pensò ad una coalizione politica in funzione di pacificazione sociale, ma poi non se ne fece nulla perché prevalsero altre logiche che consegnarono il Paese a Mussolini. D’Aragona, socialdemocratico ma in sintonia con la visione dossettiana, propose alla sua Commissione una impostazione dei lavori ispirata agli schemi della Commissione Beveridge sperando di poter orientare la legislazione italiana verso un sistema di protezione sociale con contenuti universalistici. Ma questa impostazione fu rigettata dalla Commissione. Quando nel 1951 Giuseppe Dossetti diede le dimissioni dal Consiglio Nazionale della DC, le motivò con il fatto che essa nella sua azione di partito e di governo era venuta meno agli impegni politici, economici e sociali che erano stati assunti da De Gasperi nel Consiglio Nazionale di Grottaferrata. Il Welfare italiano era basato su una cultura familistica, paternalistica e patriarcale. La nostra tradizione previdenziale, di chiara derivazione bismarckiana, era incentrata sulle “assicurazioni sociali obbligatorie”. Gli interventi pubblici a fini sociali, concessi dall’alto, hanno sempre avuto come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo, facendo così assumere alle politiche sociali un carattere particolaristico e discriminante. Questa impostazione di fondo non è mai stata cambiata. Innesti universalistici sono avvenuti nel tempo solo per aspetti specifici e circoscritti: la riforma della scuola dell’obbligo (1962), l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (1978) e l’introduzione della pensione sociale (1969) che, per il suo ammontare, da sola, non garantisce all’anziano una sopravvivenza decorosa ma è pur sempre un provvedimento di rottura in una cultura rigidamente previdenziale. Con il risorgere delle politiche liberiste, a partire dagli anni Ottanta, l’attuale sistema di protezione sociale, cominciò ad essere posto in discussione. Soprattutto nei suoi, sia pur limitati, aspetti universalistici. Non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Le successive “riforme” sociali in risposta alla crisi economica vanno nel verso di un arretramento dell’azione dello Stato e dell’avanzamento del mercato. La validità di questo percorso a ritroso non può neppure essere discussa, eppure i risultati di tale processo appaiono controversi soprattutto sul piano della loro compatibilità con quei diritti di cittadinanza sociale posti alla base di una grande parte degli ordinamenti costituzionali europei.

Gli scritti di Beveridge, anche quelli anteriori al suo Report, erano ben noti a due personaggi che abbiamo già incontrato: Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi. Il fatto in sé non sorprende: le politiche sociali sono strettamente connesse a quelle economiche ed Einaudi era un grande economista. L’economia era anche la materia di Rossi: fu lui a redigere la sezione economica del Manifesto di Ventotene. Ma vi è un filo rosso che lega queste persone e che rende ancora più significativa la ragione per cui Einaudi e Rossi leggessero Beveridge. Questi infatti oltre ad essere un riformatore sociale fu anche un europeista convinto: mentre criticava le ingiustizie sociali criticava i nazionalismi. Ed ecco spiegata l’importanza che egli ebbe per i federalisti italiani. Beveridge, mentre infuriava una guerra dagli esiti incerti, con la sua proposta di Welfare State indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dalle dittature e suggeriva la confortante prospettiva di affrancamento dalle miserie prodotte dalla vita di relazione in un sistema di democrazia vera e attiva. Beveridge combatteva una duplice battaglia a favore del welfare e dell’Europa. Considerava i due aspetti non disgiungibili. L’Europa si edifica nelle solidarietà e si disfa negli egoismi ad ogni livello. Ed è ciò che stiamo osservando accadere puntualmente, prima nella buona e adesso nella cattiva sorte. In “eurovisione” potremmo dire in una battuta. Beveridge era un utopista con i piedi piantati per terra, nel senso che la sua utopia non era un astratto fantasticare ma concreta determinazione a cambiare la realtà, perché l’alternativa sarebbe la rovina del nostro Continente. Scriveva nel 1940, quando la Wermacht avanzava inarrestabile: “Il nostro piano osa essere utopico e ha bisogno di esserlo, perché la scelta non è più fra l’utopia e il mondo gradevole e ordinato che i nostri padri hanno conosciuto. La scelta è fra l’utopia e l’inferno.”

Nei trent’anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, gli europei avevano assaporato l’inferno. Gli Stati-nazione avevano dato il peggio di sé sfogando senza freni i loro nazionalismi, complice la crisi economica degli anni Trenta che aveva distrutto la classe media e gettato milioni di disoccupati e diseredati tra le braccia delle dittature e nella tragedia delle guerre. Le istituzioni europee nacquero come patto di guerra. Ai popoli che avevano fatto esperienza delle bombe e dei campi di battaglia, ma anche di una crisi economica e sociale gravissima, si proponeva un patto continentale basato sulla collaborazione e sulla solidarietà. L’Europa era partita con il giusto passo e con il giusto spirito. Si parlò allora di nuova età dell’oro del capitalismo, quella dell’espansione e della piena occupazione. Ma non si trattava del classico capitalismo che riconosceva la sola legge del mercato. Fu in realtà la vittoria di un capitalismo dimezzato e sorvegliato. Fu la storia felice di una convivenza tra il liberalismo e il socialismo, due ideologie antitetiche e complementari, che non si sono mai amate, costrette a coabitare per motivi d’interesse. Durante quegli anni fu possibile qualcosa oggi inimmaginabile: l’abbassamento globale delle differenze sociali quasi ad ogni livello. Ma fu una formula fortunata determinata pur sempre da una costrizione. Dal patto di solidarietà postbellica. Poi il benessere diffuso ha riattizzato l’egoismo sociale, e la caduta del Comunismo ha rincuorato gl’imprenditori e li ha riconcentrati sulla loro specifica missione che è quella di perseguire il massimo profitto. Nel frattempo le istituzioni europee andavano perdendo l’iniziale slancio ideale. L’utopia federalista lasciava il posto alla politica funzionalista dei piccoli passi su progetti delimitati, prevalentemente mercantili. Le resistenze falsamente pragmatiche hanno riattizzato gli appetiti nazionali e immiserito il pensiero del futuro.

Oggi che servirebbe riaffermare il “patto di guerra” delle origini, fondato sui due pilastri dell’antinazionalismo e della solidarietà tra le classi, invece si va in direzione opposta assecondando l’illusione sovranista degli Stati nazionali e la sottomissione ai mercati mondializzati. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Europa è sempre meno una comunità e sempre più un’accozzaglia di discordie, disinteressata a far valere persino i principi solenni che si diede quando fu fondata. Neppure la democrazia è ormai un valore imprescindibile. Oggi il primo ministro ungherese Viktor Orbán può affermare impunemente: “Io non penso che la nostra adesione all’Unione europea ci precluda la possibilità di costruire un nuovo Stato illiberale fondato sul lavoro e la nazione”. Sulla falsariga di Stati come la Russia, la Cina e la Turchia che “non sono liberal-democrazie e forse neanche democrazie, ma conoscono un successo certo”. E vista la scarsa reazione che suscitano le sue parole e i suoi provvedimenti, forse ha anche ragione a pensarla così. Altri governi come quello polacco, rassicurati dallo stordimento comunitario, cominciano a muoversi nella medesima direzione. Proprio la Polonia addirittura sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento europeo e la Commissione europea che si sono permesse di criticare timidamente le sue scelte illiberali se non autoritarie. Ed Erdogan, il presidente della Turchia, mentre sta sprofondando il suo Paese nella dittatura non osa sfidare l’Unione Europea pretendendo di ottenere ulteriori privilegi?

Ecco così acquisire impellente attualità il pensiero di William Beveridge: l’Europa può sussistere solo in forma realmente federata e in presenza di politiche di Welfare State. Tant’è vero che il loro odierno disfarsi sotto un vento neoliberista sta mandando in rovina l’edificio unitario nel Continente. Noam Chomsky, linguista di fama internazionale, è anche un pensatore politico piuttosto radicale. Egli si definisce “socialista libertario” e simpatizzante dell’anarco-sindacalismo. Lo citiamo perché ha fatto del neoliberismo, inteso come dottrina economica basata sulla radicalizzazione della centralità del mercato, l’oggetto della sua critica più implacabile. Egli afferma che esso è causa di vari disastri sociali, come il crescente divario tra ricchi e poveri e la perdita di controllo sul potere statale da parte dei cittadini. Egli denuncia gli attuali sistemi di potere come ingiusti e profondamente immorali, e accusa le lobby economiche di strumentalizzare la quasi totalità dei mezzi d’informazione. L’obiettivo sarebbe quello di controllare e manipolare l’opinione pubblica per “fabbricare il consenso”. L’anestesia delle classi subalterne consente a queste di accettare passivamente politiche di austerità nel bel mezzo di una crisi recessiva, com’è avvenuto in questi anni in Europa, con risultati disastrosi per la gente comune soprattutto nei paesi periferici dell’euro. Chomsky afferma che è in atto una vera lotta di classe all’incontrario con l’obiettivo di minare la democrazia ed eliminare le conquiste della socialdemocrazia. Man mano che viene demolito il Welfare State, esso viene sostituito con uno “stato sociale” progettato per beneficiare le classi più abbienti. È al contempo in atto uno svuotamento delle istituzioni democratiche perché i ricchi amano le mani libere e temono l’alleanza del popolo con i demagoghi. Era pure così nelle democrazie antiche. Lo comprese anche Aristotele quando affermò che la distruzione della classe media uccide la democrazia e apre la porta alle tirannie. E questo però dovrebbe preoccupare le lobby che detengono il vero potere, perché le finte democrazie finiscono per esasperare il popolo immiserito che si lascerà sedurre dal demagogo di turno, e questi cerca solo il proprio tornaconto e fa solo alleanze di comodo. Impoverire il popolo alla lunga non paga le oligarchie. Afferma Chomsky: “Quando il centro collassa, rimangono solo gli estremi. Sono abbastanza vecchio da ricordare i discorsi di Hitler alla radio. Mi ricordo l’eccitazione, la paura … paura. Questo è accaduto in Germania negli anni ’30. Un decennio prima, nel 20, la Germania era al culmine della civiltà occidentale in termini scientifici e culturali. Dieci anni dopo era nel più profondo abisso della storia del genere umano. È quello che succede quando il centro scompare”. Tocqueville giudicava i ceti medi “nemici naturali” delle rivoluzioni, che solitamente scoppiano per diseguaglianze sociali, affermando che “con la loro immobilità tengono fermo tutto ciò che si trova al di sopra e al di sotto di essi, mantenendo la società nel suo assetto”. Quando alle porte del potere si assiepa un popolo di derelitti senza rappresentanza né vera sovranità, lo sbocco autoritario diventa ineludibile, il Parlamento europeo si riempirà di euroscettici alla Farage, e nei referendum vinceranno le exit, almeno finché il modello d’Europa proposto continuerà ad essere questo. Più avanti nel libro torneremo su Beveridge quando contestualizzeremo la storia del Welfare nella quarta fase del capitalismo, torneremo a parlare di classe media nell’ambito della teoria ciclica delle forme di governo, e parleremo del patto tra liberalismo e democrazia che diede vita alle liberal-democrazie, che si sta sfaldando sotto i nostri occhi. Prospettiva inquietante non solo per la pacifica convivenza nell’ambito nazionale ma anche per la fiducia nella dimensione sovranazionale.